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2025-03-21
«The Residence», la serie enigmatica ambientata alla Casa Bianca
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«The Residence» (Netflix)
Lo show, prodotto dalla florida Shondaland di Shonda Rhimes, si apre durante una cena di Stato a Washington. E sono 132 stanze, 157 individui: è lo sfarzo, il lusso, l'opulenza e insieme il potere degli avventori a stordire chi guardi. Pare un sottomondo dorato, i cui cancelli si aprano per pochi e fortunati eletti. Ma è un attimo, due piedi e qualche macchia di sangue. Il castello crolla, e fra le ceneri si fa largo una figura peculiare. Cordelia Cupp, consulente del Dipartimento di Polizia Metropolitana, è stramba quanto l'attrice che la interpreta, Uzo Aduba, straordinaria in Orange is the new black. Ha capelli riccissimi e un binocolo in tasca, necessario a placare la sua voglia di fare birdwatching. Parla con una schiettezza che sembrerebbe condannarla ad una perpetua inadeguatezza. Eppure, quando si rivolge al presidente degli Stati Uniti in persona, ammonendolo con un freddo «Signore, questa casa deve essere trattata come una scena del crimine», nessuno si scompone. Anzi. Di fronte a Cordelia Cupp, nota per essere la miglior detective che l'universo mondo abbia mai conosciuto, le teste si abbassano, la tracotanza tace. Cordelia Cupp ha il rispetto e la stima di chi incontri, fin del suo partner per imposizione.
Edwin Park, agente speciale dell'Fbi interpretato da Randall Park, vince presto il proprio scetticismo per rendersi conto di quanto straordinaria sia la collega, quanto sbalorditive le sue capacità logiche. Come in ogni poliziesco che si rispetti, Cordelia Cupp ha quel lieve disordine della personalità spesso associato ad abilità deduttive fuori dalla norma. Cosa, questa, che la rende tanto capace quanto stereotipata. Gli stereotipi, però, scemano, quando la narrazione entra nel vivo e i generi si mescolano.
Allora, non c'è più alcun registro codificato, ogni regola salta. La commedia, a tratti, sembra prendere il sopravvento e si ride mentre si investiga, mentre un corpo ormai freddo viene rimosso dal terzo piano della Casa Bianca. Chi lo abbia ucciso e perché, è quel che la Cupp deve scoprire, investigando sui partecipanti alla cena di Stato come avrebbe fatto Agatha Christie nei suoi Dieci piccoli indiani. Solo, con più ironia e sarcasmo. Elementi inediti, perché inseriti in The Residence da sceneggiatori che, deliberatamente, hanno voluto prendere le distanze dal materiale originale.
La miniserie Netflix, difatti, avrebbe dovuto essere un adattamento del libro scritto da Kate Andersen Brower, The Residence: Inside the Private World of the White House. Avrebbe, dunque, dovuto essere uno spaccato esclusivo di come si svolga la vita all’interno della Casa Bianca. Ma le libertà narrative hanno mutato il corso della storia, così il libro è diventato altro: un giallo stravagante e ambizioso, in cui l'andamento procedurale del più classico whodunnit si sposa, e bene pure, con la verve della satira.
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L'idea sembra essere mutuata, almeno in parte, da Knives Out e declinata poi in chiave politica. Fantapolitica, meglio: perché The Residence, miniserie in otto episodi al debutto su Netflix giovedì 20 marzo, l'ha fatto grande quel modo di raccontare il giallo. Magnifico. L'ha portato dentro la Casa Bianca, ibridando il poliziesco con la critica feroce ma divertita della classe dirigente americana.Lo show, prodotto dalla florida Shondaland di Shonda Rhimes, si apre durante una cena di Stato a Washington. E sono 132 stanze, 157 individui: è lo sfarzo, il lusso, l'opulenza e insieme il potere degli avventori a stordire chi guardi. Pare un sottomondo dorato, i cui cancelli si aprano per pochi e fortunati eletti. Ma è un attimo, due piedi e qualche macchia di sangue. Il castello crolla, e fra le ceneri si fa largo una figura peculiare. Cordelia Cupp, consulente del Dipartimento di Polizia Metropolitana, è stramba quanto l'attrice che la interpreta, Uzo Aduba, straordinaria in Orange is the new black. Ha capelli riccissimi e un binocolo in tasca, necessario a placare la sua voglia di fare birdwatching. Parla con una schiettezza che sembrerebbe condannarla ad una perpetua inadeguatezza. Eppure, quando si rivolge al presidente degli Stati Uniti in persona, ammonendolo con un freddo «Signore, questa casa deve essere trattata come una scena del crimine», nessuno si scompone. Anzi. Di fronte a Cordelia Cupp, nota per essere la miglior detective che l'universo mondo abbia mai conosciuto, le teste si abbassano, la tracotanza tace. Cordelia Cupp ha il rispetto e la stima di chi incontri, fin del suo partner per imposizione.Edwin Park, agente speciale dell'Fbi interpretato da Randall Park, vince presto il proprio scetticismo per rendersi conto di quanto straordinaria sia la collega, quanto sbalorditive le sue capacità logiche. Come in ogni poliziesco che si rispetti, Cordelia Cupp ha quel lieve disordine della personalità spesso associato ad abilità deduttive fuori dalla norma. Cosa, questa, che la rende tanto capace quanto stereotipata. Gli stereotipi, però, scemano, quando la narrazione entra nel vivo e i generi si mescolano.Allora, non c'è più alcun registro codificato, ogni regola salta. La commedia, a tratti, sembra prendere il sopravvento e si ride mentre si investiga, mentre un corpo ormai freddo viene rimosso dal terzo piano della Casa Bianca. Chi lo abbia ucciso e perché, è quel che la Cupp deve scoprire, investigando sui partecipanti alla cena di Stato come avrebbe fatto Agatha Christie nei suoi Dieci piccoli indiani. Solo, con più ironia e sarcasmo. Elementi inediti, perché inseriti in The Residence da sceneggiatori che, deliberatamente, hanno voluto prendere le distanze dal materiale originale.La miniserie Netflix, difatti, avrebbe dovuto essere un adattamento del libro scritto da Kate Andersen Brower, The Residence: Inside the Private World of the White House. Avrebbe, dunque, dovuto essere uno spaccato esclusivo di come si svolga la vita all’interno della Casa Bianca. Ma le libertà narrative hanno mutato il corso della storia, così il libro è diventato altro: un giallo stravagante e ambizioso, in cui l'andamento procedurale del più classico whodunnit si sposa, e bene pure, con la verve della satira.
Ansa
L’accordo è stato siglato con Certares, fondo statunitense specializzato nel turismo e nei viaggi, nome ben noto nel settore per American express global business travel e per una rete di partecipazioni che abbraccia distribuzione, servizi e tecnologia legata alla mobilità globale. Il piano è robusto: una joint venture e investimenti complessivi per circa un miliardo di euro tra Francia e Regno Unito.
Il primo terreno di gioco è Trenitalia France, la controllata con sede a Parigi che negli ultimi anni ha dimostrato come la concorrenza sui binari francesi non sia più un tabù. Oggi opera nell’Alta velocità sulle tratte Parigi-Lione e Parigi-Marsiglia, oltre al collegamento internazionale Parigi-Milano. Dal debutto ha trasportato oltre 4,7 milioni di passeggeri, ritagliandosi il ruolo di secondo operatore nel mercato francese. A dominarlo il monopolio storico di Sncf il cui Tgv è stato il primo treno super-veloce in Europa. Intaccarne il primato richiede investimenti e impegno. Il nuovo capitale messo sul tavolo servirà a consolidare la presenza di Fs non solo in Francia, ma anche nei mercati transfrontalieri. Il progetto prevede l’ampliamento della flotta fino a 19 treni, aumento delle frequenze - sulla Parigi-Lione si arriverà a 28 corse giornaliere - e la realizzazione di un nuovo impianto di manutenzione nell’area parigina. A questo si aggiunge la creazione di centinaia di nuovi posti di lavoro e il rafforzamento degli investimenti in tecnologia, brand e marketing. Ma il vero orizzonte strategico è oltre il Canale della Manica. La partnership punta infatti all’ingresso sulla rotta Parigi-Londra entro il 2029, un corridoio simbolico e ad altissimo traffico, finora appannaggio quasi esclusivo dell’Eurostar. Portare l’Alta velocità italiana su quella linea significa non solo competere su prezzi e servizi, ma anche ridisegnare la geografia dei viaggi europei, offrendo un’alternativa all’aereo.
In questo disegno Certares gioca un ruolo chiave. Il fondo americano non si limita a investire capitale, ma mette a disposizione la rete di distribuzione e le società in portafoglio per favorire la transizione dei clienti business verso il treno ad Alta velocità. Parallelamente, l’accordo guarda anche ad altro. Trenitalia France e Certares intendono promuovere itinerari integrati che includano il treno, semplificare gli strumenti di prenotazione e spingere milioni di viaggiatori a scegliere la ferrovia come modalità di trasporto preferita, soprattutto sulle medie distanze. L’operazione si inserisce nel piano strategico 2025-2029 del gruppo Fs, che punta su una crescita internazionale accelerata attraverso alleanze con partner finanziari e industriali di primo piano. Sarà centrale Fs International, la divisione che si occupa delle attività passeggeri fuori dall’Italia. Oggi vale circa 3 miliardi di euro di fatturato e conta su 12.000 dipendenti.
L’obiettivo, come spiega un comunicato del gruppo, combinare l’eccellenza operativa di Fs e di Trenitalia France con la potenza commerciale e distributiva globale di Certares per trasformare la Francia, il corridoio Parigi-Londra e i futuri mercati della joint venture in una vetrina del trasporto europeo. Un’Europa che viaggia veloce, sempre più su rotaia, e che riscopre il treno non come nostalgia del passato, ma come infrastruttura del futuro.
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Brigitte Bardot guarda Gunter Sachs (Ansa)
Ora che è morta, la destra la vorrebbe ricordare. Ma non perché in passato aveva detto di votare il Front National. Semplicemente perché la Bardot è stata un simbolo della Francia, come ha chiesto Eric Ciotti, del Rassemblement National, a Emmanuel Macron. Una proposta scontata, alla quale però hanno risposto negativamente i socialisti. Su X, infatti, Olivier Faure ha scritto: «Gli omaggi nazionali vengono organizzati per servizi eccezionali resi alla Nazione. Brigitte Bardot è stata un'attrice emblematica della Nouvelle Vague. Solare, ha segnato il cinema francese. Ma ha anche voltato le spalle ai valori repubblicani ed è stata pluri-condannata dalla giustizia per razzismo». Un po’ come se esser stata la più importante attrice degli anni Cinquanta e Sessanta passasse in secondo piano a causa delle sue scelte politiche. Come se BB, per le sue idee, non facesse più parte di quella Francia che aveva portato al centro del mondo. Non solo nel cinema. Ma anche nel turismo. Fu grazie a lei che la spiaggia di Saint Tropez divenne di moda. Le sue immagini, nuda sulla riva, finirono sulle copertine delle riviste più importanti dell’epoca. E fecero sì che, ricchi e meno ricchi, raggiungessero quel mare limpido e selvaggio nella speranza di poterla incontrare. Tra loro anche Gigi Rizzi, che faceva parte di quel gruppo di italiani in cerca di belle donne e fortuna sulla spiaggia di Saint Tropez. Un amore estivo, che però lo rese immortale.
È vero: BB era di destra. Era una femmina che non poteva essere femminista. Avrebbe tradito sé stessa se lo avesse fatto. Del resto, disse: «Il femminismo non è il mio genere. A me piacciono gli uomini». Impossibile aggiungere altro.
Se non il dispiacere nel vedere una certa Francia voltarle le spalle. Ancora una volta. Quella stessa Francia che ha dimenticato sé stessa e che ha perso la propria identità. Quella Francia che oggi vuole dimenticare chi, Brigitte Bardot, le ricordava che cosa avrebbe potuto essere. Una Francia dei francesi. Una Francia certamente capace di accogliere, ma senza perdere la propria identità. Era questo che chiedeva BB, massacrata da morta sui giornali di sinistra, vedi Liberation, che titolano Brigitte Bardot, la discesa verso l'odio razziale.
Forse, nelle sue lettere contro l’islamizzazione, BB odiò davvero. Chi lo sa. Di certo amò la Francia, che incarnò. Nel 1956, proprio mentre la Bardot riempiva i cinema mondiali, Édith Piaf scrisse Non, je ne regrette rien (no, non mi pento di nulla). Lo fece per i legionari che combattevano la guerra d’Algeria. Una guerra che oggi i socialisti definirebbero colonialista. Quelle parole di gioia possono essere il testamento spirituale di BB. Che visse, senza rimpiangere nulla. Vivendo in un eterno presente. Mangiando la vita a morsi. Sparendo dalla scena. Ora per sempre.
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«Gigolò per caso» (Amazon Prime Video)
Un infarto, però, lo aveva costretto ad una lunga degenza e, insieme, ad uno stop professionale. Stop che non avrebbe potuto permettersi, indebitato com'era con un orologiaio affatto mite. Così, pur sapendo che avrebbe incontrato la riprova del figlio, già inviperito con suo padre, Giacomo aveva deciso di chiedergli una mano. Una sostituzione, il favore di frequentare le sue clienti abituali, consentendogli con ciò un'adeguata ripresa. La prima stagione della serie televisiva era passata, perciò, dalla rabbia allo stupore, per trovare, infine, il divertimento e una strana armonia. La seconda, intitolata La sex gurue pronta a debuttare su Amazon Prime video venerdì 2 gennaio, dovrebbe fare altrettanto, risparmiandosi però la fase della rabbia. Alfonso, cioè, è ormai a suo agio nel ruolo di gigolò. Non solo. La strana alleanza professionale, arrivata in un momento topico della sua vita, quello della crisi con la moglie Margherita, gli ha consentito di recuperare il rapporto con il padre, che credeva irrimediabilmente compromesso. Si diverte, quasi, a frequentare le sue clienti sgallettate. Peccato solo l'arrivo di Rossana Astri, il volto di Sabrina Ferilli. La donna è una fra le più celebri guru del nuovo femminismo, determinata ad indottrinare le sue simili perché si convincano sia giusto fare a meno degli uomini. Ed è questa convinzione che muove anche Margherita, moglie in crisi di Alfonso. Margherita, interpretata da Ambra Angiolini, diventa un'adepta della Astri, una sua fedele scudiera. Quasi, si scopre ad odiarli, gli uomini, dando vita ad una sorta di guerra tra sessi. Divertita, però. E capace, pure di far emergere le abissali differenze tra il maschile e il femminile, i desideri degli uni e le aspettative, quasi mai soddisfatte, delle altre.
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La nuova applicazione, in parte accessibile anche ai non clienti, introduce servizi innovativi come un assistente virtuale basato su Intelligenza artificiale, attivo 24 ore su 24, e uno screening audiometrico effettuabile direttamente dallo smartphone. L’obiettivo è duplice: migliorare la qualità del servizio clienti e promuovere una maggiore consapevolezza dell’importanza della prevenzione uditiva, riducendo le barriere all’accesso ai controlli iniziali.
Il lancio avviene in un contesto complesso per il settore. Nei primi nove mesi dell’anno Amplifon ha registrato una crescita dei ricavi dell’1,8% a cambi costanti, ma il titolo ha risentito dell’andamento negativo che ha colpito in Borsa i principali operatori del comparto. Lo sguardo di lungo periodo restituisce però un quadro diverso: negli ultimi dieci anni il titolo Amplifon ha segnato un incremento dell’80% (ieri +0,7% fra i migliori cinque del Ftse Mib), al netto dei dividendi distribuiti, che complessivamente sfiorano i 450 milioni di euro. Nello stesso arco temporale, tra il 2014 e il 2024, il gruppo ha triplicato i ricavi, arrivando a circa 2,4 miliardi di euro.
Il progetto della nuova app è stato sviluppato da Amplifon X, la divisione di ricerca e sviluppo del gruppo. Con sedi a Milano e Napoli, Amplifon X riunisce circa 50 professionisti tra sviluppatori, data analyst e designer, impegnati nella creazione di soluzioni digitali avanzate per l’audiologia. L’Intelligenza artificiale rappresenta uno dei pilastri di questa strategia, applicata non solo alla diagnosi e al supporto al paziente, ma anche alla gestione delle esigenze quotidiane legate all’uso degli apparecchi acustici.
Accanto alla tecnologia, resta centrale il ruolo degli audioprotesisti, figure chiave per Amplifon. Le competenze tecniche ed empatiche degli specialisti della salute dell’udito continuano a essere considerate un elemento insostituibile del modello di servizio, con il digitale pensato come strumento di supporto e integrazione, non come sostituzione del rapporto umano.
Fondato a Milano nel 1950, il gruppo Amplifon opera oggi in 26 Paesi con oltre 10.000 centri audiologici, impiegando più di 20.000 persone. La prevenzione e l’assistenza rappresentano i cardini della strategia industriale, e la nuova Amplifon App si inserisce in questa visione come leva per ampliare l’accesso ai servizi e rafforzare la relazione con i pazienti lungo tutto il ciclo di cura.
Il rilascio della nuova applicazione è avvenuto in modo progressivo. Dopo il debutto in Francia, Nuova Zelanda, Portogallo e Stati Uniti, la app è stata estesa ad Australia, Belgio, Germania, Italia, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svizzera, con l’obiettivo di garantire un’esperienza digitale omogenea nei principali mercati del gruppo.
Ma l’innovazione digitale di Amplifon non si ferma all’app. Negli ultimi anni il gruppo ha sviluppato soluzioni come gli audiometri digitali OtoPad e OtoKiosk, certificati Ce e Fda, e i nuovi apparecchi Ampli-Mini Ai, miniaturizzati, ricaricabili e in grado di adattarsi in tempo reale all’ambiente sonoro. Entro la fine del 2025 è inoltre previsto il lancio in Cina di Amplifon Product Experience (Ape), la linea di prodotti a marchio Amplifon già introdotta in Argentina e Cile e oggi presente in 15 dei 26 Paesi in cui il gruppo opera.
Già per Natale il gruppo aveva lanciato la speciale campagna globale The Wish (Il regalo perfetto) Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oggi nel mondo circa 1,5 miliardi di persone convivono con una forma di perdita uditiva (o ipoacusia) e il loro numero è destinato a salire a 2,5 miliardi nel 2050.
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