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2024-03-14
La Lega riapre un fronte col governo sui ballottaggi e il terzo mandato
Alberto Balboni (Fdi), relatore del dl elezioni (Imagoeconomica)
Al Senato ieri si doveva tornare a parlare del terzo mandato, ma alla fine a prendersi la scena è stata un’altra questione: quella dell’abolizione del ballottaggio per i sindaci. A innescare la discussione, come accaduto per il terzo mandato, è stata la Lega che, oltre ad avere ripresentato in Aula l’emendamento al dl elezioni che toglierebbe il limite a due mandati per i presidenti di Regione, ha presentato un’altra proposta di correzione del testo, di impatto forse ancora maggiore. Si tratta infatti dell’abolizione del ballottaggio per l’elezione del sindaco, nei Comuni in cui il candidato più votato prenda almeno il 40% dei voti. In questo modo, la sfida diretta tra i primi due classificati del primo turno avrebbe luogo solo nel caso che nessuno superi la detta soglia.
La proposta ha scatenato immediatamente le ire delle opposizioni, che hanno gridato al blitz antidemocratico: la segretaria del Pd, Elly Schlein, ha parlato di «sfregio alle più basilari regole democratiche», mentre per il capogruppo dem a Palazzo Madama, Francesco Boccia, è «una aberrazione, una provocazione, un colpo di mano inaccettabile contro leggi che hanno dimostrato di funzionare bene». Anche per Avs l’emendamento è inaccettabile e «offensivo non solo nei confronti delle forze politiche ma del lavoro della I Commissione». «Il dl elezioni», ha aggiunto Boccia, «che doveva solo stabilire la data del voto è diventato un golpe al quale ci opporremo». Anche l’Anci, attraverso il suo presidente (anch’esso dem) ha commentato negativamente, a partire dal metodo: «Noi non crediamo», ha affermato, «che uno stravolgimento della legge sull’elezione diretta dei sindaci possa essere ipotizzato senza interpellare i Comuni, come invece è accaduto per altri provvedimenti nella logica della leale collaborazione tra istituzioni. Speriamo», ha aggiunto, «che la proposta venga ritirata, anche perché andrebbe a intaccare alle fondamenta un sistema che fino a oggi ha funzionato nell’interesse dei cittadini''.
Dentro la maggioranza, poi, è arrivato l’invito dal relatore del provvedimento, il meloniano Alberto Balboni, a ritirare l’emendamento e a trasformarlo in un ordine del giorno. «Nel merito», ha affermato Balboni in Aula, «sono d’accordo, non credo sia un attentato alla Costituzione, ma sono d’accordo con quanti sottolineano la circostanza che un tema così importante e delicato andava affrontato con ben altro metodo e in ben altro luogo». Qualche ora dopo, il capogruppo leghista Massimiliano Romeo è intervenuto in Aula, annunciando di aver accolto l’invito di Balboni, ma aggiungendo che il suo partito riproporrà la questione in futuro.
Il tutto, come detto, mentre il Carroccio aveva rimesso in pista l’emendamento sul terzo mandato per i governatori, già presentato in commissione e bocciato per la contrarietà di Fratelli d’Italia e Forza Italia. L’episodio aveva creato delle fibrillazioni all’interno del centrodestra, poiché Matteo Salvini sta da tempo insistendo sull’argomento, sottolineando che, se è un territorio risulta ben amministrato, si dovrebbe dare la possibilità all’elettorato di rinnovare la fiducia a chi è virtuoso. Il pensiero è andato più volte al presidente della Regione Veneto Luca Zaia, che a legislazione vigente non potrebbe ricandidarsi. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è già detta contraria a tale ipotesi e coerentemente a ciò ha fatto anche inserire il tetto di due mandati per il premier nel ddl Casellati sul premierato. A questo argomento, a sua volta, Salvini ha opposto che sarebbe allora coerente introdurre tale tetto anche per i parlamentari.
Detto questo, tra i 44 emendamenti presentati da tutti i gruppi, c’era quello leghista sul terzo mandato, e le cose in Aula sono andate esattamente come in commissione, visto che Fdi e Fi avevano ribadito la propria contrarietà e il governo si era rimesso nuovamente all’Aula per evitare un voto anti-esecutivo del Carroccio. Sul versante dell’opposizione, Italia Viva ha votato a favore, dopo aver rinnovato l’invito ai dem e al M5s a fare altrettanto, ma il «campo largo» è stato categorico per il no. Per tenere buono il partito degli amministratori locali (dopo le polemiche dell’ultima volta), Elly Schlein ha fatto comunque mettere a punto un odg per far «approfondire la questione» con la Conferenze delle Regioni e l’Anci. Netti, seppure garbati, gli argomenti con cui Fdi aveva rinnovato la propria chiusura: «Speravamo che l’emendamento non finisse in Aula», ha detto il senatore Raffaele Speranzon, «c’è la piena comprensione delle ragioni della Lega, che sono legittime, poi il Parlamento è sovrano».
Sala usa la Scala per salire sull’Anci
Ci sono due categorie di sindaci al secondo mandato: quelli che, non avendo nulla da perdere, prendono decisioni importanti e quelli che, invece, si preoccupano di ciò che faranno dopo. Beppe Sala, sindaco di Milano dal 2016, fa parte dell’ultima categoria: non decide, non fa, ma pensa soprattutto al suo futuro politico. Una prova plastica si è vista nella recente vicenda scaligera dove il sindaco milanese è arrivato in consiglio di amministrazione e ha proposto (a sorpresa) il nome di Fortunato Ortombina (ora a La Fenice di Venezia). Il nome è quello che mesi fa era stato fatto dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, sollevando proteste tra i consiglieri della Scala.
Cosa ha spinto Sala a cambiare idea? Il Partito democratico era convinto che il primo cittadino avrebbe resistito, memore dei due sgarbi che la sinistra a Milano ha subìto proprio da Sangiuliano: la nomina di Geronimo La Russa nel cda del Piccolo Teatro e quella di Angelo Crespi come nuovo direttore del Museo di Brera. Di fronte alla proposta del nome di Ortombina almeno tre consiglieri hanno avuto da ridire: Maite Bulgari, Francesco Micheli e Nazareno Carusi hanno obiettato sul metodo adottato. Ma a tenere Sala in posizione di forza, ancora una volta, è stato il suocero Giovanni Bazoli, vero dominus del Teatro, che ha cambiato idea su chi dovesse guidare la Scala dal 2025. Per di più Ortombina non è mai stato contattato e non ha mai avuto colloqui con Sala o con altri consiglieri: cosa mai accaduta.
Allo stesso tempo Palazzo Marino avrebbe aperto un canale di comunicazione anche con Regione Lombardia per una delle future nomine. Gli assist di Sala al centrodestra avrebbero un’altra contropartita, quella della presidenza dell’Anci, l’associazione dei Comuni italiani che ha un presidente in scadenza, il sindaco di Bari Antonio Decaro. Sala vorrebbe quel posto da cui, una volta terminato il suo mandato come sindaco, lancerebbe il suo progetto politico per federare Pd e 5 stelle. I sindaci italiani di sinistra oggi sono maggioranza, ma il consenso di quelli di destra potrebbe risultare decisivo.
Il primo cittadino milanese vuole tentare per una seconda volta il salto nella politica nazionale. Il primo tentativo fu fallimentare avendo scelto, come cavallo, Luigi Di Maio. La scorsa settimana Sala avrebbe ricevuto da Nando Pagnoncelli un nuovo sondaggio sulla sua notorietà nel Paese e i dati gli sarebbero apparsi incoraggianti. Quella dei sondaggi, del resto, sta diventando una mania per Sala, tanto che i suoi detrattori sostengono che li utilizza anche per governare la città, con risultati modesti. Incurante delle critiche, ha acceso un dibattito pubblico su Instagram: tema stadio San Siro. Di sicurezza, caro affitti, traffico e buche, invece, è meglio non parlare.
A spianare la strada verso l’Anci sembra esserci anche una parte di centrodestra. Non è un caso che in queste settimane proprio Decaro sia finito sotto attacco da parte di Forza Italia. Il deputato azzurro Mauro D’Attis, vicepresidente della commissione antimafia, si è spinto a dire che alcuni Comuni in Italia sono stati sciolti per molto meno, chiaro riferimento alla maxinchiesta «Codice Interno», che ha toccato anche l’amministrazione comunale barese. Decaro è in scadenza di mandato, ma il suo futuro sembra essere legato a quello del presidente di Regione, Michele Emiliano. Entrambi erano in attesa di capire se avrebbero potuto ricandidarsi per la terza volta, ma la legge sul terzo mandato è ormai naufragata, ma allo stesso tempo guardano con interesse alle elezioni europee. A quanto risulta alla Verità, Emiliano vorrebbe presentarsi, nonostante abbia smentito più volte l’intenzione di farlo. Nel caso accadesse, potrebbe lasciare la Regione proprio a Decaro (che ha già investito come successore) e ritagliarsi uno scranno a Bruxelles. Sono giochi politici che da Sud rimbalzano fino a Nord.
Per arrivare alla presidenza di Anci, Sala dovrà fare attenzione anche alle ricadute della nomina di Ortombina. A quanto pare Luigi Brugnaro a Venezia non avrebbe gradito lo scippo del «suo» sovrintendente. A sua volta Dario Nardella a Firenze, risolta la grana Carlo Fuortes, dovrà affrontare il tema Daniele Gatti (ora al Maggio fiorentino) se diventerà il nuovo direttore della Scala al posto di Riccardo Chailly. Infine, Dominique Meyer ha fatto sapere che lui onorerà il contratto fino alla sua scadenza naturale, affiancando Ortombina in una fase di «coabitazione», ma è probabile che lo faccia prendendosi qualche soddisfazione e togliendosi un po’ di sassolini dalle scarpe.
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Blitz in Aula per eliminare il secondo turno nei Comuni dove un candidato prende almeno il 40% dei voti. Ira dell’opposizione, anche Fdi frena. Il Carroccio ritira l’emendamento, bocciato quello sulle ricandidature.Beppe Sala per il dopo Meyer alla Scala punta su Ortombina, nome gradito a Sangiuliano. Il primo cittadino guarda al futuro: vuole la poltrona del dem Decaro e il centrodestra può aiutarlo.Lo speciale contiene due articoli.Al Senato ieri si doveva tornare a parlare del terzo mandato, ma alla fine a prendersi la scena è stata un’altra questione: quella dell’abolizione del ballottaggio per i sindaci. A innescare la discussione, come accaduto per il terzo mandato, è stata la Lega che, oltre ad avere ripresentato in Aula l’emendamento al dl elezioni che toglierebbe il limite a due mandati per i presidenti di Regione, ha presentato un’altra proposta di correzione del testo, di impatto forse ancora maggiore. Si tratta infatti dell’abolizione del ballottaggio per l’elezione del sindaco, nei Comuni in cui il candidato più votato prenda almeno il 40% dei voti. In questo modo, la sfida diretta tra i primi due classificati del primo turno avrebbe luogo solo nel caso che nessuno superi la detta soglia. La proposta ha scatenato immediatamente le ire delle opposizioni, che hanno gridato al blitz antidemocratico: la segretaria del Pd, Elly Schlein, ha parlato di «sfregio alle più basilari regole democratiche», mentre per il capogruppo dem a Palazzo Madama, Francesco Boccia, è «una aberrazione, una provocazione, un colpo di mano inaccettabile contro leggi che hanno dimostrato di funzionare bene». Anche per Avs l’emendamento è inaccettabile e «offensivo non solo nei confronti delle forze politiche ma del lavoro della I Commissione». «Il dl elezioni», ha aggiunto Boccia, «che doveva solo stabilire la data del voto è diventato un golpe al quale ci opporremo». Anche l’Anci, attraverso il suo presidente (anch’esso dem) ha commentato negativamente, a partire dal metodo: «Noi non crediamo», ha affermato, «che uno stravolgimento della legge sull’elezione diretta dei sindaci possa essere ipotizzato senza interpellare i Comuni, come invece è accaduto per altri provvedimenti nella logica della leale collaborazione tra istituzioni. Speriamo», ha aggiunto, «che la proposta venga ritirata, anche perché andrebbe a intaccare alle fondamenta un sistema che fino a oggi ha funzionato nell’interesse dei cittadini''. Dentro la maggioranza, poi, è arrivato l’invito dal relatore del provvedimento, il meloniano Alberto Balboni, a ritirare l’emendamento e a trasformarlo in un ordine del giorno. «Nel merito», ha affermato Balboni in Aula, «sono d’accordo, non credo sia un attentato alla Costituzione, ma sono d’accordo con quanti sottolineano la circostanza che un tema così importante e delicato andava affrontato con ben altro metodo e in ben altro luogo». Qualche ora dopo, il capogruppo leghista Massimiliano Romeo è intervenuto in Aula, annunciando di aver accolto l’invito di Balboni, ma aggiungendo che il suo partito riproporrà la questione in futuro. Il tutto, come detto, mentre il Carroccio aveva rimesso in pista l’emendamento sul terzo mandato per i governatori, già presentato in commissione e bocciato per la contrarietà di Fratelli d’Italia e Forza Italia. L’episodio aveva creato delle fibrillazioni all’interno del centrodestra, poiché Matteo Salvini sta da tempo insistendo sull’argomento, sottolineando che, se è un territorio risulta ben amministrato, si dovrebbe dare la possibilità all’elettorato di rinnovare la fiducia a chi è virtuoso. Il pensiero è andato più volte al presidente della Regione Veneto Luca Zaia, che a legislazione vigente non potrebbe ricandidarsi. Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è già detta contraria a tale ipotesi e coerentemente a ciò ha fatto anche inserire il tetto di due mandati per il premier nel ddl Casellati sul premierato. A questo argomento, a sua volta, Salvini ha opposto che sarebbe allora coerente introdurre tale tetto anche per i parlamentari.Detto questo, tra i 44 emendamenti presentati da tutti i gruppi, c’era quello leghista sul terzo mandato, e le cose in Aula sono andate esattamente come in commissione, visto che Fdi e Fi avevano ribadito la propria contrarietà e il governo si era rimesso nuovamente all’Aula per evitare un voto anti-esecutivo del Carroccio. Sul versante dell’opposizione, Italia Viva ha votato a favore, dopo aver rinnovato l’invito ai dem e al M5s a fare altrettanto, ma il «campo largo» è stato categorico per il no. Per tenere buono il partito degli amministratori locali (dopo le polemiche dell’ultima volta), Elly Schlein ha fatto comunque mettere a punto un odg per far «approfondire la questione» con la Conferenze delle Regioni e l’Anci. Netti, seppure garbati, gli argomenti con cui Fdi aveva rinnovato la propria chiusura: «Speravamo che l’emendamento non finisse in Aula», ha detto il senatore Raffaele Speranzon, «c’è la piena comprensione delle ragioni della Lega, che sono legittime, poi il Parlamento è sovrano».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/terzo-mandato-ballottaggio-sindaci-2667509900.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="sala-usa-la-scala-per-salire-sullanci" data-post-id="2667509900" data-published-at="1710416789" data-use-pagination="False"> Sala usa la Scala per salire sull’Anci Ci sono due categorie di sindaci al secondo mandato: quelli che, non avendo nulla da perdere, prendono decisioni importanti e quelli che, invece, si preoccupano di ciò che faranno dopo. Beppe Sala, sindaco di Milano dal 2016, fa parte dell’ultima categoria: non decide, non fa, ma pensa soprattutto al suo futuro politico. Una prova plastica si è vista nella recente vicenda scaligera dove il sindaco milanese è arrivato in consiglio di amministrazione e ha proposto (a sorpresa) il nome di Fortunato Ortombina (ora a La Fenice di Venezia). Il nome è quello che mesi fa era stato fatto dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, sollevando proteste tra i consiglieri della Scala. Cosa ha spinto Sala a cambiare idea? Il Partito democratico era convinto che il primo cittadino avrebbe resistito, memore dei due sgarbi che la sinistra a Milano ha subìto proprio da Sangiuliano: la nomina di Geronimo La Russa nel cda del Piccolo Teatro e quella di Angelo Crespi come nuovo direttore del Museo di Brera. Di fronte alla proposta del nome di Ortombina almeno tre consiglieri hanno avuto da ridire: Maite Bulgari, Francesco Micheli e Nazareno Carusi hanno obiettato sul metodo adottato. Ma a tenere Sala in posizione di forza, ancora una volta, è stato il suocero Giovanni Bazoli, vero dominus del Teatro, che ha cambiato idea su chi dovesse guidare la Scala dal 2025. Per di più Ortombina non è mai stato contattato e non ha mai avuto colloqui con Sala o con altri consiglieri: cosa mai accaduta. Allo stesso tempo Palazzo Marino avrebbe aperto un canale di comunicazione anche con Regione Lombardia per una delle future nomine. Gli assist di Sala al centrodestra avrebbero un’altra contropartita, quella della presidenza dell’Anci, l’associazione dei Comuni italiani che ha un presidente in scadenza, il sindaco di Bari Antonio Decaro. Sala vorrebbe quel posto da cui, una volta terminato il suo mandato come sindaco, lancerebbe il suo progetto politico per federare Pd e 5 stelle. I sindaci italiani di sinistra oggi sono maggioranza, ma il consenso di quelli di destra potrebbe risultare decisivo. Il primo cittadino milanese vuole tentare per una seconda volta il salto nella politica nazionale. Il primo tentativo fu fallimentare avendo scelto, come cavallo, Luigi Di Maio. La scorsa settimana Sala avrebbe ricevuto da Nando Pagnoncelli un nuovo sondaggio sulla sua notorietà nel Paese e i dati gli sarebbero apparsi incoraggianti. Quella dei sondaggi, del resto, sta diventando una mania per Sala, tanto che i suoi detrattori sostengono che li utilizza anche per governare la città, con risultati modesti. Incurante delle critiche, ha acceso un dibattito pubblico su Instagram: tema stadio San Siro. Di sicurezza, caro affitti, traffico e buche, invece, è meglio non parlare. A spianare la strada verso l’Anci sembra esserci anche una parte di centrodestra. Non è un caso che in queste settimane proprio Decaro sia finito sotto attacco da parte di Forza Italia. Il deputato azzurro Mauro D’Attis, vicepresidente della commissione antimafia, si è spinto a dire che alcuni Comuni in Italia sono stati sciolti per molto meno, chiaro riferimento alla maxinchiesta «Codice Interno», che ha toccato anche l’amministrazione comunale barese. Decaro è in scadenza di mandato, ma il suo futuro sembra essere legato a quello del presidente di Regione, Michele Emiliano. Entrambi erano in attesa di capire se avrebbero potuto ricandidarsi per la terza volta, ma la legge sul terzo mandato è ormai naufragata, ma allo stesso tempo guardano con interesse alle elezioni europee. A quanto risulta alla Verità, Emiliano vorrebbe presentarsi, nonostante abbia smentito più volte l’intenzione di farlo. Nel caso accadesse, potrebbe lasciare la Regione proprio a Decaro (che ha già investito come successore) e ritagliarsi uno scranno a Bruxelles. Sono giochi politici che da Sud rimbalzano fino a Nord. Per arrivare alla presidenza di Anci, Sala dovrà fare attenzione anche alle ricadute della nomina di Ortombina. A quanto pare Luigi Brugnaro a Venezia non avrebbe gradito lo scippo del «suo» sovrintendente. A sua volta Dario Nardella a Firenze, risolta la grana Carlo Fuortes, dovrà affrontare il tema Daniele Gatti (ora al Maggio fiorentino) se diventerà il nuovo direttore della Scala al posto di Riccardo Chailly. Infine, Dominique Meyer ha fatto sapere che lui onorerà il contratto fino alla sua scadenza naturale, affiancando Ortombina in una fase di «coabitazione», ma è probabile che lo faccia prendendosi qualche soddisfazione e togliendosi un po’ di sassolini dalle scarpe.
iStock
Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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