
Il fratello della giovane ammazzata è parte civile e testimone nel processo: vive in località protetta. L’avvocato del padre accusato del delitto: «Il vero colpevole è lo Stato italiano». Ma uno zio e un cugino puntano allo sconto di pena scegliendo il rito abbreviato. La colpa della morte di Saman Abbas per il padre Shabbar e per il suo legale sarebbe dello Stato italiano. Ossia se Saman è morta, la colpa sarebbe soltanto nostra.Saman Abbas scompare la notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021 a Novellara, un paese della provincia di Reggio Emilia. Quella sera era tornata a casa per riavere indietro i suoi documenti, che i familiari le avevano sottratto. Si era opposta a un matrimonio combinato con un cugino più vecchio. Mesi e mesi di indagini, perlustrazioni, ricerche, domande senza risposta, fino ad arrivare al 18 novembre scorso, quando il corpo di Saman viene ritrovato in un casolare vicino all’abitazione dei genitori.Era lì, a poche centinaia di metri da quella casa dove viveva. Una grossa buca, scavata con premeditazione, per far sparire i suoi resti. Il 10 febbraio in Italia è partito il processo per sequestro di persona, omicidio e occultamento di cadavere. E ieri in tribunale a Reggio Emilia c’è stata la seconda udienza.Per la scomparsa di Saman Abbas sono indagati il padre, Shabbar Abbas, che è stato arrestato in Pakistan (dove era volato subito dopo il delitto) del quale probabilmente non avremo mai l’estradizione, la madre Nazia Shaheen (che risulta latitante), lo zio Danish Hasnain e due cugini, Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq. Questi ultimi tre erano gli unici presenti in aula. Lo sviluppo più inquietante è che anche il fratello di Saman teme ora di essere ucciso. «Questo ragazzo è certo che per aver parlato subirà la stessa sorte della sorella», ha detto ieri l’avvocato Valeria Miari, che lo assiste come parte civile. Il giovane, che ora vive in una località protetta e che all’epoca dei fatti era sedicenne, è testimone chiave del processo ed è colui che ha accusato lo zio di essere l’esecutore materiale del delitto.Mercoledì scorso durante la trasmissione Chi l’ha visto? è andata in onda l’intervista che il giornalista Paolo Andriolo ha fatto al legale del padre di Saman, Akhtar Mahmood. «Non è Shabar Abbas a doversi difendere», sostiene il legale, «lo Stato italiano con le leggi locali ha recluso la ragazza in una comunità. La famiglia di Saman non voleva che lei andasse in questa comunità e non lo voleva neanche lei, perché è scappata diverse volte per incontrare la sua famiglia. Lo Stato italiano racconta di uno scontro tra Saman e la sua famiglia ma in verità lo scontro era tra Saman e le autorità locali che l’avevano messa in una comunità. Non permettevano ai genitori di incontrarla, non le permettevano di pregare come una musulmana. Lei era rinchiusa in una comunità. Questi sono i problemi tra lo Stato italiano e Saman». E ancora: «Lo Stato italiano ha convertito la morte della figlia in un omicidio d’onore e hanno accusato l’intera famiglia di Saman. Lo Stato italiano ha creato uno scontro verso i musulmani e verso l’Islam. Lui (riferito al padre della ragazza, ndr) vuole che il vero colpevole finisca dietro le sbarre».Un ribaltamento totale del racconto, quello fornito dal legale, che ha dell’inverosimile anche perché era stata proprio Saman Abbas a cercare rifugio e protezione in una comunità. Voleva sentirsi libera, vivere all’occidentale. Il legale sostiene che i servizi sociali avrebbero impedito alla diciottenne pakistana di incontrare la famiglia, ma il quadro è un po’ diverso. Quando noi della Verità siamo stati a Novellara, abbiamo scoperto che in realtà c’era una lettera del dirigente della scuola dove era iscritta Saman, inviata al sindaco, ai servizi stessi, e anche alla polizia locale che denunciava proprio l’abbandono scolastico della ragazza. Se è vero, secondo il legale, che Saman fosse reclusa e rinchiusa in comunità, non si spiegherebbe l’abbandono. Il legale del padre dovrebbe tenerne conto. Anche perché sono settimane che l’udienza per l’estradizione di Shabbar Abbas viene rinviata. Una volta manca l’avvocato del padre. Un’altra risulta assente il giudice. La prossima tappa, sperando sia quella buona, è fissata a Islamabad il 21 febbraio. Tra tre giorni.Il processo in Italia invece riprenderà il 17 marzo e lo zio di Saman e un cugino hanno già «opzionato» uno sconto di pena. I legali di Danish Hasnain e Ikram Ijaz, infatti, hanno ribadito la richiesta di rito abbreviato che, lo ricordiamo, era già stata presentata e respinta in fase preliminare. La mossa consentirebbe ai due di beneficiare dello sconto di un terzo di pena nell’ipotesi in cui durante il processo vengano escluse le aggravanti e si configuri per gli imputati un reato che non prevede l’ergastolo. Il 17 marzo ci sarà l’audizione dei primi testimoni indicati dalla Procura di Reggio Emilia e dal personale di polizia giudiziaria che ha svolto le indagini. Tra i testimoni ammessi anche la compagna dello zio, all’epoca dei fatti in Pakistan e arrivata di recente in Italia. Inoltre, si capirà se sarà possibile processare in videoconferenza il padre di Saman. Una richiesta è stata predisposta in tal senso al ministero della Giustizia. Al processo si sono costituiti parte civile il fratello di Saman e il fidanzato Saqib Ayub. Oltre a varie associazioni contro la violenza e a quelle comunque rappresentanti una porzione dell’Islam come l’Ucoii, ossia l’unione delle comunità islamiche in Italia e anche la Grande Moschea di Roma. L’associazione invece Acmid donna e altre sono state escluse. «Vergognosa la decisione di escludere Acmid Donne marocchine Italia come parte civile nel processo a Reggio Emilia», twitta l’ex deputata e saggista Souad Sbai, «mentre a essere ammessi sono gli islamisti che emettono fatwe e vengono ora legittimati da un tribunale italiano».
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