(Ansa)
Ignazio La Russa, Giorgia Meloni e Sergio Mattarella depongono la corona d'alloro sulla tomba del Milite Ignoto in occasione della Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate.
Ignazio La Russa, Giorgia Meloni e Sergio Mattarella depongono la corona d'alloro sulla tomba del Milite Ignoto in occasione della Giornata dell'Unità Nazionale e delle Forze Armate.
Edmondo De Amicis fu autore di un popolare saggio sulla lingua italiana, L’idioma gentile, in cui l’elogio della comunicazione corretta faceva tutt’uno con la difesa della Patria.
Dopo l’unità d’Italia, in quella fase storica in cui, proverbialmente, «fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani», l’educazione sentimentale e l’immaginario collettivo di un intero popolo finalmente riunito in una unica comunità nazionale furono plasmate da alcune opere di letteratura popolare e a tema patriottico che ebbero seguito vastissimo. A partire dal 1881, Carlo Collodi – pseudonimo di Carlo Lorenzini, scrittore e patriota, volontario nelle prime due guerre di indipendenza – pubblicò a puntate Le avventure di Pinocchio, che ebbero un notevole successo e che divennero presto un classico, molto conosciuto fra grandi e piccini. Nel 1886, invece, l’ex militare in carriera Edmondo De Amicis faceva uscire il suo celeberrimo Cuore.
Ufficiale di fanteria nel 1865, combattente nel '66, De Amicis fu addetto al giornale L'Italia militare e divenne noto presso il grande pubblico per articoli e bozzetti. Ormai, incitato da un pubblico sempre più vasto e fedele, egli, lasciata la carriera militare, si diede interamente alla letteratura. La sua popolarità sarà tale che, ancora per tutto il primo dopoguerra, De Amicis risulterà il secondo autore, dopo Manzoni, cui le grammatiche attingevano più di frequente per elaborare gli esercizi e gli esempi. Scrisse romanzi, poesie, ma anche saggi. È il caso de L’idioma gentile – il titolo è tratto da un verso di Alfieri –, che è poi un lungo elogio, anch’esso concepito con spirito apertamente pedagogico, alla lingua italiana, concepita come: «Un’eredità sacra a milioni e milioni d’esseri del nostro sangue, dei quali, per secoli, ella espresse il pensiero; la nostra nutrice intellettuale, il respiro della mente e dell’animo nostro, l’espressione di quanto è più intimamente proprio della nostra indole nazionale, l’immagine più viva e fedele e quasi la natura medesima della nostra razza».
L’idioma gentile è stata la prima guida italiana al parlare e scrivere. Pubblicato nel 1905 ebbe un successo immediato, l’ultimo ottenuto dall’autore, che sarebbe morto nel 1908. Un regio decreto ne caldeggerà la diffusione. Nel 1921 ne vennero vendute 86.000 copie. Il libro è diviso in tre parti. Nella prima, De Amicis si sofferma sulla necessità di imparare a parlare correttamente, nella seconda esamina le parole di origine straniera, come i francesismi, ed effettua una rapida rassegna dei principali scrittori italiani, la terza parte è dedicata soprattutto alla questione dello stile.
Il libro si apre rivolgendosi a un «giovinetto», a cui del resto l’autore si rivolgerà per tutto il testo: «Tu ami la lingua del tuo paese, non è vero? L’amiamo tutti. È inseparabilmente congiunto l'amore della nostra lingua col sentimento d'ammirazione e di gratitudine che ci lega ai nostri padri per il tesoro immenso di sapienza e di bellezza ch’essi diedero per mezzo di lei alla famiglia umana e che è la gloria dell'Italia, l'onore del nostro nome nel mondo». L’intento di De Amicis, come si vede bene, non è puramente filologico. Lingua e patria sono per lui la stessa cosa. E patria, a sua volta, non è certo un concetto disincarnato, ma ha a che fare con il «sangue», con un popolo in carne e ossa, dipinto con accenti all’epoca normali, ma che oggi farebbero gridare al razzismo (così come del resto improntato al «sangue e suolo» era all’epoca tutto il patriottismo risorgimentale e post risorgimentale).
Tornando all’aspetto più propriamente linguistico, affrontata di petto è la questione dei dialetti, che nell’Italia di quegli anni era cruciale. De Amicis non contrappone in modo brutale lingua italiana e dialetti. Al contrario, li ritiene fratelli e invita gli italiani ad approcciarsi alla propria lingua nazionale proprio a partire dai dialetti. Se questi venissero studiati a fondo, spiega l’autore, vi si ritroverebbero molte costruzioni tipiche dell’italiano. De Amicis adotta spesso un tono ironico e colloquiale, che in alcuni passaggi ricorda vagamente, malgrado le macroscopiche differenze, i calembour di Umberto Eco. De Amicis critica, con grande acume, il proliferare degli «ismi», l’uso incontrollato dell’espressione «coso», il dilagare di frasi fatte e luoghi comuni che non dicono nulla («ora si chiamano arterie le strade grandi, e non so perché non si chiamino vene le strade minori»). Un insegnamento che potrebbe essere di qualche aiuto anche agli studenti ora alle prese con la maturità.
Lo ammetto. Quando l’altra sera in tv ho visto il direttore della rediviva Unità, Piero Sansonetti, agitarsi e sbracciarsi, sostenendo che i vescovi non avessero dato un euro a Luca Casarini, mi è scappat (o da ridere. Un po’ perché avevo davanti la copia dei bonifici per decine di migliaia di euro che le diocesi di Brescia e Modena hanno effettuato sul conto di Beppe Caccia, il subcomandante della Mare Jonio. E un po’ perché pensavo a quando lo stesso Sansonetti, trasformatosi senza preavviso in portavoce della Conferenza episcopale italiana, era un fiero avversario di monsignori e cardinali, al punto da meritarsi una reprimenda dell’Avvenire. Era il 2006 quando il quotidiano dei vescovi lo sbeffeggiava definendolo il Piero Furioso. All’epoca, Sansonetti non aveva ancora compiuto la sua trasformazione e dirigeva Liberazione, organo ufficiale di Rifondazione comunista. In prima pagina, con un editoriale, il furente Piero (lo definì così l’editorialista dell’Avvenire) se la prendeva con le ipocrisie e la malafede del Vaticano. Nel mirino c’erano le critiche ai Pacs, ossia i patti di solidarietà fra persone dello stesso sesso, e per contrastarli Sansonetti non si era fatto scrupolo di tirare in ballo le parole di Cristo, scagliandole contro i vertici della Chiesa. «Viene rabbia solo a pensarci. Diceva Gesù: sepolcri imbiancati».
A parte il fine ragionamento, ripensandoci mi sono convinto che fosse l’inizio di un percorso. Dopo aver esordito leggendo Marx, il Piero, che già a vent’anni aveva in tasca la tessera del Pci, doveva essere alla ricerca di un nuovo approdo. In effetti, nel corso del tempo Sansonetti è passato da una bandiera all’altra. Per quasi vent’anni è stato all’Unità, poi per un quinquennio ha guidato Liberazione, quindi, dopo una pausa in alcuni quotidiani locali, eccolo al Dubbio votarsi al garantismo e quindi al riformismo. Infine, di nuovo L’Unità, che però del vecchio spirito conserva solo la testata e niente altro, al punto da far ribellare gli eredi di Enrico Berlinguer, i quali mesi fa non gradirono che il padre fosse stato tirato in ballo per fare pubblicità all’ennesimo tentativo di riportare in vita il quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Tornando però alla cronaca, ora Sansonetti difende i vescovi. Si dirà: a che titolo? Non lo sappiamo. Tuttavia, con una certa sicumera l’altra sera ha affermato che la Cei non c’entra nulla con Casarini e che neppure un euro è giunto da quella sponda sui conti dell’ex disobbediente. Come fa a saperlo? Chi glielo ha rivelato? Forse lo Spirito Santo? Ironizzando, gli ho detto di non sapere che fosse diventato il portavoce della Cei. Troppo preso nel ruolo, il direttore non si è neppure peritato di leggere le trascrizioni dei messaggi che Casarini e compagni si sono scambiati. Avrebbe scoperto che non noi, ma il gruppetto di «pescatori di uomini» parlava di Cei, di soldi e di modi per farli arrivare. Non siamo noi a dire che i vescovi hanno finanziato Casarini e la sua banda: sono loro stessi a rivelarlo, raccontando in chat anche i problemi di bilanci domestici che li assillano. Altro che errore, infortunio, violazione del segreto e altre sciocchezze messe in campo l’altra sera per non guardare in faccia la realtà. Già, Sansonetti si preoccupava di come noi avessimo avuto quei messaggi. Invece di prendere atto del contenuto (per altro raccolto dalla polizia giudiziaria a seguito di un’indagine della Procura di Ragusa, cosa che ho abbondantemente spiegato), come quei tizi che guardano il dito e non la Luna, il direttore dell’Unità insisteva a occuparsi di come La Verità avesse avuto la notizia e non della notizia stessa. Anche il più somaro dei giornalisti sa che i cronisti non soltanto difendono le loro fonti, ma che lo stesso Ordine di categoria ti obbliga a tacerle.
Le argomentazioni e l’agitazione del collega erano tali, che alla fine ho pensato a una sola spiegazione. Dopo aver guidato Liberazione, Calabria ora, le Cronache del Garantista, Il Dubbio, Il Riformista, L’Unità evidentemente Sansonetti vuole concludere la carriera come direttore dell’Avvenire. Di certo io non sono invidioso degli insuccessi dei colleghi. Dunque, auguri.
La vittoria nella Grande guerra viene oggi celebrata con una festa «mobile» e con timidezza politica, a causa di anni di retorica anti nazionale. È il momento di cambiare le cose.
«I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza». Il passaggio del bollettino della vittoria siglato da Armando Diaz, comandante supremo del Regio Esercito, il 4 novembre del 1918 è giustamente famoso. Il giorno precedente, nella villa del conte Vettor Giusti del Giardino, a Padova, era stato siglato l’armistizio fra l'Impero austro-ungarico e l'Italia che poneva fine alla Grande guerra, dalla quale noi uscivamo vincitori insperati. Già l’anno successivo, il 4 novembre fu dichiarato festa nazionale. Nel 1921, nella stessa data, la salma del Milite Ignoto venne sepolta solennemente all'Altare della patria, a Roma. Un’ulteriore cambiamento si ebbe proprio alla vigilia della marcia su Roma: il regio decreto che istituiva la giornata della Vittoria e lo dichiarava festivo venne pubblicato in Gazzetta ufficiale il 26 ottobre del 1922, ovvero due giorni prima della calata delle camicie nere sulla capitale.
Il fascismo attinse largamente al mito della vittoria e all’eredità politica e culturale del combattentismo, declinando la celebrazione secondo il tema della «vittoria mutilata», ovvero del trionfo militare ottenuto sul campo ma ancora da conquistare sui tavoli della diplomazia e della politica. Nel secondo dopoguerra, invece, ogni riferimento in odore di nazionalismo è diventato sospetto a causa dell’antifascismo. Nel 1949, la festa è tornata alla denominazione iniziale, che era quella di festa delle forze armate e dell’unità nazionale. Fino al 1976, il 4 novembre è stato un giorno festivo.
Dal 1977, sia per l’austerity che per il mutato clima politico, particolarmente inviso al «militarismo», la festa delle forze armate è stata resa «mobile», con le celebrazioni spostate alla prima domenica di novembre. Nel 1970, del resto, era uscito al cinema Uomini contro, diretto da Francesco Rosi, liberamente ispirato al romanzo di Emilio Lussu Un anno sull'Altipiano, una pellicola di impronta pacifista e antiautoritaria che causò al regista anche una denuncia per vilipendio dell'esercito. Caduto largamente in disgrazia negli anni successivi, a parte qualche stanca ritualità politica e burocratica, il 4 novembre è tornato al centro della scena durante il soggiorno di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale. L’ex banchiere fu infatti artefice di una riscoperta della narrazione nazionale e risorgimentale (ma antifascista) che contemplava una rivalorizzazione della bandiera, dell’inno e ovviamente anche della memoria della Grande guerra. Nel 2018, tuttavia, in occasione delle celebrazioni del centenario della vittoria, non mancò chi pensò bene di commemorare non i combattenti, bensì i disertori. Segni dei tempi.
Oggi, in ogni caso, anche se la ricorrenza del 4 novembre è entrata maggiormente nell’immaginario collettivo, non senza resistenze, la giornata della vittoria continua a non essere un festivo. Cosa che, ovviamente, ha un impatto simbolico che va ben al di là del fatto di stare a casa un giorno in più da scuola o dal lavoro. Alla sorte del 4 novembre è dedicato anche il saggio L’Ombra della vittoria - Il fante tradito (edizioni Gruppo Albatros, Il Filo, Roma), di Pasquale Trabucco, scritto durante il suo viaggio da Bolzano a Siracusa, compiuto quasi completamente a piedi per chiedere di ripristinare la festività nazionale del 4 novembre. «Oggi», ha dichiarato lo scorso 2 settembre a Sergio Barlocchetti per La Verità, «questa festa non è sentita dalla popolazione, ma ci sono diverse ragioni importanti perché torni a esserlo. La coesione del popolo, per esempio, ricordando che il re Vittorio Emanuele III, nel suo discorso dell’8 novembre 1917 alle truppe, disse: “Siate un esercito solo”; e a ben guardare con la pandemia, la politica e i media sono tornati più volte a usare termini come guerra, trincea e fronte. E abbiamo cantato l’inno nazionale dai balconi». In vista delle elezioni poi vinte da Giorgia Meloni, Trabucco esprimeva un auspicio: «Dopo il prossimo 25 settembre, chiunque vinca le elezioni dovrebbe ripristinare questa festa proprio perché super partes alle idee politiche. Soprattutto, un Paese che non conosce la sua storia non può definirsi tale: la Francia festeggia tre giorni ogni anno dal 1790, gli Stati Uniti dal 1776 festeggiano il 4 luglio come nascita del Paese e l’hanno celebrato anche durante la guerra di Secessione, tra il 1861 e il 1865, perché evento superiore alle posizioni dei belligeranti. Infine, per riconoscere alle nostre Forze armate di averci dato l’unità nazionale e ricordare chi per quello ha perso la vita. Indipendentemente dal ceto e soprattutto dal credo religioso. Si pensi, per esempio, che il più giovane e il più anziano tra i militari decorati con la medaglia d’oro al valor militare erano di religione ebraica, Roberto Sarfatti e Giulio Blum».
Norman Douglas (1868-1952) fu uno scrittore scozzese che nacque e trascorse i primi anni di vita a Thüringen, che apparteneva allora all’impero austro-ungarico ed è oggi Germania, dove il padre dirigeva un cotonificio. Questa infanzia internazionale lo segnò per tutta la vita: entrato brevemente nella diplomazia britannica e inviato a San Pietroburgo, fu costretto a lasciare la città e il servizio a causa di uno scandalo (ne accumulò parecchi, soprattutto per molestie a ragazzini) e si rifugiò a Posillipo, dove acquistò una villa. Da allora l’Italia rimase la sua residenza preferita, alla quale sempre tornava dopo soggiorni in Francia e in Inghilterra (ma anche in India, in Kenia e in Nordafrica) e dove morì, a Capri. Il libro suo che ho appena letto, nella prefazione datata 1956 e firmata dall’amico John Davenport, ci informa che di Capri fu nominato cittadino onorario, e che l’unica altra persona a ricevere questo riconoscimento fu Benedetto Croce (del quale Douglas fu quasi esattamente contemporaneo). Non ho idea se nei successivi decenni il numero di tali onori sia aumentato.
Il libro, già. Quale libro? Old Calabria, pubblicato originariamente nel 1915 e a lungo ristampato. Oggi è disponibile presso uno di quegli «editori» che lavorano on demand e ti mandano un testo malamente scansionato spesso pieno di pasticci e, in questo caso (secondo pareri di chi l’ha comprato), con caratteri minuscoli al limite dell’impercettibile. Io rimango alla larga da imprese simili; ne avevo un’edizione del 1928 che mi attendeva sugli scaffali ma, quando mia figlia Sara mi ha regalato questa (integrata dalla prefazione di Davenport), ho deciso che dovevo leggerla. Dopo tutto, sono nato a Reggio Calabria (che è, credo, il motivo del regalo di Sara) e quella raccontata da Douglas è la regione in cui crebbe mia nonna. Siccome il libro è basato su viaggi compiuti nel 1907 e (il più lungo) nel 1911, mi offre anche un resoconto di prima mano della mia città natale all’indomani del disastroso terremoto del 1908 (il relativo capitolo s’intitola Chaos).
Douglas non è un personaggio simpatico. È uno snob intellettuale e cosmopolita, che guarda talvolta con affetto ma sempre e comunque con ironia e con paternalismo individui, istituzioni e costumi italiani. Ma la sua frequentazione finisce per generare nel lettore qualcosa di più elevato, seppur meno caloroso, della simpatia: il rispetto. È perfettamente a suo agio non solo con l’italiano ma anche con tutti i molteplici dialetti che incontra; ha qualche difficoltà con l’albanese che circola in alcuni borghi ma in compenso può imbastire una conversazione in greco bizantino con un giovane di Bova (dove quella lingua circolava). Conosce la letteratura di viaggio degli autori che hanno esplorato le stesse zone, e quel che non conosce va in biblioteca a studiarlo. E con il territorio vuole avere direttamente a che fare, non rimirarlo dal finestrino di un treno o di un torpedone: attraversa a piedi (o a dorso di mulo) sia la Sila sia l’Aspromonte, da un mare all’altro, scalandone le vette più alte. E, siccome parla bene la lingua (anzi, le lingue), può imparare, e impara, da un passante, da una padrona di casa, dagli ospiti di una taverna. Non mi risulta che esista un’edizione italiana di Old Calabria, a qualsiasi livello di degrado editoriale; ma, per quel che può valere la mia opinione, lo raccomando caldamente. Non solo perché, in questi tempi in cui il cellulare ci guida alla nostra destinazione, dove ci aspettano servizi già prenotati da giorni (o mesi), comunica il fascino di che cos’è davvero un viaggio: un’avventura da inventare a ogni tappa, stabilendo un percorso in base alle indicazioni ricevute sul posto, cercando una guida o qualcuno che aiuti con la valigia, decidendo se il tempo consiglia o no di intraprendere un sentiero montano. Non solo, dicevo, per questo motivo, ma anche perché Douglas ci consegna giudizi sull’Italia che, a distanza di 110 anni, suonano singolarmente attuali. E si accordano in modo suggestivo e inquietante con quelli enunciati mezzo secolo dopo (ma retrodatati a mezzo secolo prima) nel più grande romanzo italiano: Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
Cominciamo con: «C’è un qualche museo in Italia che non sia “parzialmente chiuso per lavori?”». Proseguiamo con: «In una parola [riassumendo cioè una serie di storture del sistema giuridico italiano], che il metodo perseguito da queste parti sia inteso creare il crimine invece di reprimerlo sono verità di una natura troppo elementare per trovare strada nei cervelli dei retori megalomani che controllano il fato della loro nazione». E, dulcis in fundo: «La perdita di tempo causata dalla burocrazia in occasioni del genere porterebbe a una rivoluzione ovunque, se non fra persone abituate da perenni abusi a questa particolare forma di tirannia. Non ci si stupisce allora se le donne della campagna, invece di sprecare ore preziose a discutere sul dazio per un pezzo di formaggio, preferiscono passarlo di contrabbando fingendo di essere incinta. In Italia, l’addomesticato inglese si sorprende a scoprire in sé un senso finora nascosto, che gli apre nuovi orizzonti, un nuovo gusto della vita - il senso di violare la legge».
C’è un aspetto positivo (ma lo è, poi?) in questa mostruosa combinazione di servilismo e piccola furberia: «L’italiano è o puerile o adulto; l’inglese rimane sempre adolescente». Gli ultimi due anni, in cui abusi, tirannia e storture del sistema giuridico (e non solo) hanno dominato la vita quotidiana degli italiani, hanno certamente rinverdito il valore di questa sentenza: molti bambini obbedienti, pochi adulti con la schiena diritta. E niente di nuovo sotto il sole del Belpaese.

