Con una battuta si potrebbe dire che Lepanto non ha insegnato nulla. Nel nostro sistema agroalimentare è un passaparola incessante: mamma li turchi! Ci stanno invadendo con i pistacchi avvelanti da aflatossine, nocciole taroccate, ma soprattutto con il loro grano, che proprio tutto loro non è, e ci stanno erodendo il mercato della pasta. Se ci si sposta dalla dispensa allo specchio l’allarme è ancora più grave. Il sistema moda è alle prese con un dumping turco che abbassa del 75% i prezzi degli abiti. La Confartigianato delle Marche, per esempio, ha annunciato di aver perso in cinque anni 1412 imprese, un quarto del comparto moda, proprio a causa della concorrenza che viene da est e dalla Turchia in particolare. Tornando alla tavola la Coldiretti ha bloccato nel porto di Bari la porta-rinfuse Alma. Batte bandiera turca, è carica di grano, ma è una delle navi fantasma che stanno triangolando, aggirando le sanzioni, il grano russo e anche quello ucraino su cui Recep Tayyp Erdogan ha messo le mani essendo stato il garante dell’accordo Black Sea Grain che ha permesso l’uscita del prodotto ucraino dal porto di Odessa. Finito direttamente nei silos turchi. Per Coldiretti l’allarme sui prodotti d’importazione è pressante. Sono 208 le allerte sanitarie notificate in Italia tra gennaio e inizio giugno. Quasi un quarto, rileva Coldiretti, viene dalla Cina che è quella che spaccia più cibi contaminati seguita dalla Spagna e dalla Turchia che però triangola praticamente tutti i prodotti dei paesi asiatici. In particolare l’offensiva di Ankara è su grano e pasta. «È una situazione» spiega l’ingegner Alberto Antolini «che si è fatta molto preoccupante. È una decina di anni che vediamo i turchi sempre più aggressivi, ma adesso stanno conquistando con la loro pasta tutta l’Africa centrale. Sono i nostri primi concorrenti e giocano alla turca: cioè senza scrupoli».L’ingegnere, riminese di carattere e di nascita, opera a Cremona a capo della Ocrim, ottanta anni di leadership mondiale nella costruzione di molini soprattutto per grano e mais. Si può dire che là dove si fa uno spaghetto c’è una macchina Ocrim. «Il fatto è che gli spaghetti ora li fanno i turchi a cui alcuni dei nostri fabbricanti hanno ceduto macchine e know how e loro ci ripagano buttandoci fuori dai mercati o conquistandone di nuovi». Il tema è legato anche alla fame dei paesi centro-africani. «Com’è ovvio» spiega Antolini «noi ci muoviamo soprattutto su mercati poveri dove dopo il riso arrivano il mais e il grano per il pane. Il tema è che i turchi hanno fatto incetta di grano, ne producono anche molto, vanno in questi paesi e li colonizzano con il loro prodotto, con le loro farine e li fanno diventare dipendenti da loro. Lo step successivo è vender loro la pasta che ha un margine di guadagno superiore ed è il secondo scalino di consumo una volta superata la soglia della fame». I dati dicono chiaramente dell’avanzata turca. Noi produciamo circa 3,7 milioni di tonnellate di pasta (più o meno un quarto del mercato mondiale) ma i turchi in pochi anni sono diventati i secondi produttori con 2,2 milioni scavalcando anche gli Usa. «Hanno un vantaggio competitivo per noi poco superabile» spiega Antolini «se non facciamo valere le nostre prerogative: loro la pasta la fanno miscelando a una percentuale minima di semola di grano duro, farina di grano tenero e altre farine. Da noi c’è la legge 187 che ammette al massimo il 4% di farina di tenero, ma nessun italiano mangerebbe mai una pasta che non fosse al 100 per cento di grano duro. Questa caratteristica però non l’abbiamo protetta, né raccontata al mondo». Il risultato è che noi quest’anno siccome produrremo il 70% in meno di grano duro in Sicilia e il 20% in meno in Puglia importeremo come primo cliente il grano duro turco (che in realtà è triangolato dalla Russia) perché i turchi sono diventati con 4,3 milioni di tonnellate il secondo produttore mondiale. In realtà lo stanno anche comprando ovunque a prezzi stracciati, oltreché in Russia, in Kazakistan e in Turkmenistan, fanno dumping sulle quotazioni delle commodity, lo stoccano per poi liberarlo sul mercato secondo convenienza. Perfino i colossi americani stanno piantando grano ovunque per cercare di contenere l’offensiva turca e sostenere i prezzi. In dieci anni Ankara è passata da 42 tonnellate vendute all’estero a 1,3 milioni, il 40% lo compra l’Italia! «Questo» sottolinea l’ingegner Antolini che esporta il 98% della propria produzione di macchine per molitura con un fatturato della Ocrim attorno agli 80 miliardi «è il presupposto per la conquista dell’Africa. Loro arrivano portano le loro macchine, il loro grano, fanno la loro pasta e rendono il paese talmente dipendente. I turchi si muovono con dietro lo Stato che li finanzia e apre loro la strada attraverso accordi e pressioni diplomatiche. Noi non abbiamo fatto nulla di tutto questo sinora». Antolini una strada la indica: «È il cosiddetto piano Mattei, ma che è assai diverso da come viene raccontato. Noi stiamo cercando di creare le condizioni perché i paesi africani, penso ad esempio al Ghana, acquisiscano le capacità produttive agricole e di trasformazione autonome che li fa diventare nostri partner; non c’è logica di conquista, semmai di sviluppo comune. Ma questa logica appartiene solo al nostro mondo agricolo e agroalimentare. Bonifiche Ferraresi guidate da Federico Vecchioni interpreta così il piano Mattei ed è tuta la filiera che si muove: noi con le tecnologie e le macchine, loro con la ricerca sulle sementi e le tecniche agronomiche, le nostre filiere con il supporto di mercato e di distribuzione, ma siamo in larga misura da soli a “combattere” sul mercato. I turchi invece arrivano con logica potrei dire coloniale, sfruttano quanto possono e ci sfrattano». Il tema è posto. Magari non serve una nuova Lepanto, ma ricordarsi dell’allarme, mamma li turchi, sì.
L’attacco alle quattro navi russe in Crimea ha provocato un altro terremoto. Dura la reazione del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov: «La situazione odierna è simile alla crisi dei missili a Cuba, le minacce immediate sono proprio ai confini della Russia» ha detto. Dalle parole ai fatti, perché la reazione immediata è stata quella di sospendere l’accordo sul grano. Solo ieri sono state bloccate 218 navi, di cui 95 cariche di cereali pronto per essere esportato. Per Mosca la scelta era obbligata: secondo fonti della sua Difesa, i droni che hanno attaccato Sebastopoli hanno utilizzato il corridoio di sicurezza previsto per il trasporto di cereali. I russi sospettano addirittura che questi possano essere stati lanciati da una «nave cargo». Non solo perché Mosca è convinta che l’attacco sarebbe stato sferrato con la regia di Londra, mentre i droni subacquei utilizzati, secondo quanto riportano le agenzie di stampa russe, avevano moduli di navigazione prodotti in Canada.
«Mosca riprenda la partecipazione all’accordo sul grano», così il segretario di Stato americano Antony Blinken. Dall’Europa, il responsabile della Politica estera europea Josep Borrell: «Questa decisione mette a rischio la principale via di esportazione dei cereali e fertilizzanti necessari per affrontare la crisi alimentare globale. Mosca torni indietro sulla sospensione dell’accordo sul grano». La Nato: «Putin smetta di usare il cibo come se fosse un’arma».
La Turchia, fra i principali artefici della chiusura dell’accordo del grano a luglio, si è subito messa all’opera per fare da tramite: Ankara avrebbe subito avviato colloqui telefonici con Mosca proprio per parlare del grano. «La situazione è complicata» ha detto un interlocutore dell’agenzia russa Ria Novosti, che però non ha escluso che l’accordo, in scadenza il 19 novembre, rimanga ancora in vigore. Per la Russia «sarà possibile parlare della possibilità di un ritorno all’accordo sul grano dopo un’indagine approfondita su quanto accaduto a Sebastopoli», ha detto il viceministro degli Esteri russo, Andrei Rudenko, che ha aggiunto: nei prossimi giorni contatteremo Turchia e Onu per parlare della situazione del grano».
La sospensione dell’accordo interrompe le spedizioni anche verso l’Italia, dove arrivavano dall’Ucraina quasi 1,2 miliardi di chili di mais per l’alimentazione animale, grano tenero e olio di girasole nell’ultimo anno prima della guerra. «Il blocco delle spedizioni di cereali sul Mar Nero è preoccupante soprattutto - sottolinea la Coldiretti- per le forniture di mais alle stalle italiane, in una situazione in cui i costi di produzione sono cresciuti del 57% mettendo in ginocchio gli allevatori nazionali».
Il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, intanto riflette sullo stop all’invio di armi. Per il Cavaliere, infatti, «Zelensky, forse, potrebbe accettare di sedersi al tavolo per una trattativa solo se a un certo punto capisse di non poter più contare sulle armi e sugli aiuti e se, invece, l’Occidente promettesse di fornirle soldi per la ricostruzione». Queste alcune sue dichiarazioni contenute nel libro di Bruno Vespa, La grande tempesta.
Ieri mattina, in un discorso televisivo, il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha nuovamente ribadito il suo avvertimento a proposito della drammatica situazione in Ucraina, «che scatenerà una crisi alimentare globale». Zelensky nel suo appello ha ricordato che «con l’Ucraina incapace di esportare grandi quantità di grano, mais, petrolio, e altri prodotti che hanno svolto un ruolo stabilizzante nel mercato globale, il mondo è sull’orlo di una terribile crisi alimentare». Per il presidente ucraino «ciò significa che, sfortunatamente, potrebbe esserci una carenza fisica di prodotti in dozzine di Paesi in tutto il mondo. Milioni di persone potrebbero morire di fame se il blocco russo del Mar Nero continua e mentre cerchiamo modi per proteggere la libertà, un’altra persona la sta distruggendo. Un’altra persona continua a ricattare il mondo con la fame».
A lui ha replicato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che parlando con i giornalisti, ha confermato quello che era nell’aria, ovvero che «ad Ankara non è stato raggiunto alcun accordo sull’esportazione di carichi di grano ucraino attraverso il Mar Nero». Quindi almeno per il momento non è riuscito il colpaccio al presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, che anche sul tema del grano mostra grande attivismo e sta spingendo affinché Russia e Ucraina negozino un passaggio sicuro per il grano bloccato nei porti del Mar Nero. Il tema è stato l’oggetto dell’incontro di Ankara avvenuto lo scorso 8 giugno tra il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, e il suo omologo russo, Sergej Lavrov. I turchi, desiderosi come non mai di apparire come i «pacificatori» capaci di tessere grandi accordi come quello sul grano, si erano già detti, attraverso Ibrahim Kalin , portavoce di Erdoğan, molto ottimisti visto che «abbiamo già pronta una bozza di memorandum».
Peccato che la bozza per diventare un accordo internazionale deve passare attraverso un voto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e deve essere prima di tutto accettata dalle parti belligeranti. E così, come si poteva facilmente prevedere, il tentativo della Turchia di farsi promotrice dell’accordo tra Russia e Ucraina per sbloccare il grano che è fermo da mesi nei porti ucraini è fallito, tanto che quanto concordato tra Lavrov e Cavusoglu per gli ucraini è carta straccia, al punto che non hanno nemmeno voluto ricevere la tanto evocata «bozza di memorandum».
Ma che c’è scritto in questo documento? Iniziamo da quello che non c’è scritto, ovvero quanto anticipato da Mevlut Cavusoglu, che si era lasciato scappare: «Abbiamo discusso di un meccanismo formato da Onu, Russia, Ucraina e Turchia riguardo ai corridoi per il trasporto del grano dai porti ucraini». Lavrov evidentemente scherzava quando ne parlavano, anche se in conferenza stampa ha dichiarato di «apprezzare gli sforzi dei nostri amici turchi per sbloccare il grano, sminare i porti ucraini e permettere l’accesso alle navi straniere che al momento sono in ostaggio».
Nel piano si prevede che la Marina militare turca si faccia garante «dell’apertura di un corridoio nel Mar Nero per permettere la partenza delle navi cargo con il grano bloccato nei porti ucraini». Facile da dirsi, peccato che la Russia - l’aggressore in questa guerra - mette una serie di paletti che rendono impossibile ogni accordo con l’Ucraina.
E quali sarebbero queste condizioni? La prima prevede che le acque intorno ai porti ucraini debbano essere sminate dagli ucraini, che hanno riempito di mine i porti per evitare che i russi completino l’invasione via mare. E i russi che farebbero? Secondo il documento, «l’esercito russo non sfrutterebbe questa situazione per attaccare i porti ucraini». Non c’è dubbio che il proposito sia lodevole, tuttavia, non esiste un solo ucraino (e non solo) che si fidi delle parole dei russi. E chi controllerebbe tutto questo importante dispositivo di sicurezza marittima? Un organismo internazionale creato ad hoc? Naturalmente no, perché i russi pongono la condizione che sia il loro esercito «a condurre puntuali controlli sulle navi che attraccano nei porti ucraini per caricare il grano, per impedire che possano trasportare segretamente armi».
Infine, l’apertura di un corridoio nel Mar Nero, per i russi si potrebbe realizzare «solo» con l’allentamento delle sanzioni imposte alla Russia. Ovvio che Vladimir Putin fa melina, mandando in giro per il mondo Sergej Lavrov (quando non gli chiudono lo spazio aereo) con il solo intento di prendere tempo e avvertendo: «Mosca non cadrà nella stessa trappola dell’Urss, la sua economia resterà aperta». Se non interverranno fatti nuovi la situazione non sembra avere alcuna possibilità di sbloccarsi nonostante il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, continui a insistere: «serve un accordo che consenta l'esportazione sicura di alimenti prodotti in Ucraina attraverso il Mar Nero», è «essenziale per centinaia di milioni di persone». Non si capisce però come si possa arrivare a un’intesa, visto che gli ucraini della bozza turco-russa non ne vogliono sentire parlare: «Questo è uno di quei momenti in cui è necessaria la diplomazia silenziosa».
Delle questioni legate al grano ha nuovamente parlato ieri mattina il presidente del Consiglio, Mario Draghi, nella sede dell’Ocse a Parigi, per il Consiglio ministeriale presieduto quest’anno dall’Italia: «Alla determinazione dimostrata nei confronti dell’Ucraina dobbiamo affiancare la stessa risolutezza nell’aiutare i nostri cittadini e quelli nelle aree più povere del mondo, in particolare nell’Africa. I nostri sforzi per prevenire una crisi alimentare devono partire dai porti ucraini del Mar Nero. Dobbiamo offrire al presidente Zelensky le garanzie di cui ha bisogno, che i porti non verranno attaccati. E dobbiamo continuare a sostenere i Paesi beneficiari, proprio come sta facendo l’Unione europea con il Food and resilience facility».





