«Emanuela», che il 6 luglio ha ottenuto il permesso di registrarsi all’anagrafe come donna pur non essendosi sottoposta a intervento chirurgico o terapia ormonale, rappresenta un precedente inquietante.
La sentenza del Tribunale di Trapani non solo ha la pretesa di riconoscere il diritto dell’identità di genere, di sentirsi del sesso che si vuole indipendentemente dal dato biologico cromosomico (e senza rinunciare al pene, nel caso della cinquantatreenne siciliana di Erice), ma apre la strada a un’articolata serie di «ingiustizie».
La neo Emanuela, che a Repubblica dichiara: «Spero che la mia esperienza possa essere di aiuto per altre persone», sta solo prospettando un quadro che di giuridico ha assai poco dal momento che, per chiedere la rettifica anagrafica, occorre per legge la riassegnazione sessuale per via ormonale e chirurgica.
Non solo. Alla transgender non mancano molti anni per andare in pensione e, grazie alla sua nuova condizione anagrafica, potrà farlo con un anno in anticipo rispetto all’essere sempre un uomo. Le basterà solo un’anzianità contributiva di 41 anni e 10 mesi, ma se assiste il coniuge o un parente con handicap, o se è dipendente di un’azienda interessata a una fase di rilancio aziendale con lavoratori in esubero e da ricollocare nel mercato del lavoro, potrà usufruire dell’Opzione donna.
In questo caso, il requisito anagrafico viene ridotto a 58 anni e la «signora Emanuela» tra cinque anni potrà incrociare le braccia, avendo già diritto al trattamento pensionistico. Godranno di questi privilegi tutti gli uomini che non si sentono maschi, però non vogliono «sacrificare la propria sfera sessuale» e che diranno di voler «convivere in armonia», con il proprio corpo, «percependosi donna» pur con l’organo sessuale maschile?
Se questa sentenza farà giurisprudenza, influenzando in modo determinante l’applicazione del diritto nelle aule giudiziarie e solo perché la Corte di cassazione nel 2015 aveva espresso il principio che «l’acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità», di un intervento chirurgico o di un trattamento ormonale, immaginiamoci quanti trans preferiranno non menomarsi ma sentirsi come gli pare.
L’aveva stabilito già una sentenza del luglio 2013, quando il tribunale di Rovereto concesse a Luca, cinquantenne di Arco, in provincia di Trento, di poter fare la rettifica del sesso e diventare all’anagrafe Lucia senza interventi chirurgici. «La scelta su cosa fare deve essere individuale», sostenne l’avvocato Alexander Schuster, legale del transgender, da sempre in primo piano nel sostenere i diritti Lgbt. Il giudice gli diede ragione.
È vero che gli interventi chirurgici di riattribuzione del sesso sono dolorosi oltre che devastanti e non offrono soluzioni, come pure sono pesantissimi gli interventi ormonali, però limitarsi alla percezione di essere donna e non uomo (tralasciando le implicazioni etiche e sociologiche di una identità di genere a proprio uso e consumo), non può far invocare diritti che ne calpestano altri.
I vari Emanuela e Lucia, che potranno esibire un certificato anagrafico che nega la loro biologia, al lavoro o in palestra pretenderanno di utilizzare bagni e spogliatoi femminili imponendo a donne che lo sono davvero in ogni cellula, di dover assistere allo spettacolo di pene e testicoli nell’intimità di uno spazio riservato. Non è violenza pure questa, esercitata in nome di un sentirsi quello che non si è?
Pensiamo, in campo sportivo e agonistico, l’assurdità di mettere a competere sullo stesso piano donne e trans con corpi e prestazioni da maschi, che solo perché possono iscriversi nelle liste femminili credono di aver annullato il gap con l’altro sesso. A ogni obiezione, protesteranno fingendosi discriminati.
Per non parlare degli ospedali, dove se passa il principio che basta sentirsi con una «nuova identità di genere» potremmo avere un uomo come vicino di letto, ma guai ad alzare la voce contro una simile promiscuità. Potrà essere anche il compagno di cella di una donna che finisce incarcerata, però non si merita altri guai sotto forma di trans maschi, magari pronti a molestarla o violentarla visto che non hanno rinunciato agli attributi.
«Non avere l’organo sessuale femminile non compromette il modo in cui mi percepisco: donna», ha dichiarato Emanuela. Non è una garanzia e non vale per tutti, come dimostra il caso di David Thompson, diventato Karen White pur mantenendo i genitali, e che rinchiuso in un penitenziario del Regno Unito aveva abusato di due detenute. O la vicenda delle due donne incinte nel carcere femminile del New Jersey, dopo l’arrivo di prigionieri transgender.
Ma risultare donna all’anagrafe significa anche entrare di diritto nel sistema che garantisce le quote rosa, con obblighi previsti legalmente di una maggior integrazione di genere in aziende così pure nella rappresentanza politica, con le quote di lista. Siamo ben distanti da una parità formale, però non si comprende perché mai dovremmo rassegnarci a vedere l’Emanuela o la Lucia di turno candidate capolista, con maggiori opportunità d’inserimento nelle istituzioni perché si fanno passare per donne.


