Se la storia fosse davvero «maestra di vita» - come taluni si ostinano a credere - dovrebbe assegnare un pessimo voto e spedirli, quindi, dietro alla lavagna con il berretto dell’asino (secondo l’uso di una volta) agli alunni Macron Emmanuel, presidente francese, e Starmer Keir, primo ministro di sua maestà britannica, per non aver appreso la lezione che ai loro rispettivi predecessori, Mollet Guy (nelle più modeste vesti di presidente del Consiglio, non essendovi allora in Francia l’attuale regime semipresidenziale) ed Eden Anthony era stata impartita nel novembre dell’anno 1956.
Era stato, infatti, allora che i due avevano concordato l’effettuazione della spedizione militare contro l’Egitto di Gamal Abdel Nasser, in appoggio all’attacco sferrato dallo Stato d’Israele e in risposta alla nazionalizzazione della Compagnia del canale di Suez, di proprietà anglo-francese, ordinata dallo stesso Nasser pochi mesi prima. La spedizione fu, sotto il profilo militare, coronata da pieno successo, avendo portato all’occupazione di tutta la zona del canale, ma si risolse, nel giro di pochi giorni, in un totale disastro politico perché, a fronte dell’opposizione manifestata tanto dalla Russia (allora ancora Urss, che minacciò addirittura l’uso dell’arma atomica), quanto dagli Usa, la Francia e la Gran Bretagna si videro costrette ad un umiliante ritiro delle loro truppe e all’accettazione, di fatto, della perdita di ogni controllo sul canale di Suez. Fu quello l’ultimo tentativo delle ex grandi potenze coloniali europee di usare autonomamente quel che restava della loro forza per difendere i propri interessi.
L’ attualità della lezione che se ne può trarre è data dal fatto che il suo fallimento - cui seguì la fine politica tanto di Anthony Eden quanto di Guy Mollet - fu determinato, come si è appena detto, dall’inopinato accordo tra le due superpotenze, Usa e Urss, che pure si fronteggiavano tra loro; e ciò a onta del fatto che proprio in quegli stessi giorni l’Urss schiacciava sotto i cingoli dei carri armati l’Ungheria che, per bocca del primo ministro Imre Nagy, portato al potere dalla rivolta popolare contro la dittatura del partito comunista, aveva proclamato l’uscita del Paese dal patto di Varsavia, nel quale erano raggruppati, oltre all’Urss, tutti gli altri Paesi «satelliti» dell’Europa orientale.
A che cosa fu dovuto quell’accordo? Le risposte, da parte degli studiosi di storia geo-politica sono, ovviamente, le più varie. Senza voler loro rubare il mestiere, può tuttavia ritenersi che, nell’essenziale, la ragione fu costituita dall’intento dell’allora presidente americano Dwight Eisenhower di non pregiudicare, con un appoggio all’iniziativa anglo-francese, le prospettive di «coesistenza pacifica» che erano state aperte, nel febbraio dello stesso anno 1956, all’esito del XX congresso del partito comunista dell’Urss, dal neo segretario del partito Nikita Krusciov; prospettive alle quali gli Usa potevano essere interessati, se non altro per il fatto che su di essi gravava la maggior parte dell’onere per il mantenimento, in funzione anti Urss, dell’apparato militare della Nato. A fronte di un tale interesse, tanto più rilevante in quanto, già dal 1955, si era andata profilando la necessità di un sempre maggiore impegno americano a sostegno del regime del Vietnam del sud contro il Vietnam del nord, sostenuto soprattutto dalla Cina, era del tutto evidente che i residui interessi post coloniali delle pur alleate Francia e Gran Bretagna potevano tranquillamente andare a farsi benedire.
La situazione attuale è, per molti versi, analoga a quella del 1956. Ora come allora, infatti, per effetto del mutamento imposto dal presidente Donad Trump alla politica estera degli Usa, si è venuto a creare tra questi ultimi e la Russia un reciproco interesse al miglioramento delle loro relazioni.
Quanto agli Usa, l’interesse è quello che si allenti lo stretto vincolo che, a seguito delle sanzioni che le sono state imposte dall’Occidente, si è creato tra la Russia e la Cina, considerata dagli Usa come il loro principale avversario. Ulteriore interesse è poi quello che la Russia non ostacoli le dichiarate mire degli Usa sulla Groenlandia, da essi ritenuta, a quanto pare, essenziale per la loro sicurezza.
Quanto alla Russia, l’interesse è quello che, grazie alla proclamata intenzione di Trump di far comunque finire la guerra con l’Ucraina, essa possa uscirne con vantaggio e, recuperati i buoni rapporti almeno con gli Usa, possa quindi sottrarsi alla necessità di mantenere con la Cina quel medesimo, stretto vincolo che, a lungo andare, potrebbe trasformarsi in un rapporto di semi dipendenza.
E che il calcolo americano possa avere una qualche fondatezza sembrerebbe aver trovato, almeno con riguardo alla questione Groenlandia, una significativa conferma in quanto si riferisce affermato, pochi giorni fa, dal presidente russo Vladimir Putin, secondo cui le mire espresse da Donald Trump sull’isola - attualmente sotto nominale sovranità della Danimarca, alla quale, peraltro, la maggioranza delle poche migliaia di abitanti pare che vorrebbe sottrarsi, preferendo l’indipendenza - sono, oltre che «serie», anche «storicamente fondate», e non tali, comunque, da interessare la Russia.
Appare quindi evidente come, in una tale situazione, gli Usa altro non potrebbero fare se non mandare a quel paese (più o meno educatamente) le redivive velleità franco-britanniche, espresse da monsieur Macron e da mister Starmer, di assumere, con altri presunti «volenterosi», autonome iniziative militari che, pur se asseritamente finalizzate a sole funzioni di «peacekeeping», una volta cessate le ostilità tra Ucraina e Russia, quest’ultima vedrebbe, tuttavia, come il fumo negli occhi.
Dopodichè il destino di quelle iniziative sarebbe presumibilmente segnato e lo sarebbe forse, auspicabilmente, anche quello dei loro ideatori. I quali, intanto, hanno indetto un nuovo summit, il 10 aprile a Bruxelles, dove i ministri della Difesa dei Paesi «volenterosi» si incontreranno, in scia alla recente riunione a Parigi dove si sono ritrovati una trentina di Paesi, tra cui l’Italia.
Pietro Dubolino, presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione



