- La sfida al ridicolo degli intellettuali progressisti. Prima invocano la censura rossa sulla kermesse letteraria, poi lanciano un surreale dibattito sull'opportunità di boicottarla. Tutto pur di restare sotto i riflettori e cancellare la libertà di espressione.
- L'editore di Altaforte: « Sul nostro conto troppe bugie. Siamo indipendenti da Casapound e non stampiamo libri sul fascismo».
Lo speciale contiene due articoli.
«Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce, voi mi fate: “Michele, vieni di là con noi, dai..." e io: “Andate, andate, vi raggiungo dopo...". Vengo! Ci vediamo là. No, non mi va, non vengo, no». Molti l'avranno riconosciuta: è la scena cult di Ecce Bombo, in cui Nanni Moretti (nei panni del suo alter ego cinematografico Michele Apicella) parla al telefono con l'amico Nicola. E ne esce il ritratto di un'antropologia di sinistra attorcigliata intorno a dilemmi inconsistenti eppure insolubili, a un narcisismo inguaribile, a enigmi esistenziali molto spesso senza senso, che via via diventano più comici che tragici.
La sindrome del «vado o non vado» può oggi essere applicata al Salone del libro di Torino, ormai diventato una via di mezzo tra uno psicodramma e una passerella-social, con vipponi e vippini (sono rappresentate tutte le gradazioni e le sfumature del rosso) che si sentono in dovere di far sapere al mondo se andranno o non andranno. Segue dibattito, disperazione degli amici, tentativi di persuasione e dissuasione, con cuoricini e like che vanno e vengono sui social.
Però stavolta c'è poco da ridere, e l'elemento furbesco e ipocrita prevale sulla comicità involontaria, almeno per tre ragioni. Primo: perché tutto nasce - è bene non dimenticarlo - da un preciso e voluto atto di intolleranza, da un deliberato tentativo di censura. E cioè dal fatto che numerosi «compagni» non vogliano la presenza di un editore «nero», Altaforte. Nell'Italia del 2019, per quanto la cosa possa apparire incredibile, si è aperto il dibattito sul fatto che una casa editrice possa o non possa promuovere i suoi lavori. Peggio: sul fatto che la libertà d'espressione sia subordinata al pollice in su o in giù, della sinistra intellettuale.
Secondo: il consulente del Salone, Christian Raimo, non si è dimesso perché è un eroe buono, come ora ci si vorrebbe far credere. Ma perché la sua posizione è divenuta insostenibile dopo le affermazioni offensive e calunniose che ha scagliato contro alcuni bersagli. Giova riproporre la frase di Raimo, per tenerla bene a mente: «Alessandro Giuli, Francesco Borgonovo, Adriano Scianca, Francesco Giubilei, tutti i giorni in tv, sui giornali, con i loro libri sostengono un razzismo esplicito». Avete letto bene: «Razzismo esplicito».
Terzo: perché da quel momento - a meno di nostri errori e omissioni - nessun grande giornale ha avuto la curiosità di sentire i bersagli, di dare la parola agli aggrediti, di sentire la loro versione, di capire cosa facciano di così mostruoso. No: tutto il dibattito verte sull'argomento su cui la sinistra è più preparata, e cioè se stessa.
Ciò detto, veniamo alla puntata di ieri della telenovela. È tornato a parlare Raimo (che andrà, pur dimissionario), con un accorato appello al suo pubblico: Ogni spazio pubblico è oggi un luogo di battaglia, culturale, politica, civile, antifascista», fa sapere dalla sua trincea su Facebook. «Io andrò al Salone del libro, non più da consulente: la ragione per cui mi sono dimesso è che non voglio la presenza di editori dichiaratamente fascisti o vicini al fascismo. Penso che il Mibac, ossia lo Stato, debba tutelare questo diritto per tutti, e proteggere il Salone da ogni ingerenza fascista; penso che l'Aie e l'Adei, ossia le associazioni degli editori, debbano affrontare radicalmente questa questione». Resta da capire cosa Raimo intenda per «radicalmente». Segue la sentenza: «I luoghi della cultura devono essere presìdi contro il fascismo». Andranno invece (per i feticisti e gli appassionati, l'hashtag su Twitter è: #iovadoaTorino) una serie di altri autori, da Michela Murgia a Chiara Valerio: «Se Casapound mette un picchetto nel mio quartiere, che faccio, me ne vado?».
Veniamo invece a chi non andrà. In ordine di apparizione (anzi: di sparizione), si segnalano l'Anpi, Carlo Ginzburg e Zerocalcare. L'associazione dei partigiani fa sapere che la sua presidente, Carla Nespolo, ha annullato una presentazione: «Il motivo è legato all'intollerabile presenza al Salone della casa editrice Altaforte che pubblica volumi elogiativi del fascismo oltreché la rivista Primato nazionale, vicina a Casapound e denigratrice della Resistenza e dell'Anpi stessa». Per le stesse ragioni, dice no Carlo Ginzburg: «Annullo la mia partecipazione. La mia, tengo a sottolinearlo, è una scelta politica, che non ha nulla a che fare con la sfera della legalità».
Più tormentato Zerocalcare. Su Twitter proclama: «Mi è impossibile pensare di rimanere tre giorni seduto a pochi metri dai sodali di chi ha accoltellato i miei fratelli, incrociarli ogni volta che vado a pisciare». Dopo questa nota poetica, segue un post scriptum metà italiano metà romanesco: «Non è che io so' diventato più cacacazzi negli ultimi tempi, anzi so' pure molto più rammollito, è che oggettivamente 'sta roba prima non sarebbe mai successa. Qua ogni settimana spostiamo un po' l'asticella del baratro».
Intanto, non si dà pace Gianni Riotta: la manifestazione torinese «si deve difendere come può assediata da fascisti, nazionalisti, populisti, l'Italia peggiore del 2019». Dall'ufficio patenti - per oggi - è tutto.
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Dannati sovranisti: li si prende in giro una vita perché non leggono e quando poi si scopre che oltre a leggere e a scrivere hanno persino delle case editrici, non va bene lo stesso. Nella querelle sul Salone del libro di Torino, che ormai potremmo tranquillamente chiamare Salone Altaforte, vista la pubblicità gratuita che la campagna inaugurata da Chiristian Raimo sta facendo alla casa editrice della discordia, regna una certa confusione.
Per l'ormai ex consulente dell'evento torinese, la casa editrice vicina a Casapound non sarebbe altro che l'avanguardia militare di una gigantesca offensiva culturale sovranista che sta occupando postazioni a spese dell'intellighenzia democratica.
Un'offensiva che ha una sorta di quadrumvirato alla sua testa: Raimo ha fatto espressamente i nomi di Francesco Borgonovo e Adriano Scianca, ben noti ai lettori di questo giornale, oltre che di Francesco Giubilei, editore e scrittore di area identitaria e liberale, e del giornalista Alessandro Giuli. Rispetto alle accuse, anche pesanti, di Raimo, Giuli stesso commenta: «Di quello me ne occuperò nelle prossime ore insieme al mio avvocato. Capisco che Raimo abbia le sue ragioni per essere nervoso, ma il modo in cui esprime questo nervosismo è inaccettabile. In generale credo che i libri siano sempre innocenti e chi li ostracizza oggi, domani sarà pronto a bruciarli, come accadeva negli anni Trenta e nel Medioevo».
Quanto alla famigerata rete culturale sovranista che starebbe metodicamente prendendo in ostaggio la vita pubblica italiana, Giuli afferma, provocatoriamente: «Magari esistesse. Almeno potremmo prendere le misure a qualcosa di reale. La verità è che qui c'è tutta prassi e niente dottrina, non c'è niente di strategico e a malapena c'è qualcosa di tattico. Dalla sinistra c'è un enorme sopravvalutazione del fenomeno in atto. Capisco che possa essere consolante, per sentirsi più vivi e battaglieri, immaginare questa offensiva culturale sovranista, ma la verità è che non sta accadendo nulla di simile».
E poi c'è Altaforte. Tutti ne parlano, pochi parlano con loro, per sapere chi sono, cosa fanno e cosa vogliono. C'è da giurare che i più non sappiano neanche che il nome del marchio deriva da una sestina di Ezra Pound. Francesco Polacchi, titolare dell'azienda, finito nella bufera per alcune dichiarazioni rilasciate alla Zanzara, ce la descrive così: «Siamo nati nove mesi fa e abbiamo pubblicato finora nove libri, uno al mese. Io sono militante di Casapound e non l'ho mai nascosto. Questa casa editrice, però, non ha alcun legame con il movimento, anche se abbiamo una nostra linea editoriale sovranista. Una casa editrice va giudicata da ciò che pubblica e non dalle opinioni del suo editore. La maggior parte dei nostri autori non fa parte di Casapound e certo non abbiamo chiesto loro di tesserarsi. E nei nostri testi non si parla di fascismo. Vorrei far notare, peraltro, che mentre noi pubblichiamo il libro intervista a Matteo Salvini, Casapound si candida alle europee in competizione con la Lega e rivolgendo al governo una serie di critiche politiche profonde. Questo dovrebbe testimoniare il percorso autonomo della casa editrice rispetto a Cpi».
E i libri sul fascismo che stanno facendo piangere i progressisti? Anche qui le cose non stanno come è stato detto. «I libri che tutti stanno citando», spiega ancora Polacchi, «non sono pubblicati da Altaforte, ma da altre case editrici che noi, tramite le nostre librerie e il nostro sito, distribuiamo. Alcuni dei testi citati sono ordinabili anche sul sito di Mondadori e Feltrinelli, se è per questo. Questo non significa che domani Altaforte non possa decidere di pubblicare un saggio o un romanzo sul fascismo, non mi pare che la cosa sia vietata». Quanto alle accuse lanciate da Raimo e altri, il titolare di Altaforte taglia corto: «Non stiamo esponendo i libri a casa di Raimo, ma in un evento che ha importanti partnership pubbliche. Non sta quindi a lui o a Zerocalcare decidere chi può partecipare e chi no».
Prosegue senza sosta la surreale saga del Salone del libro di Torino: la «puntata» di ieri ha visto - in un clamoroso e un po' maldestro tentativo di rovesciamento della frittata - il fronte dei censori impegnatissimi a presentarsi come vittime. Con inevitabile effetto comico.
I lettori della Verità conoscono l'antefatto. Prima, il fuoco di fila «antifascista» contro la presenza di uno stand (8 metri quadrati) della casa editrice Altaforte, vicina a CasaPound; poi, le parole fuori controllo del consulente del Salone, lo scrittore Christian Raimo, che alla fine si è inevitabilmente dovuto dimettere, dopo aver sparacchiato infamanti accuse di «razzismo esplicito».
In un mondo normale, la direzione del Salone si sarebbe chiusa in un lungo e imbarazzato silenzio. E invece il direttore della manifestazione, Nicola Lagioia, è singolarmente passato all'offensiva, dicendosi dispiaciuto per le dimissioni del suo amico Raimo e aggiungendo: «Mi dispiace per come uomini politici di partiti dove ci sono gli inquisiti per mafia abbiano cavalcato la vicenda. Mi dispiace per come tanti commentatori cerchino di strumentalizzare il Salone ai soli fini della campagna elettorale o per avere visibilità. Sacrificare una parte di sé per un bene comune è una cosa ormai da pochi. Raimo l'ha fatto senza che nessuno gliel'abbia imposto, e questo ai miei occhi lo nobilita. Gli altri si guardino allo specchio». E poi il gran finale: «Chi ha creduto di sfruttare i contenuti del post di Raimo, scritto solo a titolo personale, e le polemiche sui neofascismi per intimidirci, per scalfire l'indipendenza editoriale del Salone e quindi per danneggiare un progetto bellissimo e l'intero territorio, sbaglia di grosso». Rovesciamento curioso: sono stati uomini del Salone a innescare un tentativo di censura e a insultare. Che ora il direttore dica che non si farà intimidire è abbastanza curioso. La sensazione è che una grande specchiera serva proprio al comitato organizzatore: o per provare ad arrampicarvisi o per scoprire chi abbia intimidito chi...
Ma Lagioia («Mai una gioia», hanno scritto i più perfidi sui social network) non è stato l'unico a tentare di fare la vittima. Ieri è sceso in campo al fianco di Raimo lo scrittore Giuseppe Genna: su Twitter (dove si definisce nientemeno che «novelist and consciousness essayist», roba grossa insomma) ha espresso «solidarietà fraterna, politica, intellettuale» a Raimo, dimessosi «contro le indegne pressioni di fascisti al governo». Genna, già pronto alla nuova Resistenza, ha concluso: «La posizione di Raimo è l'unica che si deve tenere contro la deriva imposta dagli assassini della democrazia». Che - presumiamo - siano quelli che prenotano e pagano regolarmente uno spazio espositivo al Salone, e ovviamente chi ha osato difenderli.
Non da meno di Genna, un'altra autrice, Lia Celi, pure lei sulle barricate contro il libro intervista di Matteo Salvini pubblicato da Altaforte. Con quel libro a Torino, secondo la Celi, «più che Salone del libro chiamiamolo Salò del libro».
Ma la fantasia progressista non conosce confini. Un altro «cervello in fuga» (dal Salone) è lo scrittore satirico Sgargabonzi, che, immaginando di gettare tutti nello sconforto, ha pubblicato su Facebook la notizia del suo abbandono: «Ecco cosa resta del mio invito al Salone del libro dopo le dimissioni del mio amico e collega Christian Raimo». E, sotto queste due righe, una foto dell'invito fatto a pezzetti più un bicchiere colmo di un digestivo effervescente. Morale, non c'è più bisogno di Salvini per prenderli in giro sul Maalox: la sinistra «intellettuale» ormai provvede da sé.
Ma il colpo di teatro della giornata è venuto dal collettivo bolognese di scrittori Wu Ming, che non si dà pace per la mancata esclusione delle edizioni Altaforte, e ha preannunciato il suo ritiro, al grido di «mai con i fascisti». «A Torino», proclamano, «si è compiuto un passo ulteriore nell'accettazione delle nuove camicie nere sulla scena politico culturale italiana. Accettazione che da anni premia soprattutto i fascisti di CasaPound, sempre intenti a rappresentarsi come “carini e coccolosi"». E quindi che fa il collettivo Wu Ming? Immaginando di gettare le folle nel panico, dichiara «di non aver intenzione di condividere alcuno spazio o cornice coi fascisti. Mai accanto a loro. Per questo non andremo al Salone».
Da segnalare infine una (doppia) coda - francamente evitabilissima - al comizio tenuto nei giorni scorsi da Matteo Salvini a Forlì dal balcone del municipio a piazza Saffi, subito rilanciato nei titoli di molti giornali come il «discorso dal balcone di Benito Mussolini». Un candidato della lista del Pd per il Comune di Pavia, tale Ottavio Giulio Rizzo, ha pubblicato sui social una doppia immagine «rovesciata» e affiancata di Mussolini e Salvini, con la seguente chiosa di dubbio gusto: «Se ci tiene tanto a rievocarlo, tenga presente che piazzale Loreto verrà finalmente trasformata in una piazza pedonale». Ieri, travolto dalle polemiche e dalle reazioni, Rizzo ha fatto sapere, bontà sua, di «non auspicare l'impiccagione di chicchessia».
Non ha contribuito a distendere il clima neanche l'economista Carlo Alberto Carnevale Maffè, che ha postato su Twitter la tragica foto dell'agosto 1944, con i corpi dei quattro partigiani della Brigata Corbari orribilmente appesi dai nazifascisti ai lampioni di piazza Saffi, a Forlì, proprio davanti al famigerato balcone. Commento di Carnevale Maffè: «Il balcone di Forlì, l'altra volta». Viene da chiedersi: 75 anni dopo, è forse colpa di Salvini?





