Biden blocca il petrolio russo, le conseguenze. Rame, prezzi in ripresa con la domanda cinese. Il piano di pace di Trump per l’Ucraina prevede lunghe sanzioni alla Russia. Rio Tinto e Glencore verso una clamorosa fusione.
Le miniere d'oro di Alagna Valsesia nel '700. Nel riquadro, Spirito Benedetto Nicolis di Robilant
Alla metà del '700 Spirito Benedetto Nicolis di Robilant, ufficiale e ingegnere, studiò in Germania le più avanzate tecniche estrattive per applicarle alle miniere piemontesi. Darà le basi al futuro sviluppo nell'Italia unita sotto i Savoia.
Spirito Benedetto Nicolis di Robilant fu una delle figure chiave dello sviluppo economico e industriale del regno sabaudo, decenni prima dell’Unità d’Italia avvenuta sotto le insegne della casa reale piemontese. Il suo contributo in termini tecnici nell’ammodernamento del settore minerario delle Alpi occidentali contribuì a forgiare l’ossatura della nascente industria dell’Ottocento, grazie alla spinta che i suoi studi e i suoi viaggi esplorativi fornirono al governo del regno di Sardegna, caratterizzato da una radicata struttura tecnico-militare nell’amministrazione dei beni dello Stato che alla metà del Settecento fu impiegata per il processo di modernizzazione del settore promosso dal sovrano riformatore Carlo Emanuele III.
Non vi sarebbe potuta essere figura migliore di quella del conte Nicolis di Robilant per portare a compimento il processo di esplorazione delle miniere piemontesi e valdostane perché il nobile ed ingegnere era stato un valido ufficiale del Genio, veterano di due guerre. Il conte, nato a Torino nel 1724, aveva combattuto nella guerra di successione polacca e a quella austriaca. Durante quest’ultima, durante la battaglia di Casteldelfino del 1744 fu catturato e tenuto prigioniero in Francia. Liberato l’anno successivo grazie ad uno scambio di prigionieri, fece ritorno a Torino. L’ingegnere e ufficiale, esperto in fortificazioni e tecniche costruttive in ambito militare, fu incaricato quattro anni più tardi da Carlo Emanuele III del compito di progettare l’ammodernamento del settore minerario del regno sabaudo, preliminare alla centralizzazione del settore sotto l’egida di casa Savoia. Nominato Ispettore generale delle miniere, Spirito Benedetto fu a capo di una difficile e lunga missione esplorativa nell’Europa nordorientale in particolare in Germania, dove lo sviluppo tecnico-scientifico applicato al settore estrattivo era all’avanguardia nel vecchio Continente. Nel 1749 partì per visitare a fondo gli impianti minerari in Europa orientale, visitando miniere e impianti metallurgici in diverse regioni, tra cui la Sassonia, la Turingia, l'Harz, l'area di Hannover, la Boemia e l'Alta Ungheria. I suoi appunti e disegni relativi a queste esplorazioni furono poi raccolti nei sei volumi manoscritti «Viaggi nelle miniere di Alemagna». Durante i suoi viaggi in Germania, Spirito Benedetto Nicolis di Robilant studiò principalmente le tecnologie minerarie e metallurgiche avanzate dell'epoca, in particolare nei distretti minerari della Sassonia, della Turingia e della regione dell'Harz. Queste aree erano famose per l'estrazione di metalli preziosi, rame e ferro, e per l'applicazione di tecnologie avanzate come i sistemi di ventilazione nelle miniere, i metodi di estrazione del minerale e i processi di fusione e raffinazione.
In Germania, Robilant osservò le strutture organizzative delle miniere e gli strumenti utilizzati per l'estrazione e la lavorazione dei metalli. Le tecniche tedesche di gestione delle miniere e il loro approccio scientifico all'ingegneria mineraria avevano una reputazione d'eccellenza, ed erano considerate modelli per altri paesi europei. Queste conoscenze influenzarono il suo lavoro successivo e le riforme proposte per modernizzare il settore minerario del Regno di Sardegna. Il conte ingegnere appuntò minuziosamente tutti gli aspetti tecnici dei siti da lui visitati. In particolare in Sassonia, la zona mineraria all’epoca più avanzata d’Europa, dove studiò gli aspetti tecnici e i macchinari più all’avanguardia. I suoi appunti riguardavano le pompe idrauliche, i sollevatori a tamburo, le canalizzazioni e i soffianti per l’aerazione in galleria, i frantoi meccanici e i forni di fusione. Ed ancora, le ruote idrauliche e la canalizzazione delle acque per la forza motrice o per l’uso nel lavaggio dei minerali. Il viaggio durò due anni e fu durissimo, tanto che i quattro cadetti di artiglieria che accompagnavano di Robilant perirono durante il percorso. Al ritorno nel 1751, con il patrimonio raccolto in Germania e Ungheria, l’Ispettore delle miniere fu chiamato ad un nuovo e complicato compito. Il censimento del settore minerario piemontese e valdostano al fine di applicare la centralizzazione progettata da Torino e predisporre una futura modernizzazione di una realtà potenzialmente molto fruttifera ma ancora gestita da piccoli concessionari locali e pesantemente arretrata da un punto di vista tecnico. Il lavoro si presentava immenso, perché le Alpi occidentali erano ricche di ogni genere di metalli, dal rame all’oro, al ferro e al manganese in una zona che comprendeva anche la prima propaggine dell’Appennino ligure. L’obiettivo di Nicolis di Robilant era quello di offrire una base razionale al sistema minerario del regno partendo dalla topografia, con l’utilizzo della mappa elaborata dall’abate Salvatore Lirelli, geografo della reale Accademia di Torino. Il viaggio attraverso i numerosi siti minerari dello Stato sabaudo serviva appunto a fissare in modo preciso e razionale lo stato dell’arte delle miniere al fine di studiarne le caratteristiche geomorfologiche basilari per l’applicazione delle migliorìe tecniche che il conte aveva appreso nel viaggio in Germania. Spirito Benedetto Nicolis di Robilant visitò da Ispettore generale praticamente tutti i siti che diventeranno successivamente tra i più produttivi del futuro Stato unitario. Nel suo lunghissimo peregrinare, visitò le miniere d’oro del Monte Rosa (Valsesia e Val d’Ayas), quelle di rame in val Chiusella e Canavese, quelle di ferro nel biellese (Argentera) e dell’Appennino ligure in Valle Stura e di Cogne in Valle d’Aosta. Per un periodo l’ispettore generale fu anche direttore delle miniere d’oro del Monte Rosa, sulle quali Carlo Emanuele III aveva grandi aspettative e che fino ad allora erano state gestite da famiglie concessionarie, i cui mezzi erano direttamente proporzionali alla rendita a causa delle scarse applicazioni tecniche nella ricerca e estrazione dai filoni, che nel caso della valle di Bors arrivavano a superare la quota di 3.000 m. La sua direzione fu un esempio dell’approccio tecnico-militare dell’ingegnere minerario torinese, perché accanto alla costruzione di nuovi edifici per la lavorazione dei metalli operò una drastica riduzione del personale generando non poche critiche a livello locale. Accanto alla riorganizzazione della mano d’opera Nicolis di Robilant applicò migliorie nelle difficili tecniche di scavo in quota e appaltò a privati la realizzazione di nuove vie di comunicazione con gli impianti di trasformazione situati più in basso nelle valli. Risalgono al periodo della sua gestione la costruzione di edifici adibiti al ricovero dei minatori e per la trasformazione del minerale appena estratto. Il percorso dello sfruttamento dell’oro nel cuore del Monte Rosa fu particolarmente difficile a causa delle caratteristiche orografiche della zona, a fronte degli elevatissimi costi di realizzazione delle infrastrutture. Più fruttifero si rivelerà il sito aurifero della confinante Macugnaga, passato ai Savoia dal Ducato di Milano nel 1748 e gestito sino ad allora da un consorzio di investitori privati che risultarono maggiormente elastici nell’affrontare le oscillazioni delle rendite legate al materiale aurifero rispetto alla gestione militare applicata dallo Stato sabaudo di cui di Robilant era braccio e mente. Principalmente, la sua opera esplorativa in campo tecnico e geografico fu importante nel secolo successivo e ripresa dopo la parentesi del dominio napoleonico. Proprio in quegli anni iIl Regno di Sardegna subiva l’occupazione francese, durata per un quindicennio. Spirito Benedetto Nicolis di Robilant si spegneva il 1°maggio 1801, quando un’epoca giungeva al termine. Sopravviverà il patrimonio tecnico, frutto dei lunghi viaggi esplorativi del conte, ingegnere e soldato che contribuì a preparare le basi industriali del futuro dominio sabaudo sulla Penisola.
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(IStock)
- Quasi 300 studi di laboratorio hanno dimostrato che se la concentrazione atmosferica di anidride carbonica raddoppiasse, la resa agricola migliorerebbe di oltre il 50%. Ma i verdi preferiscono spargere narrazioni catastrofiste e suicide senza basi.
- Pechino vieta l’esportazione di metalli critici, Washington tutela le sue tecnologie.
Lo speciale contiene due articoli.
«What a wonderful world…» pensa (e canta) Louis Armstrong quando vede verdi alberi e rose rosse fiorire. E lo stesso potremmo pensare tutti noi davanti allo spettacolo di distese sterminate di campi di girasole o di grano, e tutto il resto che ci offre la natura, sia essa selvaggia o governata dall’uomo: che mondo meraviglioso. Che è così grazie alla CO2, la cui concentrazione atmosferica era, nel periodo pre-industriale, di 300 ppm (parti per milione), una concentrazione troppo bassa, che privava gli alberi e le piante del cibo necessario per raggiungere il loro pieno potenziale di crescita attraverso la fotosintesi. Perché la CO2 è il cibo degli alberi, e se in atmosfera aumenta, allora le piante e le foreste crescono più velocemente, i raccolti sono più ricchi e i campi bisognano meno irrigazione.
Quasi 300 studi di laboratorio hanno dimostrato che se la concentrazione atmosferica di CO2 raddoppiasse dagli attuali 400 ppm (parti per milione) a 800 ppm, la resa agricola sarebbe di oltre il 50% maggiore; e nel periodo preindustriale, quando la concentrazione di CO2 era di 100 ppm inferiore, la resa agricola era del 10% inferiore a quelle di oggi.
Quando coordinavo il Comitato scientifico dell’Agenzia nazionale per l’ambiente, uno dei componenti del comitato era il prof. Paolo Sequi, massimo esperto di chimica del suolo e, rammento, chiariva a tutti gli altri del Comitato come maggiore CO2 favorisce la produzione di glomalina, una glicoproteina prodotta da funghi che vivono in simbiosi con le radici delle piante. Essa svolge un ruolo fondamentale per la salute del suolo, promuovendone l’aggregazione che, a sua volta, aiuta a proteggere il suolo dall’erosione e ne migliora la fertilità, creando un ambiente più stabile per la vita microbica e le radici delle piante.
Più CO2 nell’aria significa anche più umidità nel terreno. La principale causa di perdita d’acqua nelle piante è attribuibile alla traspirazione, attraverso i pori sulla parte inferiore delle foglie che sono aperti per assorbire CO2. Con una maggiore quantità di CO2, gli stomi sono aperti per periodi più brevi, le foglie perdono meno acqua, e nel terreno rimane più umidità. E con l'aumento dell’umidità del suolo si ha diminuzione degli incendi boschivi.
Veniamo allarmati perché oggi il pianeta è più caldo che prima. Ma prima che la scienza del clima fosse politicizzata, i periodi caldi erano benedetti come «optimum climatici», perché il riscaldamento, rendendo possibile maggiore abbondanza di cibo, liberava la popolazione dalla preoccupazione della sopravvivenza quotidiana e le consentiva di dedicarsi ad altro. E quando ai prosperi periodi seguivano raffreddamenti globali, questi furono caratterizzati da carenza di raccolti e carestie.
In effetti, tutte le informazioni disponibili confermano che è dal 1690 che il pianeta si riscalda. La più lunga raccolta di dati di temperatura regionale al mondo, misurato in modo continuo e basato su termometri, risale a più di 350 anni fa: sono i dati «Hadcet» che raccolgono le temperature dell’Inghilterra centrale dal 1659, nel pieno della Piccola era glaciale, il periodo più freddo del pianeta degli ultimi 8000 anni. Quando, negli anni successivi al 1690 il pianeta cominciò, fortunatamente, a riscaldarsi, lo fece con una velocità doppia del riscaldamento degli anni 1980-2000, a riprova che non solo il caldo attuale ma anche la velocità di riscaldamento attuale non è, come ci viene costantemente ripetuto, «senza precedenti».
Veniamo allarmati dell’innalzamento del livello degli oceani. Ma è da 10.000 anni che il livello degli oceani aumenta! Nel complesso oggi è più alto di oltre 100 metri rispetto a 10.000 anni fa. All’inizio di questo periodo, l’innalzamento fu veloce, dell’ordine di 20 mm/anno, ma è da un paio di secoli che esso si è stabilizzato a circa 3 mm/anno. Quindi l’attuale tasso di crescita del livello dei mari cominciava in corrispondenza di un riscaldamento che, per forza di cose, dovette iniziare molto prima (nel 1690, appunto), quando la CO2 antropica non poteva avere alcun ruolo, perché assente.
Per farla breve, il nostro pianeta è oggi in ottima salute. Eppure, continuiamo a sentire l’ambientalista Angelo Bonelli che come un disco rotto ci allarma che esso è invece «malato». Certo, se vogliamo abitarlo noi umani, dobbiamo adattarci e opporci a tutte le circostanze che ci sono avverse. Tanto per dirne una, non bisognava star dietro, appunto, agli ambientalisti (italiani ed europei) che imposero l’introduzione dell’orso bruno in montagne ricche di insediamenti umani e dalle quali l’orso era scomparso, per la felicità di tutti gli abitanti e i villeggianti del Trentino e con lo scorno di quelli con casa ai Parioli.
Cantava bene, allora, ai suoi tempi, il re del jazz, what a wonderful world… Che moriva nel 1971, e non poteva sapere cosa sarebbe seguito: proprio in quello stesso anno nasceva, in Svizzera, il primo al mondo partito dei Verdi. Fu, quel 1971, l’anno d’inizio del declino del mondo.
Materie prime, guerra Usa-Cina. L’Europa al solito sta a guardare
La Cina ha vietato le esportazioni verso gli Stati Uniti di alcuni metalli critici, utilizzati nei microchip e nelle attrezzature militari. Con effetto immediato, le aziende cinesi non potranno più esportare gallio, germanio, antimonio e materiali superduri verso gli Stati Uniti. Il responsabile del ministero del Commercio cinese, in un comunicato, ha fatto sapere altresì che anche per la grafite sono in vista restrizioni all’export verso gli Stati Uniti.
Già dallo scorso anno erano in vigore restrizioni all’export di questi materiali (vedi La Verità dell’8 luglio 2023) ma il divieto esplicito e diretto solo verso gli Stati Uniti è una assoluta novità e assume i contorni di una escalation vera e propria.
La decisione di Pechino arriva a poche ore di distanza dalla decisione della Casa Bianca di lanciare una nuova stretta sull’esportazione dagli Stati Uniti verso la Cina di tecnologie per la produzione di semiconduttori e di microchip avanzati, inserendo altre 140 aziende cinesi in un elenco di soggetti con cui è vietato alle aziende americane fare affari. Le norme americane impediscono ora ai produttori di chip di memoria avanzati di vendere i loro prodotti in Cina senza il permesso del dipartimento del Commercio americano. Negli Stati Uniti la mossa è stata criticata per la sua tardività, poiché mentre il provvedimento veniva discusso, negli ultimi mesi, le aziende cinesi hanno fatto incetta di prodotti americani.
Nel frattempo, in Cina le associazioni degli industriali hanno sconsigliato alle aziende cinesi l’acquisto di chip americani, indicati come «non sicuri».
Il ministero del Commercio cinese ha affermato che gli Stati Uniti stanno militarizzando il commercio con la scusa della sicurezza nazionale. I metalli oggetto del bando sono quelli cosiddetti a duplice uso perché utilizzati sia nella filiera green (e dei semiconduttori) che in quella degli armamenti. L’antimonio, ad esempio, è un ritardante di fiamma che si usa in lega con il piombo nelle batterie per auto, ma anche per la fabbricazione di granate, inneschi per munizioni e proiettili. Gli altri materiali sono utilizzati nei collegamenti in fibra ottica, nelle celle solari e, ancora, nelle batterie. Lo U.S. Geological Survey afferma che la Cina produce il 98% del gallio. Gli Stati Uniti dipendono al 100% dal gallio cinese, per il germanio la dipendenza dalla Cina è al 53%.
Il maggior esportatore di minerale di antimonio è la Russia, seguita dal Tagikistan e in terza posizione dalla Cina. La Cina è invece seconda nelle esportazioni di antimonio grezzo. Il Paese asiatico aveva più di metà della produzione mondiale fino a qualche anno fa, ma l’esaurimento delle miniere ed una normativa ambientale più stringente hanno portato alla chiusura di diverse miniere, diventate illegali. Una curiosità: il terzo maggior esportatore di antimonio grezzo al mondo è l’Olanda, che ri-esporta quanto importato dalla Cina.
Il timore, ora, è che nel caso di nuove mosse americane il bando all’export cinese possa allargarsi a materiali ancora più critici, come nichel e cobalto. Con l’entrante presidenza di Donald Trump che minaccia dazi verso la Cina, lo scontro commerciale si farà assai più serrato.
Mentre Stati Uniti e Cina alzano il livello dello scontro commerciale sui materiali critici e sui semiconduttori, l’Europa prosegue placida nel proprio suicidio. Due giorni fa il Commissario europeo alla Transizione pulita, giusta e competitiva (sic), la spagnola Teresa Ribera, ha confermato che il bando al 2035 delle automobili a benzina e diesel resterà in vigore. La Commissione si prepara ad un lungo inverno di crisi aziendali e scioperi, evidentemente. Mentre la dipendenza dell’Europa dai materiali critici cinesi non è argomento tra le priorità di Bruxelles, a quanto sembra. Il Critical Raw Materials Act, che dovrebbe portare alla costituzione di una industria europea di settore, resta dormiente. I colossi Usa e Cina stanno progressivamente attuando la già incombente spaccatura nella globalizzazione, con l’Europa nel mezzo, sempre meno influente e sempre più vaso di coccio.
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Il prezzo dei due metalli, fondamentali per lo sviluppo dell’elettrico, si impenna in seguito alle politiche di Pechino, che riempie le sue scorte e contingenta l’export del prodotto raffinato. Rincara pure il nichel.
Il prezzo del rame decolla, quello dell’alluminio pure e l’Europa non si sente tanto bene, per parafrasare la celebre battuta di Woody Allen. I due metalli fondamentali per la transizione, cui si aggiungono nichel, stagno e zinco, salgono per i forti acquisti cinesi, tesi ad accaparrarsi i metalli, ed anche per le strategie di regolazione dell’offerta messe in atto.
Mentre l’Unione europea discute in punta di fioretto del rapporto sul mercato unico presentato da Enrico Letta, nonché del discorso di Mario Draghi sulla competitività, il mondo va avanti e Bruxelles resta al palo. Con Bruxelles, resta al palo tutta l’Europa, invischiata in una discussione su politiche industriali che ci consegnano strategicamente nelle mani della Cina. Il disegno di monopolizzazione delle materie prime in atto da parte di Pechino ha molto più a che fare con la geopolitica che con il commercio.
Sul London Metal Exchange (Lme) il rame era quotato ieri attorno a 9.830 dollari a tonnellata, ai massimi da giugno 2022. Sulla corsa al rialzo del rame influiscono certo i volumi delle transazioni finanziarie che si sono aggiunte in scia ai rialzi, ma un ruolo importante è giocato dalla Cina. Infatti le scorte cinesi, secondo i dati dello Shanghai Futures Exchange, sono in continua crescita e sono ai massimi dai tempi del Covid (2020), pari a circa 300.000 tonnellate. Sul prezzo del rame influiscono anche le mosse del cartello delle fonderie cinesi, che nelle scorse settimane ha attuato una strategia di limitazione della produzione al fine di recuperare marginalità.
Dalle fonderie cinesi dipende il 50% circa della produzione mondiale di rame raffinato, pari a circa 13 milioni di tonnellate. Il grande sviluppo di queste ha portato ad un eccesso di capacità, rispetto alla disponibilità del minerale grezzo, che la Cina importa in grandi quantità. Mentre le miniere mondiali faticano a fornire la materia prima, le fonderie cinesi hanno deciso di non farsi la guerra tra loro per accaparrarsi il minerale e hanno contingentato la produzione. Le stime di consumi di rame per supportare la produzione di auto elettriche, l’elettrificazione dei consumi, le energie rinnovabili e l’intelligenza artificiale parlano di almeno 10 milioni di tonnellate all’anno di domanda aggiuntiva. Una stima che deve fare i conti con la limitatezza delle risorse minerarie disponibili e con il fatto che gli investimenti nelle miniere sono molto ingenti e richiedono tempi lunghi. In questo iato che si crea, la Cina ha buon gioco nel regolare l’offerta.
L’alluminio era quotato ieri 2.661 $/T, ai massimi da due anni a questa parte, per la forte domanda cinese, legata soprattutto agli sviluppi interni della rete elettrica, a sua volta sollecitata dalla crescita economica e dal forte sviluppo delle fonti rinnovabili. Interessante notare come la Cina abbia trasferito una buona parte della produzione di alluminio nello Yunnan, per sfruttare le ampie disponibilità di energia idroelettrica di questa provincia ed aggirare così il problema dei dazi europei sulla CO2 (il meccanismo Cbam). Ma il sistema elettrico locale è entrato in crisi per i carichi elettrici eccessivi e per via della scarsità idrica che ha colpito la regione, mettendo così a rischio gli obiettivi di produzione cinesi.
Anche il nichel, indispensabile alla produzione di acciaio, è in grande spolvero sui mercati ed ha toccato un massimo a 19.550 $/T, in netto rialzo e ai massimi dallo scorso settembre. A influire sul rialzo vi è la decisione dell’Indonesia di limitare l’export del minerale per avviare una industria nazionale di raffinazione. Ma soprattutto sono gli acquisti cinesi a fare la differenza. È di venerdì la notizia che la National food and Strategic Reserves Administration cinese sta progettando di acquistare ingenti quantità di ghisa al nichel.
Ma non è tutto. Nel primo trimestre di quest’anno le importazioni cinesi di minerale di ferro sono cresciute moltissimo, a 310 milioni di tonnellate (+5.5% rispetto allo stesso periodo del 2023), mentre è calata la produzione di acciaio grezzo. Una divergenza che può essere dettata da una strategia di aumento delle scorte. La Cina produce circa 1 miliardo di tonnellate all’anno di acciaio, il 50% della produzione mondiale.
Anche lo stagno ha toccato ieri il valore più alto da circa due anni a questa parte, avendo raggiunto 36.050 $/T. Su questo metallo pesano le incertezze sulle politiche commerciali dell’Indonesia, che da sola fornisce quasi il 20% della produzione mondiale, oltre che il netto calo delle scorte depositate presso il Lme, ai minimi dallo scorso luglio.
Durante lo scorso weekend i governi di Washington e di Londra hanno imposto alle due borse dei metalli Chicago Mercantile Exchange (Cme) e London Metal Exchange (Lme) di non accettare nuovo alluminio, rame e nichel di produzione russa nei loro depositi, vietando l’importazione dalla Russia di tali metalli. Se pure il bando non riguarda i metalli già circolanti, si tratta di una limitazione che comunque sta già avendo effetti sulla liquidità dei mercati.
Ieri intanto Bernd Schaefer, capo della Eit Raw Materials (un’entità finanziata dalla Commissione europea), ha detto che banche e aziende europee dovrebbero aumentare gli investimenti nei minerali critici. Tali investimenti, infatti, in Europa sono pari a zero, cosa che rende assai difficile raggiungere gli obiettivi «ambiziosi» che la Commissione europea si è data. Ovvero, per il fabbisogno annuale dei 34 materiali critici, avere il 10% estratto, il 25% riciclato e il 40% lavorato in Unione europea. Vaste programme, avrebbe detto Charles De Gaulle.
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Le fonderie del Dragone tagliano la produzione del metallo chiave del Green deal. I prezzi schizzano, anche perché da dieci anni non si scoprono giacimenti. Washington si difende, Vecchio continente non pervenuto.
La Cina si conferma essere l’elefante nella cristalleria dell’economia mondiale, mentre la transizione porta alla ribalta Paesi detentori di materie prime, con cui dovremo imparare a fare i conti. Qualche giorno fa le fonderie di rame cinesi hanno deciso a Shanghai di tagliare la produzione tra il 5% e il 10% e hanno deciso altresì di non pubblicare le tariffe di trattamento del rame per il prossimo trimestre. Il prezzo del rame sui mercati ha reagito verso l’alto, per poi stabilizzarsi attorno agli 8.880 dollari alla tonnellata. Le fonderie cinesi stanno soffrendo per la mancanza di concentrato di rame da trattare, e per accaparrarselo sono state costrette ad abbassare fino a 11 $/tonnellata le loro tariffe, che normalmente viaggiano attorno agli 80 $/tonnellata. Tagliando la produzione sperano di recuperare margini, ma intanto la produzione cinese di rame raffinato a febbraio è cresciuta di un altro 10%.
Movimenti importanti sul mercato dei futures del rame, intanto, fanno pensare a un rialzo stabile dei prezzi. Anche se la quotazione del metallo rosso in queste settimane ondeggia, per la prima volta da due anni le posizioni lunghe (cioè in acquisto) dei trader negli Usa sono tornate a 100.000 contratti, e ora la posizione netta del mercato americano è nettamente rialzista, per quasi 40.000 contratti. Stessa cosa sul mercato Lme (London metal exchange) di Londra, dove le posizioni lunghe sono salite a 70.000 e a Shanghai, dove la posizione lunga è di ben 533.000 contratti futures. Il contesto di domanda non entusiasmante dello scorso anno ha sinora nascosto le difficoltà dell’offerta, con estrazione e lavorazione concentrate in poche mani. Ma il fabbisogno di rame dato dal Green deal mondiale, a meno di cambi radicali nelle politiche, presto si farà sentire evidenziando le carenze dell’offerta. È sufficiente analizzare i dati raccolti da S&P Market intelligence relativi alle scoperte. Tra il 1990 e il 2021 sono stati scoperti 228 depositi di rame, contenenti 1,18 miliardi di tonnellate di rame in riserve, risorse e produzione passata. La tendenza al ribasso nel numero di scoperte e nei relativi volumi di materiale è drammatica: negli ultimi nove anni solo due scoperte significative. Il rame che viene estratto oggi è dunque stato scoperto 20 anni fa e più, mentre gli investimenti in nuove ricerche sono stati frenati dai prezzi alti che hanno incoraggiato a sfruttare le miniere esistenti. A fronte di una domanda di rame che supererà la produzione di rame raffinato, l’industria non sta facendo abbastanza nuove scoperte di alta qualità e questo si rifletterà nei prezzi nei prossimi anni.
Intanto la produzione di rame in Cile, il più grande produttore al mondo, è cresciuta nel mese di febbraio del 9,95% su base tendenziale, raggiungendo le 420.000 tonnellate, secondo l’Istituto nazionale di statistica cileno.
Mentre il Congo è diventato nel 2023 il secondo maggior produttore di rame del mondo, scalzando il Perù (produzione 2023 2,84 milioni di tonnellate contro 2,76), l’Indonesia, altro grande produttore, ha imposto da giugno prossimo il blocco delle esportazioni di concentrato di rame. Il governo del presidente Joko Widodo vuole favorire la crescita di capacità di raffinazione nazionale, così da avere valori in export più alti rispetto alla vendita del solo materiale grezzo. Entrano in questo blocco, dunque, motivazioni di equilibrio dei saldi commerciali con l’estero, considerato l’appetito della Cina e dell’Occidente. La compagnia mineraria Freeport McMoran ha però avvisato il governo di Giacarta che un blocco delle esportazioni potrebbe ritorcersi contro le finanze indonesiane, poiché nessuna compagnia sarà pronta per giugno con impianti di raffinazione.
Lo stesso Cile ha deciso di privatizzare parte dei propri giacimenti di litio. Con una mossa inattesa, oltre 20 campi di estrazione saranno messi a gara nei prossimi mesi. Si tratta di un tentativo di massimizzare il valore delle concessioni, prima che altri rallentamenti nello sviluppo dell’auto elettrica provochino una nuova diminuzione dei prezzi.
La Cina continua a pesare sui prezzi delle materie prime, dal petrolio, di cui è grande importatore, all’acciaio, ai minerali di ferro, al rame e al litio. Le incertezze sul settore immobiliare cinese si fanno sentire sul prezzo del minerale di ferro, ad esempio, che dai massimi di gennaio a 135 dollari la tonnellata è crollato ai 99 dollari a tonnellata di mercoledì.
L’Unione europea appare indifesa e la strategia sui materiali critici, approvata nei mesi scorsi, non appare in grado di mettere al riparo l’Europa dalla dipendenza da Cina e da altri Paesi.
Non è così negli Stati Uniti, dove anzi, dopo l’Inflation reduction act che protegge i prodotti americani, Joe Biden ha concesso 500 milioni di dollari alla compagnia Century aluminium per la costruzione di una fonderia di alluminio primario sul territorio statunitense. Negli Usa infatti gli stabilimenti sono calati in 20 anni da 19 a quattro, spiazzati dalla concorrenza asiatica, e la produzione è scesa da 3,6 milioni di tonnellate nel 2000 a 785.000 tonnellate nel 2023. Persino i democratici che abitano pro tempore la Casa Bianca, dunque, non esitano a proteggere gli interessi economici nazionali, mentre Bruxelles sta alla finestra.
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