«Invece di risposte estemporanee e maldestre come l’importazione di medici da Cuba, sarebbe preferibile assumere gli specializzandi che hanno compiuto il terzo anno e potrebbero completare la formazione in ospedale». Carlo Palermo è il presidente di Anaao Assomed, il sindacato dei medici ospedalieri più rappresentativo della sanità.
Stupito dai numeri delle carenze nel settore?
«Dal 2011 abbiamo lanciato l’allarme e messo in guardia dai rischi delle politiche dei tagli. I laureati in medicina non mancano ma per entrare in ospedale occorre la specializzazione e negli ultimi dieci anni la programmazione dei costi della formazione è stata sbagliata, perché concepita solo nella prospettiva del massimo risparmio. Il governo Monti adottò una politica di tagli i cui effetti si sentono anche ora. Solo negli ultimi due anni i contratti di specializzazione sono aumentati: nel 2020 sono saliti a 13.400 e nel 2021 a 18.000, che sono un numero congruo. Si è messa una toppa a un errore grossolano. Bisognerà rimediare anche al taglio dei posti letto; dal 2000 circa 85.000 in meno. Una politica dissennata che abbiamo pagato durante la pandemia. L’alta mortalità è stata determinata anche dalla carenza di posti letto. Siamo a 3 per 1.000 abitanti contro 5 per 1.000 della Ue».
C’è chi propone di abolire il numero chiuso a medicina per aumentare il numero dei laureati. Sarebbe una soluzione?
«L’ipotesi non mi convince. Non mancano i laureati. E poi l’ingresso senza paletti produrrebbe effetti tra dieci anni. Ma nel 2033 le condizioni del lavoro saranno totalmente diverse, anzi si potrebbe avere un lieve surplus di medici. La priorità è aumentare i corsi di formazione specialistica anche se i risultati si vedranno tra 4-5 anni. Nel frattempo bisogna immettere negli ospedali i 5.000 specializzandi».
Non c’è il rischio di far arrivare in corsia e nei pronto soccorso medici senza esperienza?
«L’alternativa è chiudere gli ospedali. Meglio avere un medico laureato con tre anni di specializzazione che chiudere le strutture. Non è la soluzione ottimale, ma è la più accettabile nelle condizioni date. Meglio di sicuro che far venire i medici dall’estero».
I medici cubani non la convincono?
«Se lo immagina un colloquio tra un cubano e un anziano calabrese che usa più il dialetto che l’italiano? Ci sono 600 specializzandi che potrebbero essere assunti».
Ma se i medici calabresi non partecipano ai concorsi, che si fa?
«E chi l’ha detto? A me non risulta ci siano stati tutti questi concorsi andati deserti. Perché la Regione non offre ai medici italiani le stesse condizioni date ai cubani? Il governatore Occhiuto ha chiesto indennità aggiuntive per chi si trasferisce in Calabria. Potrebbe fare lo stesso per i medici ospedalieri. Basterebbe, lo ripeto, assumere gli specializzandi. Alcuni dati della Corte dei conti fanno capire bene la situazione. Nell’emergenza Covid, la Regione Veneto ha assunto 1.058 specializzandi e l’Emilia Romagna 1.099. Sa quanti ne ha presi la Calabria?».
Me lo dica lei.
«Solo 10. Per forza poi arrivano i cubani».
Non sarà che anche gli specializzati si tengono alla larga dai pronto soccorso e preferiscono lavorare nel privato?
«Questo è un altro tema. L’attività negli ospedali è diventata molto stressante e anche pericolosa. Non solo turni massacranti, ferie che si accumulano, ma pure il rischio di subire aggressioni. Ormai sono all’ordine del giorno. Ci sono colleghi che devono fare 7-9 notti al mese. Non va sottovalutata l’alta presenza femminile nella professione che deve conciliare lavoro e vita privata e sente di più i ritmi stressanti dell’ospedale».
E la componente economica?
«Il contratto 2016-2018 è stato firmato ma ancora non applicato mentre per quello 2019-2021 la discussione non è nemmeno iniziata e dovremmo avviare la trattativa per il 2022-2024. Quindi tra scarse soddisfazioni economiche, rischi personali e di denunce, turni impossibili, il medico si chiede chi glielo faccia fare. Emigra nel settore privato o si dedica alla libera professione. Fa un lavoro tranquillo, guadagna di più e ha minori rischi».
L’affollamento dei pronto soccorso non è in parte responsabilità dei medici di base?
«Anche i medici di famiglia hanno subito tanti pensionamenti. Se le Case della salute funzioneranno, dando una prima risposta alle urgenze minori, si potrà risolvere il problema. Va riorganizzato il territorio. La professione medica deve tornare a essere attrattiva. Si cominci firmando i contratti quando scadono senza rinviarli alle calende greche».
- Mancano 18.500 camici bianchi, soprattutto nei pronto soccorso. Colpa di tagli, pensionamenti e liste d’attesa sempre più lunghe Risultato: turni massacranti e aggressioni di familiari esasperati.
- Il vicesegretario dei medici di famiglia Pier Luigi Bartoletti: «Scaricato su di noi il peso della gestione Covid, troppe procedure per ricette e tamponi. E ora ci tocca la campagna per la quarta dose».
- Il chirurgo del Cardarelli di Napoli Maurizio Cappiello: più posti letto per ridurre il sovraffollamento.
Lo speciale contiene tre articoli.
AAA Cercasi dottore disperatamente. La salute non va in vacanza ma mai come in questa estate ammalarsi è un problema. La mancanza di medici non è una novità ma ora si sono sommati i buchi creati dai pensionamenti e dalle assenze per smaltire le ferie accumulate durante l’emergenza pandemica. Un corto circuito innescato dal ritorno in massa dei pazienti dopo due anni di cure con il contagocce. E si è arrivati al paradosso di importare medici dall’estero. Dall’Ucraina ne sono arrivati 250 e altri 100 dall’Albania. Ma il caso più eclatante è il reclutamento, deciso dal presidente della regione Calabria, Roberto Occhiuto, di 500 camici bianchi provenienti da Cuba. Il governatore di centrodestra ha spiegato che diversi bandi di concorso a tempo indeterminato sono andati deserti, tesi però smentita da associazioni sindacali e personale medico che non avrebbero mai saputo di esami per il reclutamento.
Come mai, appena si sono aperte le porte del pensionamento, tanti medici hanno colto la palla al balzo per andarsene? Come mai un posto in ospedale, specie al Sud, è precipitato nelle aspirazioni di un giovane laureato? E quanto ha inciso la selvaggia «spending review» degli ultimi dieci anni che ha tagliato i posti nelle specializzazioni? L’Anaao Assomed, il sindacato dei medici ospedalieri, ha calcolato che tra ospedali, pronto soccorso e medici di famiglia, mancano circa 18.500 camici bianchi. La situazione più critica, è quella dei pronto soccorso dove, alle emergenze quotidiane, si aggiunge l’esercito dei malati che non potendo rinviare ancora le cure, dopo lo stop del Covid, bussano agli ospedali per essere assistiti. E non possono permettersi uno specialista privato.
Gli ospedali sono entrati in affanno e il sovraffollamento ha coinciso con l’esodo dei medici. Secondo Anaao Assomed, ne mancano circa 4.500. Ma l’allarme riguarda in generale gli ospedali: sono 10.000 i posti vacanti. Gli organici ridotti all’osso costringono a turni massacranti, ad accumulare ferie che prima o poi andranno smaltite creando ulteriori vuoti. In sofferenza anche il servizio delle ambulanze dove i camici bianchi si sono ridotti del 50% negli ultimi dieci anni. La legge di bilancio ha stanziato 90 milioni per una indennità accessoria, ma è come una goccia nel deserto.
Si è anche assottigliato il numero dei medici di famiglia, il primo snodo di assistenza del servizio sanitario, che fino a qualche anno fa era un vanto della sanità italiana rispetto al resto d’Europa. Si contano circa 4.000 sedi vacanti su una categoria che ne conta complessivamente 40.000. Il fabbisogno riguarda sia piccoli centri montani e delle campagne, ma anche grandi città come Milano e Firenze. In alcune regioni, specie nel Nord, sono stati richiamati in servizio i pensionati. Per tamponare la situazione, i pazienti sono dirottati in studi che hanno raggiunto il massimo della capienza consentita per legge, cioè 1.500 assistiti.
Il problema non è la carenza di laureati in medicina: nei prossimi 10 anni, le università ne sforneranno circa 100.000, un numero più che sufficiente per le esigenze di turn over. Mancano invece gli specialisti, quelli che lavorano negli ospedali e in molte strutture del territorio. Una ricerca Eurostat dell’agosto 2020 evidenzia che l’Italia è il secondo Paese con più medici nella Ue: circa 240.000 su 1,7 milioni registrati nella Ue, dietro solo alla Germania che ne ha 357.000, il 21,1% del totale, e davanti alla Francia con 212.000. Ci sono 3,1 medici ogni 1.000 abitanti secondo l’Istat, il che ci colloca nella media europea.
Tuttavia, il numero di medici disponibili non si riflette negli organici della sanità pubblica. Gli ultimi dati del ministero della Salute (2017) sui camici bianchi nel Servizio sanitario nazionale indicano 1,7 medici ogni 1.000 abitanti. Essi scarseggiano perché, a partire dal governo Monti, la sanità ha subito pesanti tagli che hanno colpito in particolare le borse di specializzazione. Va considerato anche che, come stima l’Anaao, solo il 66% degli specialisti sceglie il servizio pubblico, i restanti lavorano nella sanità privata o scelgono la libera professione. Un’opzione che consente di esercitare sia negli ospedali sia nelle cliniche, senza vincoli di esclusiva.Altro elemento è che alcune specializzazioni come la medicina d’urgenza non esercitano grande appeal sui laureati che preferiscono settori meno stressanti e più remunerativi.
Qualcosa è stato fatto per colmare i buchi negli organici ospedalieri. I contratti di formazione sono stati portati da 4.500 a 15.000, però produrranno effetti a lungo andare. Formare uno specialista richiede 4-5 anni e occorre quindi scontare un periodo in cui le strutture continueranno a essere in emergenza. Secondo Anaao, i circa 10.000 medici che oggi mancano all’appello negli ospedali saranno verosimilmente recuperati tra il 2024 e il 2028, quando entreranno nel sistema sanitario coloro che quest’anno iniziano la specializzazione.
Oltre a pensionamenti, turni stressanti e remunerazione considerata bassa in relazione all’impegno, recentemente è emerso un ultimo fattore che rende meno attrattivo il lavoro in ospedale: l’aumento delle aggressioni. Nella città metropolitana di Milano, da gennaio a maggio, sono stati denunciati 116 casi di attacchi al personale a fronte di 122 in tutto il 2021. Minacce e intimidazioni sono più che raddoppiate: da 22 casi lo scorso anno a 45 nei primi cinque mesi del 2022. Il fenomeno è generalizzato. Secondo la Fnopi (la federazione degli infermieri), le aggressioni fisiche colpiscono in media in un anno un terzo degli infermieri: circa 130.000 casi con un sommerso non denunciato all’Inail stimato in circa 125.000 casi l’anno.
«Schiacciati dalla burocrazia»
Anche per i medici di famiglia il Covid ha portato un sovraccarico di incombenze spesso burocratiche che ostacolano il funzionamento del sistema: lo dice Pier Luigi Bartoletti, vicesegretario nazionale della Fimmg, la federazione dei medici di famiglia.
La situazione dei medici di base è meno dura rispetto a quelli delle emergenze, eppure l’esodo c’è stato lo stesso. Come lo spiega?
«Le uscite erano attese, bastava guardare i dati anagrafici dei pensionamenti. Inattesi invece i prepensionamenti. La categoria è stata messa a dura prova dalla pandemia. Sui medici di famiglia si è scaricato il peso enorme della gestione del Covid. Sono stati in trincea per oltre due anni, dovendo affrontare una situazione di caos. Ora gli studi sono intasati da coloro che hanno ritardato o sospeso le cure durante la pandemia. E si parla di coinvolgere i medici di base per la quarta dose vaccinale. Molti colleghi, superata l’emergenza, hanno preferito anticipare il pensionamento nonostante le penalizzazioni economiche: anche perdendo un po’ di soldi, non hanno esitato e se ne sono andati. Nel Lazio pensavamo che nel 2022 saremmo rimasti in 4.000 da 4.800 che eravamo, con il pensionamento standard dei settantenni, invece siamo scesi a 3.800 unità. Ci sono stati casi di medici che se ne sono andati a 63 anni. Mi dicevano: non ce la faccio più. Il lavoro si è complicato».
Complicato in che senso?
«Siamo afflitti da una serie di passaggi burocratici che rallentano il lavoro».
Un esempio?
«Le priorità per le prescrizioni sulle ricette. Se indico che un paziente deve fare un accertamento entro una certa data ma questa non viene rispettata perché i tempi di attesa sono lunghi, il paziente finisce per dare la colpa a me. Il medico di base è al centro di un sistema che non funziona e diventa il terminale della rabbia dei cittadini. Se un paziente anziano ha un catetere che non funziona il sabato pomeriggio, a chi lo dico? C’è qualcuno che mi risponde al Cad, il Centro di assistenza domiciliare? Altro esempio: dimettono un paziente alle 17 del venerdì pomeriggio, spesso con prescrizioni varie. Il parente si rivolge a me per sapere cosa fare. Ma io sono costretto a rispondere che per attivare alcune procedure bisogna aspettare lunedì perché sabato e domenica è tutto chiuso. Questi casi sono aumentati in modo esponenziale e tanti colleghi non ne possono più».
In quali regioni si sentono le maggiori carenze di medici di base?
«Le regioni più sofferenti sono al Nord, soprattutto Lombardia, Liguria, Trentino. Qui fanno lavorare i pensionati. Anche in alcune aree del Lazio si prolunga l’attività oltre i 70 anni. Ma mentre negli anni passati era una costante chiedere di restare oltre l’età pensionabile, ora è un’eccezione. Nel Sud c’è più mobilità e tante persone vanno al Nord. In Calabria il numero di guardie mediche è altissimo, superiore al resto d’Italia».
«Meno soldi, meno visite private e i pazienti si riversano da noi»
«Al pronto soccorso del Cardarelli di Napoli, il più grande ospedale del Mezzogiorno, ci sono 22 medici: ne servirebbero altri 24. Nel 2019 ce n’erano 46. Nei pronto soccorso di tutta la Campania, di qui al 2025 mancheranno 800 camici bianchi, ora sono vacanti 420 posti. Servirebbero 1.400 letti in più per arrivare alla dotazione minima e garantire i livelli di assistenza». Maurizio Cappiello, vicesegretario Anaao Assomed della Campania e medico chirurgo al Cardarelli, sciorina numeri da incubo.
Come si è arrivati a questa situazione?
«I pensionamenti, rispetto alle carenze totali, sono una piccola quota. Un 15% dei medici è andato a lavorare nel settore privato, un 10% si è trasferito all’estero e il resto si è fatto spostare nei reparti di degenza ordinaria dove non c’è lo stress delle emergenze».
Si fugge dagli ospedali?
«Le condizioni di lavoro sono diventate insostenibili. I pronto soccorso stanno esplodendo. Negli ultimi sette anni a Napoli ne sono stati chiusi 5: Loreto Mare, San Giovanni Bosco, Santa Maria del Popolo degli Incurabili, San Gennaro, Ascalesi. Gli ospedali di San Gennaro e di Santa Maria del Popolo degli Incurabili non esistono più. È uno degli effetti del commissariamento della Regione Campania. Per risanare il bilancio si è preferito tagliare alcune strutture di emergenza con la promessa, mai mantenuta, di potenziarne altre. L’ospedale Cardarelli si è fatto carico dell’afflusso dei pronto soccorso chiusi. Non bisogna dimenticare inoltre che gli ospedali spesso sono usati come ammortizzatori sociali per le prestazioni non urgenti».
In che senso?
«Le liste d’attesa per la specialista si sono allungate con il Covid. Tanti pazienti hanno saltato le cure e ora, per recuperare, si rivolgono all’ospedale. Qui arrivano quanti non hanno le disponibilità economiche per pagare un medico privato o fare gli accertamenti nei laboratori di analisi. Questa massa di persone si somma alle urgenze quotidiane. Sempre più spesso la tensione sale e sono frequenti le aggressioni da parte dei parenti del malato che è in corsia in attesa del suo turno e rivendica la priorità anche su chi arriva con il codice rosso. Oltre il 20% delle aggressioni avvengono proprio nel pronto soccorso. Lavorare in queste condizioni è diventato molto faticoso oltre che rischioso. Al medico dovrebbe essere riconosciuto lo status di pubblico ufficiale. Ora l’aggressore è perseguibile solo su denuncia a meno che non vi siano lesioni tali da richiedere una prognosi di almeno 20 giorni. Ecco perché chi può va altrove. Pesa anche uno stipendio che è più basso della media europea».
Come si può arginare la fuga dei medici?
«Innanzitutto occorre aumentare il numero dei posti letto per ridurre il sovraffollamento. Va riformata l’assistenza in emergenza; un medico che al pronto soccorso fa tutto non è più possibile. E per ammortizzare i turni massacranti servirebbero più ferie».
Quanti giorni di riposo avete a disposizione?
«Oscillano tra 32 e 36 giorni l’anno ma non si riescono a soddisfare per carenza di personale. Chi è nelle strutture di emergenza dovrebbe averne 15 in più».
- Decimati dai pensionamenti, gravati dalla burocrazia legata al Covid, demotivati dalle crescenti proteste dei pazienti, i camici bianchi di famiglia sono l’ultimo anello debole della sanità italiana. Il calo del loro numero era stato previsto già 10 anni fa, ma le risorse per la formazione sono state dirottate altrove. Ora il ministro si è inventato le Case della comunità e gli studi aperti 24 ore: misure che rischiano di trasformarsi nell’ennesimo fallimento.
- Il presidente Fnomceo Filippo Anelli,: «Con la pandemia alcune carenze sono state colmate ma ancora non si guarda avanti La riforma introduce contenitori vuoti. Le Regioni risparmiano sul personale per fare quadrare i loro bilanci»
Lo speciale contiene due articoli
La pandemia ha fatto esplodere tutti i mali del nostro sistema sanitario. Terapie intensive intasate, reparti sotto organico, pronto soccorsi pieni, macchinari e scorte inadeguati. Una crisi profonda colpisce anche i medici di medicina generale. Nella prima fase della pandemia sono rimasti senza protezioni, con qualche mascherina polverosa nell’armadio avanzata dai tempi dalla Sars. Si è cominciato a parlare dell’importanza della «medicina del territorio», ma sono rimaste parole vuole. Nella seconda fase, agli occhi dei pazienti, questa classe di camici bianchi è sembrata inghiottita dal Covid. I tamponi sono passati alle farmacie mentre per la campagna vaccinale sono stati impiegati soprattutto i grandi hub. In teoria, i medici di famiglia sembravano sgravati di molti compiti. E la gente si chiedeva cosa avessero tanto da fare, visto che spesso risultavano irraggiungibili. Il fatto è che la maggior parte del loro tempo è stata assorbita quasi completamente da adempimenti burocratici: controlli sulle quarantene, prenotazione dei tamponi molecolari, trasmissione di dati alle aziende sanitarie, attivazione e disattivazione dei green pass. Più le urgenze. Più le altre malattie di stagione. Più la vaccinazione antinfluenzale. Più la cura dei sempre più numerosi malati cronici (ipertesi, diabetici, cardiopatici, eccetera). Poco il tempo per le altre patologie. Pochissimo il tempo per rispondere a tutti. E un generale scoramento per vedersi trasformati in passacarte.
E via con la retorica facile dei medici di famiglia che guadagnano tanto e fanno poco, delle loro 15 ore settimanali obbligatorie, della formazione lasciata in mano ai sindacati. La realtà è molto più complessa. La questione fondamentale è che il numero dei medici di famiglia è insufficiente.
Almeno un milione e mezzo di italiani sono senza medico di base e moltissimi sono costretti ad appoggiarsi a medici che hanno già raggiunto il massimale di assistiti, che teoricamente sarebbe 1.500. Secondo l’Accordo collettivo nazionale, che viene firmato ogni tre anni per regolare i rapporti con i medici di medicina generale, le regioni sono incaricate della sanità territoriale e dei medici di famiglia. Questi ultimi non sono dipendenti, ma liberi professionisti che però svolgono funzioni ritenute fondamentali, alcune delle quali infatti rientrano nei cosiddetti Lea (livelli essenziali di assistenza). L’Italia dà al cittadino il diritto di avere un’assistenza sanitaria di base, ma il sistema sanitario non lo fa attraverso i propri dipendenti, ma assegnando questo servizio a professionisti esterni che sono appunto i medici di medicina generale, con cui si stipula un accordo.
La carenza di medici è un’emergenza che attanaglia tutta Italia da molti anni. Nel secondo dopoguerra furono sempre più numerosi i giovani che scelsero gli studi in medicina e un numero altissimo di medici si laureò, saturando la domanda presente a fine degli anni ottanta. Da allora, viceversa, le assunzioni sono avvenute con una sorta di imbuto, perché il numero di laureati era superiore a quello messo a disposizione dalle strutture sanitarie, così che molti non trovavano collocazione lavorativa né sul territorio né in ospedale. I ripetuti tagli alla sanità hanno ridotto anche i posti di medicina generale sui territori. La pandemia ha aperto gli occhi a tutti e l’anno scorso sono state date talmente tante borse di specialità da inglobare quasi tutti i laureati. Ora però si presenta una nuova emergenza, che è legata all’età dei medici. La Fimmg, la federazione italiana dei medici di medicina generale, calcola che entro il 2030 saranno 35.000 i camici bianchi che lasceranno la professione. È sempre un problema lavorare sotto organico, ma mentre nei reparti ospedalieri, in cui pure il carico di lavoro aumenta, si lavora comunque in team, è estremamente più complesso lavorare sotto organico per i medici di famiglia. In più, il numero di assistiti è in aumento poiché si aggiungono i pazienti di chi è andato in pensione.
Emergenza imprevedibile? Tutt’altro. La Fondazione Enpam, che garantisce la previdenza e l’assistenza per i medici, denuncia questa situazione da oltre 10 anni. Già nel 2013 l’analisi dei dati sui pensionamenti degli anni a venire dimostravano che in 7-15 anni tra il 25 e il 50% dei medici di famiglia operanti sarebbero andati in pensione rendendo necessario l’ingresso di 30.000 nuovi medici. Si sapeva da tempo che sarebbe scoppiata la bomba demografica. Ma il conto alla rovescia ha subito un’accelerazione con l’epidemia di Covid. Tanti medici di famiglia sono dovuti andare in pensione prima del previsto per evitare il peggio e molti altri sono tragicamente morti per aver contratto il virus.
L’analisi economica delle delibere Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) di finanziamento per la formazione dei medici dal 1989 al 2013 è indicativa per capire le scelte - consapevoli o no - che sono state attuate dalle Regioni. In 24 anni per la formazione dei medici di famiglia sono state messe a disposizione borse di specializzazione per il valore di 671.310.853,66 euro, meno di quanto erogato alle stesse Regioni per il concorso aggiuntivo al finanziamento per le Scuole di specializzazione riguardanti le altre categorie mediche di sole quattro annualità. Tra il 2008 e il 2011 l’investimento è stato infatti di 692.040.000 euro.
Le Regioni non hanno voluto investire nella medicina generale. Per far quadrare i bilanci da qualche parte è necessario tagliare o decidere di non investire e questo è il risultato. Formare un maggior numero di professionisti avrebbe significato investimenti per migliaia e migliaia di euro e si è preferito evitare, pur consapevoli dell’insufficiente ricambio generazionale. Le soluzioni che si prospettano sono tre e sembrano tutte sbagliate. O vengono tenuti in attività medici con più di 70 anni, o si aumenta il massimale dei pazienti peggiorando la qualità del servizio, o si chiamano medici non ancora formati. Ora il ministro Roberto Speranza ha presentato la sua riforma: più ore negli studi a ricevere pazienti e 2.564 Case della comunità aperte 24 ore su 24, 7 giorni su 7, con specialisti, infermieri e macchinari per ecografie, analisi del sangue, elettrocardiogrammi, spirometrie e altro. Tutte strutture nuove di zecca, da costruire da zero, con 7 miliardi destinati dal Pnrr all’assistenza domiciliare. Quanto tempo ci vorrà per mettere tutto a regime? Sembra l’ennesima riforma destinata ad arenarsi.
«La programmazione non è esistita e tra qualche anno saremo da capo»
«Quello che stiamo vedendo oggi è frutto delle scellerate scelte fatte nel passato». Così sentenzia il dottor Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo).
Dal 2018 la federazione che lei presiede denuncia la situazione dei medici che sarebbero andati in pensione e dei relativi vuoti nell’assistenza. Chi si sarebbe dovuto muovere?
«La programmazione è compito delle Regioni. Le Regioni comunicano ogni anno al ministero della Salute il fabbisogno dei professionisti, frutto di un’istruttoria che gli enti locali devono svolgere per verificare quante persone sono presenti e quanti medici andranno in pensione».
È un calcolo complesso?
«Deve tenere conto dei pensionamenti e del numero di medici in formazione specialistica. Poiché il corso di formazione specifica è triennale, bisognerà considerare il triennio. E in aggiunta almeno altri due anni prima che le graduatorie regionali siano realmente efficaci per consentire l’inserimento e la distribuzione degli incarichi. Se la programmazione non è precisa, poi ovviamente succede quello che tutti quanti stiamo verificando».
Per esempio?
«Ne faccio soltanto uno. La Lombardia fino a qualche anno fa dichiarava un fabbisogno di medici di medicina generale sostanzialmente simile a quello della Puglia, avendo invece il doppio della popolazione. È sicuro che in questo sistema qualcosa non abbia funzionato».
Le misure che sta prendendo il governo con l’investimento del Pnrr nella medicina generale e con l’istituzione delle Case di comunità saranno utili?
«Le Case di comunità rappresentano oggi soltanto degli involucri, delle strutture murarie. Resta inalterato il fabbisogno dei professionisti che dovrebbe attestarsi in 1 medico ogni 1.000/1.300 assistiti. L’attuale programmazione era stata fatta sul rapporto ottimale di 1 medico ogni 1.000 cittadini, ma il rapporto è cambiato con lo spostarsi della curva pensionistica».
Oggi a che livello siamo?
«Abbiamo un rapporto attorno a 1 medico ogni 1.250 assistiti, con alcune Regioni che lo hanno portato fino a 1.500. Gli interventi del governo hanno oggettivamente svuotato quell’imbuto formativo che è stato da noi evidenziato, quindi quest’anno il numero dei medici professionisti disponibili a partecipare alle prossime turnazioni e che hanno effettuato il concorso è quasi pari al numero di borse messe a concorso. Anche in questa fase, oltre alle 17.500 borse, sono state rese disponibili circa 4.000 borse per la medicina generale che hanno esaurito l’imbuto e quindi la disponibilità dei medici a partecipare».
È possibile che dando così tante borse di specializzazione fra qualche anno si crei il processo inverso, ovvero che il numero dei medici diventi addirittura eccessivo?
«Sì, il rischio c’è. Per questo noi chiediamo che sia svolta una migliore programmazione. Abbiamo due strade: la prima è quella della specialistica su cui bisognerebbe fare standardizzazioni sul numero di professionisti in ragione dei posti letto, degli ospedali, dei servizi attivi e di quelli che si vogliono attivare. In medicina generale bisogna definire il rapporto ottimale tra numero di pazienti e medici. Poi è necessario definire come poter consentire più agevolmente ai diplomati e ai medici di medicina generale di entrare realisticamente nel mondo del lavoro, snellendo la burocrazia e le lunghe attese».
Perché negli anni scorsi sono state stanziate così poche borse rispetto a quelle per specializzare gli altri medici?
«Direi che questa scelta è frutto di una cultura che ha considerato la salute unicamente un costo e questa cultura ha determinato tagli pesanti sulle professioni. L’oggi è frutto di quelle scelte sciagurate fatte nel passato che hanno portato a un blocco, per esempio, delle assunzioni negli ospedali o a un fondo previsto per l’assunzione del personale fermo al 2004. Questo è ancora vigente anche se è stato leggermente modificato».
E sulla medicina generale?
«Qui più si risparmiava in termini di personale, più le Regioni facevano quadrare i loro bilanci. Le Regioni non hanno mai finanziato i fondi per poter assumere il personale amministrativo e il personale di studio, lasciando praticamente in percentuali risibili i fondi che avrebbero consentito l’assunzione di questo tipo di personale, che sarebbe stato indispensabile nella gestione della pandemia. I medici si sono trovati da soli a svolgere mansioni che avrebbero richiesto le competenze di altre professioni, nel bel mezzo di una emergenza di masse e perfino in una situazione di carenza. Hanno svolto un carico di lavoro immenso durante questi due anni. Ma per loro il tempo in cui venivano acclamati come eroi sembra già appartenere al passato».






