Il fatto di cronaca è tanto semplice quanto terribile. Mercoledì pomeriggio, pieno centro a Firenze. Davanti alla storica libreria Odeon si raduna un gruppo di manifestanti. Influencer, pro palestinesi, pro Hamas, ignoranti e altre categorie. Il loro obiettivo è interrompere la presentazione del libro Golda di Elisabetta Fiorito. Il titolo del testo dice tutto. Si tratta della vita di Golda Meir, eletta presidente del partito laburista il 7 marzo del 1969 e 10 giorni dopo primo ministro dello Stato d’Israele. L’obiettivo viene raggiunto in poco tempo. L’incontro viene interrotto e molti dei partecipanti sono costretti, come si dice in gergo tecnico, a defluire dal retro. «Siamo usciti lateralmente per non causare problemi inutili», ha detto la Fiorito che comunque ha avuto modo di firmare qualche copia. «È però inconcepibile», ha aggiunto l’autrice, «che una persona come Golda possa essere divisiva, una premier che si è battuta contro il terrorismo e che ha sempre cercato il dialogo con i leader arabi, in primis Sadat». Una semplice affermazione che non tiene evidentemente conto del clima anti sionista diffuso in Italia, tanto da rendere inutile qualsiasi approccio che presupponga un minimo di conoscenza della storia da parte dei manifestanti. Temiamo che le frasi dell’altro partecipante costretto a incamminarsi verso l’uscita siano più realistiche. «Ormai siamo alla notte dei cristalli. Ai libri che non si possono presentare. Quello che è successo alla libreria Odeon rasenta la follia», ha commentato l’imprenditore Marco Carrai, già braccio destro di Matteo Renzi e ora console d’Israele proprio nel capoluogo toscano. «I manifestanti guidati da due influencer, hanno costretto i presenti a uscire come topi. È indecoroso quello che sta succedendo a Firenze, presunto luogo di cultura. Queste influencer neppure sanno chi sia stata Golda Meir e i valori che ha incarnato. Una sola parola: vergogna», ha concluso. A questo punto il tema da affrontare è un altro ancora. Nelle ultime uscite del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e della direttrice del Dis, Elisabetta Belloni, si fa espressamente riferimento a una fusione in atto tra frange di antagonisti, di eversivi di sinistra, centri sociali e militanti pro Palestina e pro Hamas. Da questo terreno si sviluppa una continua tensione di piazza mirata a creare problemi al governo, evidentemente nella speranza che intervenga e metta in atto l’uso della forza, vedi il tema dei manganelli. D’altra parte però l’obiettivo è zittire, censurare e affrontare con violenza chi è ebreo o rappresenta lo Stato d’Israele. Perfino chi semplicemente fa cultura e racconta la storia. Le domande sono due a questo punto. Prima, fino a che punto si spingerà questo clima e quante cose accadranno prima che si abbia consapevolezza del pericolo. Secondo, per quanto tempo chi si occupa di ordine pubblico continuerà ad accettare che in nome di una presunta sicurezza generale questi manifestanti la passino sempre liscia, vincano con la violenza e calpestino la libertà altrui. Non è possibile accettare che nel 2024 si voglia proibire e interrompere la presentazione di un libro. Il clima di negazionismo e di ignoranza si alimenta attraverso i social. Non è questione di lasciar libero chiunque di esprimere le proprie idee, si tratta di impedire che i violenti impediscano la vita civile. E prima o poi questa cosa andrà fermata anche dalla politica.
Non è la prima volta che Israele si fa cogliere impreparato di fronte a un attacco del nemico. Capitò anche 50 anni fa, quando nel giorno dello Yom Kippur le divisioni egiziane varcarono il fronte Sud e quelle siriane lo invasero da Nord, cercando di schiacciare in una tenaglia le truppe di Tel Aviv. Per non aver previsto l’offensiva e non aver predisposto un adeguato piano di difesa, Golda Meir, la prima donna a capo di un governo in Medio Oriente, pagò con le dimissioni e la sua carriera politica fu interrotta per sempre.
Bibi Netanyahu, il più «longevo» uomo politico del Paese, rischia di fare la stessa fine. Per quasi 17 anni non c’è stata opposizione o scandalo che siano riusciti a fermarlo. Ma là dove non ce l’hanno fatta gli avversari, rischia di riuscire l’attacco a tradimento condotto da Hamas e dai suoi alleati iraniani e libanesi (ma i sostenitori probabilmente sono molti di più). Sì, il premier israeliano, l’uomo dalle sette vite, colui che è riuscito a sopravvivere a qualsiasi critica e a qualsiasi inchiesta, non è detto che riesca a cavarsela anche questa volta. Infatti, la maggior parte degli osservatori lo considera il principale responsabile di quel che è successo, di quegli 800 morti e 130 ostaggi «seppelliti» nei tunnel di Gaza. Di certo, la storia ha provveduto a legare per sempre il suo nome a un massacro e niente potrà impedire che sia ricordato più per il giorno dello Sukkoth che per qualsiasi altro risultato.
Dato a Netanyahu quel che c’era da dare al premier israeliano, è necessario riconoscere però che anche altri hanno commesso gravi errori. E il primo è certamente Joe Biden, la cui presidenza rischia di concludersi nel modo più rovinoso possibile, con un mondo peggiore di quello che aveva trovato il giorno del suo insediamento alla Casa Bianca. Sulla situazione in Ucraina non c’è da spendere una parola, perché è a tutti nota. I rapporti con la Cina sono al minimo storico e la Corea del Nord, dopo anni in isolamento, è uscita dall’angolo grazie alla Russia. A questo punto, per completare l’opera di un mondo in fiamme mancava la guerra in Israele e gli Stati Uniti a guida democratica ci hanno messo del loro. Infatti, nel tentativo di isolare Vladimir Putin, l’America ha allentato le misure contro l’Iran, con il risultato che Teheran non soltanto ne ha approfittato per vendere droni a Mosca, ma ha pure usato parte dei soldi svincolati dagli Usa per finanziare Hamas ed Hezbollah, i peggiori nemici di Israele. Di quanto incaute siano state le mosse di Biden nei confronti del regime degli ayatollah c’è traccia nel discorso che il consigliere nazionale per la sicurezza Jake Sullivan ha tenuto appena una settimana fa. A pochi giorni dall’attacco a Israele, l’uomo che per conto di Biden avrebbe dovuto avere il polso della situazione nell’area, si era lasciato andare a considerazioni più che tranquillizzanti: «La regione del Medio Oriente è più tranquilla oggi di quanto lo sia stata negli ultimi due decenni». Secondo Sullivan, i problemi arrivavano da altre parti del mondo, ma non da lì. E infatti, lo sguardo degli Stati Uniti era rivolto all’Ucraina, con un investimento finanziario mai visto prima. Ma adesso, dopo aver svuotato gli arsenali degli Usa e della Ue, è Israele, cioè l’unica democrazia dell’area, ad aver bisogno e gli Stati Uniti, al di là delle generiche parole di sostegno, non soltanto non sanno che dire, ma non hanno alcuna strategia per riportare la calma nella regione.
Biden nel 2024, quando molto probabilmente cercherà una rielezione, si presenterà con dati pessimi sul fronte interno, ma ancor peggiori su quello esterno, con una guerra in corso alle porte d’Europa, una saldatura tra Paesi canaglia come Corea, Iran e Russia e un Medio Oriente sull’orlo del baratro. Bel risultato per uno che si è presentato come un pacificatore dopo l’incendiario Donald Trump.
Tuttavia, se gli errori di sottovalutazione del presidente americano sono enormi e il mondo intero rischia di pagarne le conseguenze, non si può dire che l’Europa sia esente da colpe e da abbagli. Per anni la Ue ha storto il naso di fronte a Israele, arrivando al punto di finanziare associazioni palestinesi che non soltanto non riconoscevano la piccola democrazia di Gerusalemme, ma si prefiggevano di cancellarla dalla faccia della terra. Ora i Paesi dell’Unione vengono ringraziati con il rapimento e l’assassinio di giovani europei, colpevoli di aver raggiunto Israele e di aver creduto nel sogno di una democrazia giovane e forte. Ma non c’è soltanto l’appoggio dato alla causa di Ong in rapporti ambigui con organizzazioni terroristiche, ci sono anche le scelte sbagliate che rischiano ancora una volta di trasformarsi in un boomerang per l’economia del Vecchio continente. Penso alla decisione di rinunciare al gas e al petrolio russo per tornare a essere dipendenti da quello africano o mediorientale. Anni fa rinunciammo alle forniture algerine considerando più affidabili e stabili quelle di Mosca. Oggi importiamo gas dall’Algeria e dal Qatar: la prima si è subito schierata al fianco della causa palestinese e contro Israele, mentre il secondo è sospettato di aver finanziato Hamas. Insomma, né l’una né l’altro paiono partner che possano darci tranquillità in un momento di tensioni internazionali. Del resto, le nostre non sono scelte strategiche, ma solo emozionali: oggi qui, domani là, oggi con un alleato, domani con un altro. Ma in queste giravolte, oltre a perdere il senno, rischiamo di perdere la faccia. D’altra parte, se il nostro inviato per i problemi del Golfo è Luigi Di Maio, che cosa volete aggiungere? C’è solo da sperare che Israele tenga duro e non si faccia consigliare né da Biden né da Di Maio.
Il 5 settembre 1972 un commando di palestinesi prese in ostaggio un gruppo di atleti israeliani. Il risultato fu una strage, per gli errori della polizia tedesca nella gestione delle operazioni. Golda Meir e il Mossad dichiararono guerra ai terroristi di «Settembre Nero».
Poco prima dell’alba del 5 settembre 1972 sulla cancellata del «Kusoczinskidamm», la residenza olimpica degli atleti israeliani a Monaco di Baviera, otto figure con il volto coperto da passamontagna si arrampicavano protette dal buio che ancora avvolgeva il villaggio olimpico. Pochi istanti più tardi Moshe Weinberg, allenatore della squadra olimpica israeliana di wrestling, sentì un rumore provenire dall’esterno e si mise con la sua imponente mole a protezione della porta d’ingresso. Afferrato un coltello da cucina, il coach affrontò il primo dei terroristi palestinesi, Luttif Afif, mandandolo al tappeto con un violentissimo pugno. Pur ferito nella colluttazione che seguì, Weinberg fu in grado di mettere ko un altro terrorista prima di essere ucciso da una raffica di mitra. Il suo corpo fu prelevato e gettato dalla finestra nella sottostante Connollystrasse. Il più sanguinoso attacco terroristico ad un’olimpiade cominciò poco dopo le 4:30 del mattino. Anche un altro atleta israeliano tentò di reagire. Yosef Romano, nato a Bengasi da una famiglia di ebrei italiani e veterano della guerra dei sei giorni, era un campione di sollevamento pesi. Quando i terroristi irruppero nell’appartamento n.1 reagì come il collega Weinberg, colpendo al volto con un coltello Afif Ahmed Hamid, al quale riuscirà per qualche istante a sottrarre il kalashnikov. Morì anch’egli crivellato dai colpi delle armi automatiche dei fedayn. Alle 5 del mattino, il commando palestinese rivendicò l’assalto con la sigla «Settembre Nero» e chiese un riscatto per i nove ostaggi rimasti nelle loro mani. La richiesta fu la liberazione di 234 prigionieri palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane e di alcuni membri del gruppo di terroristi rossi tedeschi «Bader-Meinhof». Cominciava la dolorosa trattativa con le autorità della Germania Ovest, mentre tutto il mondo assisteva con il fiato sospeso alla tragedia.
Perché «Settembre Nero» colpì a Monaco
L’attacco agli atleti israeliani da parte del gruppo terroristico dei fedayn palestinesi fu una conseguenza degli esiti della guerra dei sei giorni del 1967. Con la sconfitta giordana, l’Olp di Arafat ne aveva penetrato i confini creando un caposaldo per attaccare direttamente obiettivi in Israele. In seguito ad una serie di attentati per mano degli uomini del Fplp (Fronte per la Liberazione della Palestina) re Hussein di Giordania si rivolse per un intervento militare dapprima agli Inglesi (che declinarono) quindi agli Stati Uniti del Segretario di Stato Henry Kissinger, che suggerì a Richard Nixon l’opzione di un intervento diretto da parte di Israele con l’appoggio del Pentagono. Alla minaccia di intervento di Tel Aviv, la situazione in Giordania si aggravò, con la Siria di Assad (padre) che scelse di colpire la Giordania in quanto aveva cercato appoggio dal nemico israeliano. Dopo una serie di scontri in cui Assad fece l’errore di non impiegare l’aviazione, l’esercito giordano fu in grado di respingere i Siriani e di colpire mortalmente i membri dell’Olp che si trovavano nel territorio nazionale. I superstiti palestinesi si trasferirono così in Libano, dove posero le basi per la successiva guerra, reclutando terroristi nei campi profughi come quello di Shatila. Il cessate il fuoco tra le parti fu siglato al Cairo il 27 settembre 1970. Il mese in cui gli accordi furono firmati, ispirò il nome al gruppo terroristico palestinese che colpirà Monaco due anni più tardi.
Secondo il Dipartimento di Stato americano, «Settembre Nero» era un ramo di Fatah (il braccio politico dell’Olp) e a sua volta braccio armato dell’organizzazione per la liberazione palestinese. Dal 1970 gli esuli in Libano cacciati dalla Giordania e dall’Egitto non ebbero più il territorio israeliano come obiettivo territoriale confinante. Da qui la scelta di colpire obiettivi israeliani nel mondo. Un esempio, prima del massacro di Monaco di Baviera, fu l’attentato compiuto nel settembre 1970 presso l’aeroporto giordano di Dawson Field dove i terroristi presero in ostaggio cinque aerei di linea (El-Al, Swissair, Twa, Pan Am e Boac) e li fecero esplodere dopo aver liberato i passeggeri.
Le trattative, gli errori tedeschi, la strage all’aeroporto
Alla richiesta dei terroristi palestinesi, le parti in causa reagirono in modo tutt’altro che armonico. Da una parte le forze dell’ordine tedesche fecero leva sulla costituzione della Germania Ovest che riponeva la totale responsabilità delle operazioni alla polizia di Monaco. Dall’altra parte le autorità israeliane proposero inizialmente l’intervento di un corpo dell’esercito altamente specializzato nel recupero degli ostaggi, il «Sayeret», che inizialmente il cancelliere Willy Brandt scelse di far intervenire, salvo poi negare l’intervento per la reazione negativa delle autorità bavaresi. Al corto circuito contribuirono l’assoluta contrarietà del primo ministro israeliano Golda Meir ad ogni tipo di trattativa con i terroristi e il rifiuto del governo egiziano a collaborare con Bonn nell’ipotesi di bloccare i terroristi una volta atterrati al Cairo con l’aereo che avevano richiesto durante le trattative per l’evacuazione protetta dal territorio tedesco. L’impasse e la corsa contro il tempo fecero da volano ad una serie di errori fatali nella gestione degli eventi da parte delle autorità di Monaco. Le richieste dei terroristi di potersi imbarcare per il Cairo assieme ai nove atleti in ostaggio furono assecondate. I negoziatori riuscito a convincere i terroristi sulla migliore scelta della base militare di Fürstenfeldbruck sulla cui pista avrebbe atteso un Boeing 727 Lufthansa pronto ad imbarcarli. Per il trasferimento all’aeroporto furono usati due elicotteri ed i terroristi, che sospettavano un’azione immediata dopo l’uscita dal villaggio olimpico, si fecero trasferire assieme agli ostaggi da un minibus. La tragedia si compirà sulla pista di Fürstenfeldbruck, dove il capo delle operazioni Georg Wolf aveva preparato una trappola travestendo agenti antiterrorismo da equipaggio del jet Lufthansa. Nascosti lungo le strutture dell’aviosuperficie si erano appostati i cecchini tedeschi, con l’obiettivo di colpire i terroristi durante il trasferimento dall’elicottero al 727. Quello dei tiratori scelti fu il primo e più grave errore in quanto il numero di terroristi fu valutato in cinque uomini, a cui avrebbero dovuto sparare altrettanti cecchini. I commando palestinesi erano in realtà otto, il che riduceva di molto le probabilità di un esito chirurgico dell’operazione. Intorno alle 22:30 del 5 settembre 1972 i due elicotteri Uh-1 «Iroquois» dell’esercito toccarono la pista. La seconda situazione che rese tutto più difficile fu che tra il finto equipaggio Lufthansa e il centro delle operazioni non vi fosse alcun contatto radio. Nonostante ciò pochi minuti dopo i cecchini, in inferiorità numerica aprirono il fuoco fallendo gli obiettivi. Si scatenò una violentissima sparatoria, durata circa un’ora finché la Polizia tedesca decise di attaccare frontalmente i terroristi. L’esito fu tragico perché dapprima uno dei terroristi scagliò una granata contro il primo dei due elicotteri dove si trovavano cinque ostaggi, uccidendoli sul colpo. Gli altri atleti, che si trovavano sul secondo elicottero, furono freddati da una raffica di mitra esplosa nell’abitacolo da un secondo terrorista. Il bilancio del massacro fu terribile. Oltre ai nove ostaggi, morì nell’azione anche un agente tedesco dilaniato dall’esplosione dell’elicottero mentre tra i terroristi, due rimasero uccisi nello scontro con la polizia, altri due vennero arrestati dopo essersi finti morti e uno ucciso successivamente dopo che i cani poliziotto lo avevano stanato dal suo nascondiglio in un vagone ferroviario poco distante dall’aeroporto. Gli altri tre membri di «Settembre Nero», feriti, furono inizialmente trasferiti in ospedale. Tre giorni più tardi un’altro dirottamento compiuto da terroristi palestinesi chiese la liberazione del trio. Le autorità tedesche, nel timore di nuovi attentati sul territorio della federazione, acconsentirono e trasferirono i tre membri del commando in Libia.
L’ira di Dio
Il bilancio del massacro di Monaco ebbe gravi conseguenze. L’aviazione israeliana bombardò per ritorsione obiettivi Olp in Siria e Libano mentre la gestione tedesca della crisi fu criticata in tutto il mondo, tanto che in seguito alla strage il governo di Bonn decise di creare un corpo d’élite di polizia specializzato nel recupero degli ostaggi e nell’antiterrorismo, Il Gsg-9 (Grenzschutzgruppe-9). A Tel Aviv una impietrita Golda Meir, a sua volta accusata dai tedeschi di aver rifiutato le trattative, cominciò ad articolare quella che in codice si sarebbe chiamata «Operation-X», che prevedeva l’uccisione di tutti i membri di «Settembre Nero» per mano del Mossad. Al fine di preparare l’azione di risposta, la «lady di ferro» israeliana costituì una commissione speciale alla quale presero parte i vertici dei servizi (il capo del Mossad Zwi Zamir) e della difesa (Moshe Dayan). Da quel momento partirà l’operazione che la stampa internazionale ribattezzò «Ira di Dio - Wrath of God» durata circa un ventennio, con esiti in alcuni casi fallimentari. Tali furono i risultati del tentativo di assassinio di una delle menti della strage di Monaco, il «Principe rosso» Ali Hassan Salameh. Segnalato nel paese di Lillehammer in Norvegia (che sarà a sua volta ospite di olimpiadi invernali nel 1994) dai vertici dell’operazione stabilitisi a Ginevra, fu pedinato per mesi dagli agenti del Mossad. Il 21 luglio 1973 l’azione si risolse con un errore fatale perché al suo posto, a causa della forte somiglianza con il terrorista palestinese, fu ucciso di fronte alla moglie incinta un giovane marocchino cameriere in un locale della cittadina, Ahmed Bouchiki. In un’altra occasione gli uomini dell’operazione eliminarono una persona non direttamente coinvolta nei fatti di Monaco. Fu anche il primo degli obiettivi ad essere colpito a poco più di un mese dalla strage il 16 ottobre 1972. Abdel Zuaiter, personaggio conosciuto in Italia per la propria attività di intellettuale a favore della causa palestinese ed amico di Alberto Moravia, fu freddato a Roma da un commando del Mossad in quanto considerato membro di «Settembre Nero». Tra il 1972 e il 1988 furono portati a termine gli attacchi contro ex membri dell’organizzazione terroristica palestinese in particolare nelle principali capitali europee dove questi operavano. I servizi israeliani per quasi vent’anni portarono avanti, parallelamente agli assalti a colpi di mitra o piazzando bombe negli appartamenti dei terroristi, una guerra psicologica fatta di lettere bomba, falsi annunci funebri, pressioni su famiglie vicine all’organizzazione palestinese. Dall’altra parte se dal 1974 «Settembre Nero» fu soppresso in seguito alla scelta di Arafat di non voler appoggiare alcuna strage terroristica al di fuori della Striscia di Gaza, dei Territori occupati e della Cisgiordania, durante gli anni seguiti alla strage delle olimpiadi del 1972 proseguì le proprie azioni terroristiche contro obiettivi israeliani. Sopra tutti, l’attacco contro Golda Meir che avrebbe dovuto portare al suo assassinio a Roma nel gennaio 1973 e sventato in extremis dai servizi segreti italiani dopo una soffiata da parte dei colleghi israeliani. Proprio nella Capitale, la violenza di «Settembre nero» colpì alcuni mesi dopo quando il 17 dicembre un commando di terroristi dell'organizzazione fece irruzione nel terminal dell'aeroporto di Fiumicino sparando all'impazzata e gettando in seguito una bomba all'interno del volo Pan-Am 110 per Teheran, causando la morte di 30 passeggeri ta cui una bambina italiana di soli 9 anni. Il bilancio finale sarà di 34 morti, che ancora una volta a pochi mesi dall'orrore di Monaco insanguinò le piste degli aeroporti europei.









