Rischio espulsione dal Movimento per contributi ricevuti da lobbisti. Il collegio dei probiviri del M5s avrebbe aperto ieri pomeriggio, su segnalazione del capo politico Vito Crimi, un'istruttoria sul caso dell'europarlamentare Dino Giarrusso. Domenica sera, infatti, la trasmissione Report ha svelato che l'ex volto delle Iene di Mediaset ha ricevuto 10.000 euro di finanziamento elettorale da Carmela Ritter, moglie di Piero Di Lorenzo ossia il titolare, amministratore delegato e presidente della Irbm di Pomezia, società che si occupa di biotecnologie e collabora con l'Università di Oxford per la realizzazione di un vaccino contro il Covid-19. Azienda che, con un tweet del 13 marzo, Giarrusso lodava come «grande eccellenza italiana». Inoltre l'eurodeputato ha ricevuto altri 4.800 euro da Ezia Ferrucci, lobbista per British American Tobacco, che vede fra i fondatori lo stesso Di Lorenzo. Infine 4.900 euro sono invece stati donati al pentastellato dalla Promedica Srl di San Giovanni La Punta. Tutti contributi che superano la soglia massima, fissata dal M5s, di 3.000 euro da un unico donatore, e che soprattutto violano un principio pentastellato fondante, quello che vieta ai candidati di ricevere risorse da lobbisti. Giarrusso per queste donazioni rischia da una pesante sanzione, fino all'espulsione. E mentre tra i grillini c'è chi chiede «chiarezza su una questione molto grave», in un lungo video postato su Facebook il componente della commissione Agricoltura nell'Europarlamento si è difeso dagli attacchi, ribadendo la correttezza del suo operato: «Il finanziamento è assolutamente regolare. L'ho accettato solo dopo aver saputo che nel 2018 la stessa Ferrucci ha finanziato allo stesso modo la campagna elettorale di tutto il M5s, donando 4.000 euro al comitato elettorale per le politiche». Inoltre ha aggiunto: «Donazioni sopra i 3.000 euro vietate dal vademecum del M5s? Mi era sfuggito. E comunque ho comunicato tutto, in piena trasparenza, sia al nostro comitato interno che naturalmente agli organi previsti dalla legge, e nessuno ha avuto nulla da ridire su questo». Giarrusso ha anche mostrato la ricevuta del versamento della Ferrucci a sua discolpa, ma per molti dei suoi compagni di partito una cosa è un contributo dato all'intero Movimento e altra un finanziamento, peraltro di importo superiore, a un singolo esponente. Ignazio Corrao, collega di gruppo a Bruxelles, è andato giù pesante: «Nessuno nel M5s si è mai fatto finanziare personalmente da lobbisti. Se qualcuno lo facesse, verrebbe espulso immediatamente». Piernicola Pedicini, altro eurogrillino, ha pubblicato «vietato ricevere più di 3.000 euro da singoli soggetti». E ha chiuso così il suo post: «I nostri lobbisti erano i cittadini». Dino Giarrusso, protagonista degli ultimi stati generali, ha ribadito: «Io sono molto tranquillo. Ho rispettato le regole del M5s e la legge. Farò chiarezza agli organi di garanzia, di cui mi fido ciecamente». Il filosofo e blogger nonché ex ideologo del Movimento ieri su Twitter annunciava: «Oggi è probabile che Giarrusso sia espulso. Pare abbia preso più voti di Di Maio e Fico agli Stati generali (i numeri non sono noti, ma sarebbe stato secondo solo ad Alessandro Di Battista, ndr). Il motivo per farlo fuori lo conosco, ma questo non ve lo dico. Onestà, onestà bla bla bla. Giarrusso espulso perché tanto è parlamentare europeo. Le espulsioni dei parlamentari italiani restano invece congelate perché altrimenti il governo non avrebbe più la maggioranza al Senato». A parte il clima velenoso, l'ex iena Giarrusso avrà 10 giorni di tempo per produrre una memoria difensiva. Poi si arriverà alla sentenza che potrà anche portare all'espulsione.
Onorevole Giarrusso, risponda sinceramente: state perseguitando Autostrade?
«Se è una barzelletta non fa ridere. Chi lo racconta?».
Sa benissimo chi: Luciano Benetton nella sua clamorosa lettera a Repubblica di ieri.
«Ho letto la lettera, ovviamente. Mi pare, semmai, un clamoroso caso di ribaltamento della realtà. Pagano per gli errori che hanno fatto, questo sì».
Dice l'azionista più importante di Atlantia: «Le posizioni di chi minaccia di revocare le nostre concessioni ci stanno danneggiando economicamente».
«Ma dove? Casomai è il contrario».
Cioé?
«Sono le scelte fatte in questi anni a danneggiare il gruppo. Sono state le sottovalutazioni degli allarmi, i risparmi sulle manutenzioni già accertati dalla Procura e gli effetti di queste scelte a minare la fiducia dei mercati e la credibilità della società».
Quindi?
«Non credo affatto che stia accadendo quel che dice Benetton, anzi: noi oggi stiamo solo tutelando i cittadini, dopo tutte le assurdità che le indagini hanno portato alla luce».
Addirittura?
«Certo. Non eludo la domanda, ma offro una spiegazione diversa a quella degli azionisti».
Dino Giarrusso, eurodeputato del M5s, si trova a Strasburgo per il suo impegno nel Parlamento europeo. Da lì interviene sui grandi temi di cui si discute in queste ore: il caso Atlantia e il dibattito sul Mes e sulle nuove regole del fondo salva Stati («Rischiano di essere un problema per l'Italia»). Ma torniamo al caso Autostrade.
Si potrebbe dire: voi avevate la stessa posizione contro la società Atlantia anche nell'agosto 2018. Quindi quello che dite oggi non può dipendere dalle indagini.
«Mi scusi, ma questo è un segno di coerenza e di lungimiranza piuttosto. Ipotizzavamo delle responsabilità che adesso le indagini stanno confermando. Dovremmo preoccuparci se quello che avevamo detto fosse risultato falso, semmai».
Quindi secondo lei siete stati profetici o avete avuto fortuna?
«Ci consideravano estremisti e dicevano che non avevamo gli elementi per sostenere che Atlantia fosse responsabile. Dicevano che parlavamo a caldo, sull'onda dell'emozione e animati da uno spirito vendicativo o dalla ricerca di facili consensi. Tutte sciocchezze».
Perché?
«Perché le perizie dicono che il ponte era deteriorato, che i sensori erano tranciati, che i monitoraggi erano insufficienti: significa che avevamo ragione noi a mettere in discussione la licenza di concessione e non gli altri a difendere Atlantia».
Il valore del titolo in queste ore è caduto del 7%, questo è innegabile.
«Stiamo parlando di cittadini morti senza colpa, glielo ricordo. Quando succede questo è normale che le conseguenze investano chi ha gestito Autostrade in questi anni».
Però, se poi Luigi Di Maio, che è leader di maggioranza, dice «Revochiamo le concessioni», è ovvio che questo faccia cadere il titolo.
«E quindi? Non pretenderà che un governo agisca sulla base delle fluttuazioni di una società privata in Borsa! Altrimenti anche se ci fossero colpe gravissime non si potrebbe mai intervenire perché questo danneggerebbe un privato...».
Il vostro obiettivo è fare vendette?
«No: è fare giustizia, tutelare i cittadini. Non c'è nessun atteggiamento punitivo. Era ovvio che dopo una catastrofe di queste proporzioni ci fossero delle conseguenze. Chi sbaglia paga: è un principio civile, e non una forma di vendetta».
È giusta la durezza Di Maio nei confronti della società, dunque, secondo lei?
«Sì. Trovare i responsabili e prendere provvedimenti è un atto di civiltà. A far crollare il titolo sono i nodi che vengono al pettine. La nostra severità è figlia dello sconcerto per quello che avevano intuito al momento del crollo del ponte Morandi, oggi corroborato dalle inchieste».
Ovvero?
«C'è qualcuno responsabile del crollo di un ponte, della morte di 43 persone e di un danno economico e infrastrutturale a Genova e a tutto il Nord. Ciò che accade oggi, compresa la valutazione sulle condizioni in cui il servizio viene gestito, è il prodotto di questi eventi. La nostra severità, se la vuole chiamare così, è solo l'effetto di quelle scelte dissennate e infine tragiche».
Benetton dice: «Anche noi abbiamo subito le scelte dei manager».
«In questo Paese c'è libertà di opinione e pensiero».
La sento sarcastico.
«Come mai parlano solo ora? Perché queste cose le hanno dette solo dopo un anno e mezzo e non a caldo?».
Me lo dica lei.
«Noto che scaricano i manager solo dopo averli sostituiti. E che quando dovevano prendere atto di quel che dicono ora - cioè subito dopo il crollo del ponte - non lo hanno fatto».
Quindi è giusto revocare?
«Certo. I manager chi li ha scelti? Dino Giarrusso, Di Maio o Benetton? I proprietari della società subiscono le conseguenze delle loro decisioni. E poi...».
Cosa?
«Ho visto che a Castellucci è stata pagata una buonuscita di 13 milioni di euro. Un travet dovrebbe lavorare 10.000 anni per raggiungere questa cifra».
Che cosa c'entra questo?
«Non conosco i termini del contratto, ma non mi pare il trattamento che si riserva a un manager da cui ti senti tradito».
Tutta la colpa è dei Benetton, dunque?
«No, anche di chi ha concesso condizioni così vantaggiose a un privato».
Qualcuno si chiede se Di Maio usi Autostrade per ricompattare il Movimento.
«Assurdo. Non ho mai sentito qualcuno, nel nostro Movimento e nel Paese reale, che sia contrario alla revoca. Siamo compattissimi, soprattutto su questo».
Se si revoca, chi dovrebbe gestire Autostrade?
«Atlantia in questi anni ha fatto guadagni e profitti straordinari a fronte di scarsissimi investimenti sulla sicurezza e sulla manutenzione. Chiunque prometta di evitare questi errori sarebbe meglio di loro».
Anche in questo caso pensate alla nazionalizzazione?
«Tra poco le risponderò. Ma sembra davvero che nessuno si preoccupi di quello che sta emergendo dalle indagini. Come se fosse indifferente. Non lo è».
Bene, ma chi deve gestire il servizio?
«Il governo ha il dovere di intervenire a tutela di un bene in cui il valore deriva da investimenti pubblici. In tutta Europa i gestori guadagnano meno o sono costretti a investire di più».
Può essere anche lo Stato, dunque.
«I ricavi certi possono rimpinguare i bilanci pubblici. E Autostrade era una gallina d'oro anche prima di Atlantia. Dobbiamo capire che il sistema Paese ha alcune priorità industriali da tutelare e per questo è importante anche l'idea del ministro Stefano Patuanelli di una nuova Iri».
Passiamo al salva Stati: oggi Nicola Zingaretti vi ha fatto un appello ad accettare. In nome dei valori europei.
«Partiamo dal vecchio salva Stati, per provare a spiegare: non ha fatto bene alla Grecia. Ha fatto bene alle banche che avevano investito in Grecia».
Siete contrari perché volete contendere i voti sovranisti a Matteo Salvini e Giorgia Meloni?
«No, anzi, quel meccanismo non ci è mai piaciuto e lo abbiamo scritto chiarissimo anche nel nostro programma elettorale».
Carlo Calenda dice che lo criticate senza conoscere il testo.
«Vorrei che Calenda spiegasse questo: se vengono concessi più facilmente i crediti a chi ha un rapporto tra debito e Pil fino al 60%, come può convenire all'Italia che ha il secondo peggior rapporto?».
I difensori del resto dicono che il trattato entra in funzione solo se lo chiedono i governi. Il governo siete voi.
«Che c'entra? Se domani ci fosse un nuovo governo Monti lo considererei preoccupante».
Che cosa paventate di un teorico intervento?
«Il Mes può chiedere consolidamenti fiscali. Può chiedere tagli alla spesa pubblica. Questo scenario va scongiurato oggi».
I liberisti dicono: noi siamo responsabili del nostro debito.
«Non tutti sanno che abbiamo già pagato interessi sul debito superiori all'intera cifra del debito. Basta giocare sui sensi di colpa».
Ma il governo giallorosso durerà?
«Quando è nato il governo con la Lega, e poi quando è nato il governo con il Pd dopo il tradimento di Salvini, ho pensato la stessa cosa».
Cioè?
«Non mi piace, ma è necessario».
E oggi?
«Penso la stessa cosa. Se loro vengono a noi e se insieme votiamo leggi compatibili con la nostra storia e i nostri valori, è una cosa positiva».
E quindi?
«Abbiamo ottenuto: reddito, taglio dei vitalizi, spazzacorrotti, quota 100, codice rosso e riforma della prescrizione: mi sembrano cose ottime».
Andiamo al sodo. In Emilia dovete allearvi con il Pd o no?
«Il tema non si pone, perché come ha ricordato anche Di Maio noi non possiamo sostenere il candidato di un partito. Lo dice il nostro statuto. In Emilia Romagna siamo pronti a fare una grande campagna elettorale».
Com'è nella sua indole poliziottesca, Mario Michele Giarrusso, svolge in Parlamento attività di guardiania. Il pittoresco senatore del M5s si occupa di carceri e codici in commissione Giustizia; di coppole e camorra in Commissione Antimafia; di intimorire i colleghi nella Giunta delle immunità, di metterli ai ceppi nel Comitato dei procedimenti di accusa. Appartenendo alla stirpe giustizialista dei Totò Di Pietro, Rosy Bindi, Elio Lanutti, Giarrusso ha bisogno di una dose giornaliera di persone da addentare.
Lo chiamano Marione per la mole, la rumorosità, gli scoppi d'ira. Se anche ride, squassa l'aria e scuote i vetri. La sua foto più rappresentativa lo ritrae nudo in cucina, coperto solo da una parannanza mentre tiene un forchettone e una pinza per astici nelle mani. Diresti che voglia afferrarti e metterti a bollire. Aggiungi il ghigno che si fa strada nel barbone nero, i lunghi capelli appiccicati e hai la perfetta immagine di Barbablù.
Entrato in Parlamento nel 2013, con la prima ondata grillina, Giarrusso colpì subito i cronisti parlamentari. Classe 1965, era più anziano ed esperto della frotta di liceali senz'arte né parte che Beppe Grillo aveva catapultato a classe dirigente. Nonostante l'aspetto da orco, si lasciava abbordare dai giornalisti mentre i ragazzetti li disdegnavano, recitando la parte degli estranei al Palazzo. Il terzo atout di Marione era che le sparava grosse e la stampa ci andava a nozze. Puntualmente smentito da Grillo, piattaforma Rousseau e compagnia, Giarrusso faceva poi marcia indietro, dicendosi travisato, vittima di un agguato, ecc. Conclusione: era citato dai giornali e stava spesso in tv. Fu così tra i primi grillini a diventare noto, contravvenendo all'ordine di scuderia di evitare la ribalta per non confondersi coi corrotti del circo mediatico.
Oggi che i 5 stelle irrompono in tutti i talk show, il nostro Marione è da considerarsi il battistrada. Ma tuttora irraggiungibile come maestro dell'esagerazione, dell'insulto gratuito, del grandguignol. Un giorno, nel 2016, ospite della Zanzara, parlando dell'allora premier, disse: «Matteo Renzi è uno che non ha mai lavorato un giorno in vita sua. Renzi perciò sarebbe da impiccare». I due conduttori, Giuseppe Cruciani e David Parenzo, tacquero sbigottiti. Che ci arrivi una querela? si chiesero con gli occhi. Marione intercettò l'interrogativo e precisò: «Insomma, avete presente la cosa che si fa su un albero attaccando la corda?». Renzi, allora in auge, lasciò correre con disdegno.
Ci ha però ripensato in questi giorni, tre anni dopo, per una nuova offesa di Giarrusso. Se n'è straparlato sui media. Circondato dai senatori del Pd che gli rinfacciavano il voto pro Matteo Salvini nel caso Diciotti, Marione ha reagito in base al suo Dna: ha incrociato i polsi nel segno delle manette, alludendo alla carcerazione preventiva dei genitori Renzi. Al figlio, tanto più in disgrazia, è ribollito il sangue e la vecchia piaga si è riaperta. Così, in una kermesse per presentare il suo nuovo libro, ha proiettato una delle tante infelici foto di Giarrusso, commentandola così: «La natura è stata poco clemente con lui». Ha poi ricordato la frase sull'impiccagione e si è pianto addosso perché a suo tempo né il Senato, né il Pd, presero le sue difese. La sceneggiata ha esaltato Giarrusso che si è ritrovato sotto i riflettori per un motivo meschino ma di cui va fiero. Augurare la morte a qualcuno appartiene infatti al suo repertorio. In polemica con il giornalista Rai, Davide Camarrone, gli ingiunse: «Buttati a mare con una pietra al collo». In un'altra occasione, vaticinò che Silvio Berlusconi sarebbe finito testa in giù a Piazzale Loreto. Marione dice spesso di sé: «Io sono un manettaro», aggiungendo le varianti: «Pagherete caro», «Vi schiaffo in galera», «Meritate tutti il 41 bis».
Nel gruppo dei senatori grillini e, più in generale, nel movimento, Giarrusso è visto con estraneità se non con sospetto. Dei suoi 54 anni, contro i 30-40 degli altri, abbiamo detto. Inoltre, è amico di molti magistrati, di tutti i capi delle forze dell'ordine, dei maggiorenti dell'antimafia, dei segugi nei servizi segreti. Tutte cose che per i colleghi, appesi alla rete e ai sospiri di Davide Casaleggio, è motivo di diffidenza. Per loro, è come avere a gomito un uomo della prima Repubblica, di quelli che il M5s è solito combattere, non cooptare. La sola compagna di partito cui Marione riserva un sorriso è Paola Taverna, che adora.
Il catanese Giarrusso debuttò negli anni Ottanta con la Rete di Leoluca Orlando. Fu tra i sanculotti della Primavera di Palermo il cui motto era: «Il sospetto è l'anticamera della verità». Finita l'ubriacatura, Marione si attaccò al Pds-Ds e subisce tuttora il fascino dei suoi eredi. A disagio per l'attuale sodalizio con la Lega, pende per un'alleanza pentastellati-Pd. Agli ex comunisti ha reso un bel servigio nel 2013, schierando i grillini riluttanti con Pietro Grasso per la sua elezione alla presidenza del Senato. Con costui, ex procuratore di Palermo e dell'Antimafia, Marione ha una triplice legame: la sicilianità, il sinistrismo, il professionismo antimafia.
Già grandicello, a 33 anni, Marione si addottorò in Legge, diventando avvocato. In associazione con dei colleghi, ha studio in Piazza Giovanni Verga, nel triangolo più antimafioso di Catania: di fronte al Tribunale, nei pressi della caserma dei Carabinieri, accanto allo studio legale di Giuseppe Lumia, altro mammasantissima della Rete orlandiana e dell'antimafia militante. L'avvocatura lo avvicinò al M5s. Si specializzò, infatti, in cause collettive tipiche del pauperismo ecologista dei grillini. Con una, bloccò la costruzione di inceneritori. Con un'altra, si oppose al progetto di rigassificatore di Priolo (Siracusa). Ma il vero punto di forza, all'origine del suo potere locale, è la fondazione Antonino Caponnetto, (un giudice defunto, mentore di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) di cui è pezzo grosso da lustri. I suoi ammanicamenti con le autorità dell'ordine pubblico siciliano derivano da qui. Il prestigio che gli dà la fondazione è anche l'utilità che il movimento di Grillo ricava dall'avere Giarrusso nelle sue fila e la sola ragione per cui ne tollera il caratterino.
Anche a Catania, Marione è in lite universale. Con i suoi e con la stampa. Si racconta che, prima di una recente riappacificazione con Giancarlo Cancellieri, plenipotenziario di Grillo nell'isola, il Nostro lo definisse «il pecoraio». Da una blogger locale, Debora Borgese, si è invece preso una querela per averla, a causa di qualche frase sgradita, definita, «madame Pompadour», con voluta assonanza scurrile.
La vitalità del senatore Giarrusso mi ha un po' preso la mano dandovene l'idea di un Rodomonte sempre in duello. In realtà, è anche padre di famiglia, con moglie insegnante e due figlie adolescenti, e bon vivant. Adora i peperoni e ne mangia di continuo nelle più varie ricette. Facile incontrarlo a mezzanotte, reduce da qualche discussione, in una nota macelleria cittadina che, con la carne alla brace, offre peperoni fritti. Testimoni affermano di autentici corpo a corpo dai quali Marione esce con la barba imbriciolata e i vestiti a chiazze.
Coerente, mangia come vive: battagliando.





