Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.
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2025-04-03
Da Rocco a Borsellino: la cultura dello Stato che la sinistra (e pure certa destra) ha scordato
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Alfredo Rocco, ministro della Giustizia dal 1925 al 1932 (Getty Images)
In un saggio appena uscito, lo studioso Spartaco Pupo ricostruisce la storia dell’idea di Stato nella destra dal primo Novecento a Fratelli d’Italia.
La destra e lo Stato: un binomio che parrebbe andare da sé. Eppure, spesso, nell’immaginario le cose non stanno così. Una certa propaganda avversaria ha infatti imposto l’idea di una destra allergica alle regole del vivere comune, individualista, pro evasione, pro giustizia privata, persino priva di anticorpi contro il potere mafioso. «La Casa delle libertà: facciamo un po’ come c… ci pare», satireggiava Corrado Guzzanti. E, a essere del tutto onesti, qualche volta la destra ha finito per avvinarsi a questo stereotipo caricaturale, forse per un malinteso liberalismo. Giunge quindi benvenuto il libro di Spartaco Pupo, che si intitola appunto Lo Stato e la destra (Eclettica).
Docente di Storia del pensiero politico all’università della Calabria, con all’attivo diversi saggi (e anche vittima di un tentativo, fortunatamente abortito, di «cancellazione» da parte dei soliti attivisti), Pupo ci fa fare un viaggio nella storia delle idee e della politica, da Gentile a Borsellino, da Rocco a Pound, alla scoperta di una idea di Stato conservatrice, ma anche modernizzatrice. E rimette sugli altari una visione nobile e bella, ma storicamente fondata e niente affatto utopistica, del concetto di destra.
Lo studioso parte dalla constatazione che «nonostante tutto, lo Stato sovrano rappresenta il valore identitario per eccellenza, in grado di superare l'imposizione relativistica del progressismo universalista […]. Stato e sovranità, infatti, non sono idee effimere o convenzionali, destinate a essere superate dal corso della storia, poiché dalla loro più intima relazione scaturisce l'elemento necessario della società, la cui dissoluzione sarebbe altrimenti certa. La società, infatti, deprivata del suo principio vitale e del suo centro unificatore, finirebbe col cadere molto facilmente in preda al disordine e all'anarchia. E ciò che più conta, ma che si tende inspiegabilmente a sottovalutare, e che lo Stato rappresenta la struttura fondante di quel dispositivo per l'esercizio del potere per antonomasia fondato sulla sovranità popolare che, fino a prova contraria, è la democrazia».
A fronte di tutto ciò, «il fatto che lo Stato nazionale resti l'impressione più alta della civiltà rende ragione a una cultura politica da sempre schierata in difesa della lealtà nei confronti di questa che è l'unica organizzazione è in grado di garantire il perseguimento dell'interesse comune e la convivenza pacifica tra diversi. Si tratta della cultura della destra, armamentario ideale e valoriale su cui si è innestata l'elaborazione ideologica del partito di riferimento, con cui si relaziona strettamente».
Il saggio, come detto, parte dalla costruzione dello Stato fascista da parte di Alfredo Rocco, il cui impianto istituzionale e legislativo, è bene ricordarlo, è stato ampiamente conservato dall’Italia repubblicana (e fa sempre sorridere quando qualcuno polemizza con questa o quella legge definendola «norma varata nell’epoca fascista», quando praticamente tutti i codici ancora oggi in uso furono frutto di quella stagione, pur subendo vari aggiornamenti, come è ovvio). Da un punto di vista filosofico, lo stesso periodo vide spopolare la figura di Giovanni Gentile, il cui Stato etico è stato spesso e volentieri frainteso, come se il pensatore siciliano avesse in mente una istituzione che si preoccupa che i cittadini non ingrassino, e non piuttosto una condizione in cui il massimo dell’autorità corrispondeva al massimo della libertà. Una utopia? Di sicuro, per Gentile, una linea d’orizzonte mai data e sempre da conquistare.
Nel dopoguerra, malgrado la condizione di «esuli in patria» in cui si vennero a trovare i militanti missini, che non di rado con l’autorità costituita finivano per scontrarsi, una cultura dello Stato si fece comunque largo, il cui frutto più giustamente famoso è rappresentato sicuramente da Paolo Borsellino, giudice e martire antimafia dalla mai rinnegata militanza giovanile nel Fuan. Riferimenti e miti che bisognerebbe ricordare a certi avversari. E pure a certi amici.
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Il Disciplinary Training Center di Metato (Pisa) dove Ezra Pound fu internato dalla fine di maggio al novembre 1945
Un libro ricostruisce le settimane passate dal poeta statunitense nel Disciplinary Training Center: una prova durissima, da cui però usciranno poesie di valore assoluto.
Sulla prigionia di Ezra Pound a Pisa, alla fine della guerra, circola una curiosa leggenda metropolitana, avvalorata anche da molti ammiratori di destra del poeta e persino da presunti testimoni oculari. Tra i fascisti fatti prigionieri dagli americani c’è infatti chi giura di aver visto con i propri occhi Pound dietro le sbarre nel campo di Coltano, poco lontano dalla città della Torre pendente. Ma questo è impossibile, perché lì Pound non c’è mai stato: i Prisoner of War Encampments 336, 337 e 338 che vennero allestiti nella tenuta di Coltano erano infatti destinati ai prigionieri di guerra fascisti e nazionalsocialisti di nazionalità italiana e tedesca o ai “collaborazionisti” di altre nazionalità; Pound, che non era un prigioniero di guerra ed era statunitense, finì invece al Disciplinary Training Center of the Mediterranean Theater of Operations di Metato, altra località situata nei pressi di Pisa e destinata ai prigionieri americani.
Alla dura ma feconda parentesi pisana di Pound è dedicato un libro uscito recentemente e scritto da Luca Gallesi: Ezra Pound a Pisa. Un poeta in prigione (Ares). Il volumetto ricostruisce il contesto della detenzione del poeta e fornisce poi un’introduzione ai Pisan Cantos, ovvero la parte dell’«interminabile poema» poundiano scritta proprio dietro le sbarre. Dopo essere stato prelevato dai partigiani, alla fine della guerra, e aver subito i primi interrogatori a Genova, il poeta viene portato a Pisa, appunto al Disciplinary Training Center, dove erano rinchiusi i soldati americani che si erano macchiati di qualche crimine (l’autore dei Cantos è l’unico civile). Pound non ha la minima idea di dove lo stiano portando, crede che quello sia l’aeroporto e che lo stiano per mandare negli Stati Uniti. Da Washington sono arrivate istruzioni per evitare qualsiasi trattamento preferenziale. Pound non è accusato di aver aderito al fascismo, cosa lecita negli Usa grazie al primo emendamento, ma di alto tradimento, per il fatto di aver parlato alla radio di Stato di un Paese in guerra con gli Stati Uniti.
L’ordine di non avere la mano leggera viene preso alla lettera: «Il poeta», scrive Gallesi, «viene rinchiuso in una gabbia di ferro appositamente rinforzata con un doppio giro di filo spinato, per scongiurare il pericolo di fuga e sventare eventuali tentativi di liberarlo da parte dei fascisti clandestini, l'ipotesi assolutamente infondata, benché ritenuta altamente credibile dagli americani». È quella che Pound definirà la «gabbia del gorilla», una cella a cielo aperto, con il sole a picco sulla testa tutto il giorno, esposta alle intemperie e all’umidità (ricordiamo che Pound all’epoca aveva 60 anni, non era più un ragazzino, ed era per di più sempre stato molto sensibile alle variazioni di clima). È guardato a vista 24 ore su 24, con una sentinella davanti alla cella e luci accese anche di notte. Nessuno può rivolgergli la parola. Le condizioni di detenzione sono draconiane, molto più severe di quelle subite dai suoi vicini di cella, peraltro molto più giovani e atletici: «Al contrario degli altri prigionieri, Pound non ha a disposizione né una branda né una latrina: le guardie gli hanno dato alcune coperte che deve usare come giaciglio, e per i suoi bisogni ha soltanto un secchio che viene svuotato solo quando è colmo».
Per tenersi in forma, Pound cammina di continuo nella gabbia, oltre a ingaggiare partite di tennis o incontri di boxe con avversari immaginari. Osserva spesso il paesaggio toscano che si staglia attorno a sé, battezzando alla sua maniera i luoghi che vede dalla cella, rivedendo nella campagna pisana luoghi della tradizione confuciana. Dopo tre settimane, il poeta peggiora sia dal punto di vista fisico che mentale. Alla fine ha un collasso, il che gli permette se non altro di lasciare la gabbia e di essere alloggiato in una tenda dell’infermeria. Nella tenda riesce a scrivere: qui butta giù i suoi Canti Pisani. Riceve anche le prime visite, fra cui quella della moglie Dorothy. Arriva così al 16 novembre del 1945, quando viene caricato in fretta e furia su un aereo per raggiungere Washington, dove lo aspettano un processo che non prenderà mai il via e una lunga detenzione in manicomio.
Scrive Gallesi: «La storia di Ezra Pound si presterebbe a fare da canovaccio a un appassionante romanzo di avventura, se non fosse che i riferimenti a cose e persone reali sembrano del tutto inverosimili: un protagonista assoluto della letteratura del Novecento che, dichiarato incapace di intendere e di volere, vince un prestigioso premio letterario; una crudele carcerazione in una gabbia di ferro esposta alle intemperie per aver tentato di impedire una guerra scatenata violando la Costituzione americana; un'accusa di altro tradimento mai provata, e un processo mai svolto, che si traducono in 13 anni di detenzione in un manicomio criminale; una pseudo-liberazione che permette al poeta di uscire dall'ospedale psichiatrico soltanto dopo essere stato privato della personalità giuridica e affidato, fino alla morte, a un tutore legale».
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Flavio Caroli (Getty Images)
Il divulgatore d’arte: «Un autore resta di valore anche se fa sbagli. In pochi lo capiscono. Non sento mai i nostri politici parlare del patrimonio artistico in campagna elettorale».
Quasi 80 anni, ancora da compiere nel 2025, e il ricordo nitido della commozione di quando era bambino («non più di 5 o 6 anni, davvero, ma rammento tutto»). Fuori nevicava e arrivò in volo una gazza nera. «Accanto a me una scatola di pastelli colorati regalo di mia zia, e sul muro un calendario con il quadro di Monet, la neve e la gazza nera. La corrispondenza. Piansi di emozione. Pensai di poter fermare il tempo».
La vita di Flavio Caroli, storico e critico d’arte, è un susseguirsi di innamoramenti: li ha raccontati in Storia sentimentale dell’arte, un’educazione alla bellezza (Solferino), il suo libro più recente. Per Mondadori ha già consegnato le bozze di L’altra storia dell’arte. I vinti vincitori, uscirà in autunno. Ravennate di nascita, milanese d’adozione, Caroli ha iniziato l’attività accademica a Bologna e - transitando dagli atenei di Salerno e Firenze - dal 1995 è stato ordinario di Storia dell’arte al Politecnico di Milano. Responsabile scientifico delle attività espositive di Palazzo Reale del capoluogo lombardo fino al 2004, ha scritto più di 40 libri in altrettanti anni di carriera.
Una vita tra studi, incontri, lezioni e volumi. Mestiere elitario, quello del divulgatore d’arte?
«Una vita a raccontare l’esatto contrario: l’arte è per tutti. Serve a tutti. Che sia musica leggera - le potrei raccontare per filo e per segno anche l’istante in cui mi imbattei nell’ascolto del primo disco dei Beatles da ragazzo, She loves you - o pittura, cinema o un buon libro. Non ho mai fatto classifiche tra le arti, mi è sempre interessato solo dire al maggior numero di persone possibile che Fëdor Dostoevskij aveva ragione».
Dicendo che la bellezza salverà il mondo?
«Lo ha già salvato infinite volte. Pensi a cosa sarebbe il mondo senza la bellezza. Un susseguirsi di sbudellamenti, torture e brutalità. E invece dovrebbe vedere gli occhi dei giovani che vengono ad ascoltarmi. Impazziscono di gioia. Vogliono bellezza. Come la volevo io quando a 10 anni leggevo sotto le coperte Il vecchio e il mare, preso da un fascino totale per quella storia lontana eppure così vicina a me».
Gli adulti sono capaci di offrirla, la meraviglia?
«Ci vorrebbe una politica culturale, ci vorrebbe che la politica si facesse carico di questo bisogno».
Ma…?
«Non la fa più nessuno. Non che fuori dai nostri confini in Occidente ci si comporti tanto meglio, intendiamoci, pur se in Francia e in Inghilterra qualcosa in più si muove…».
E da noi?
«Mai sentiti i politici dire nelle recenti campagne elettorali che vogliano valorizzare questo e quello del nostro patrimonio artistico, o promuovere del nuovo».
Da quanto, il disinteresse?
«Bella domanda. Direi da quando la mia generazione era giovane».
Addirittura.
«A confronto con l’intensa politica culturale del Partito comunista, o quella dei socialisti, stiamo a zero».
Bravi solo a sinistra?
«Macché. Con Sandro Fontana, che fu vicesegretario della Democrazia cristiana e direttore del quotidiano Il Popolo, diventammo pure amici. Fu tra i promotori della mostra Nuova immagine, nel 1980 alla Triennale di Milano. Portammo artisti nuovi in Italia per la prima volta. Capiva l’importanza dell’arte per il Paese».
Le censurarono qualche quadro o artista, ai tempi della Dc?
«Una volta mi congratulai con Fontana e lui mi disse: “Semplicissimo: la cultura crea opinione”. Riteneva che in termini brutalmente elettorali fosse un valore».
E quelli dalla parte opposta?
«Alla Biennale di Venezia facevamo le riunioni per decidere il programma e Claudio Martelli era in anticamera ad attendere cosa deliberassimo. Gli importava, e molto. Non penso che avvenga anche oggi o che sia più avvenuto, un ministro in anticamera».
Cultura e politica, il problema è…
«Il livello. Con tutto il rispetto, non ho mica capito perché con una maggioranza di governo di centrodestra non si parli un giorno sì e l’altro pure dei saggi e dei romanzi di Louis-Ferdinand Céline. Che ha fatto pure un clamoroso errore con il pamphlet contro gli ebrei, è vero, ma resta un genio».
Caroli contro la cancel culture.
«Insulsa. Un autore è di valore anche se fa sbagli. E a destra dovrebbero guardare di più anche a Ezra Pound. Mi viene il sospetto che non ci sia tanta gente attrezzata per questo genere di cose, però. Non tutti, si intende. Qualcuno lo conosco anche io».
Cosa serve per una svolta?
«Persone illuminate. L’individuo è sempre fondamentale. Vedi per esempio cosa ha fatto Lucio Amelio per Napoli, facendola diventare un polo di arte contemporanea. A Torino finito l’agnellismo la città si è spenta culturalmente parlando. E si è sciupata pure la Juventus».
La città oggi più culturalmente vivace?
«Milano. Anche se le manca un museo d’arte contemporanea ed è abbastanza scandaloso».
Lei alla fine del liceo decise di dedicarsi all’arte e in particolare alla ricostruzione della linea introspettiva del pensiero occidentale.
«Confermo. Ebbi la fortuna di avere in classe a Ravenna teste pensanti che poi si sono distinte nella vita in ruoli di rilievo. Si chiacchierava di Freud e degli artisti del Cinquecento a scuola e fuori».
Poche feste e molte riflessioni?
«C’era il tempo per tutto. Da ragazzino ci fu un periodo che andavo anche due volte al giorno al cinema, per esempio. Ne ero incantato. Poi da adolescenti al cinema ci si andava in gruppo, con le ragazze».
Tornando all’Occidente: avendone studiato la storia artistica, in che stato di salute si trova ora?
«Sono decenni che siamo al tramonto eppure siamo ancora qui. Altrove progrediscono, è vero. In Cina c’è una tradizione artistica molto interessante, per esempio. Come pure in Giappone. Non so dirle dove andrà il mondo e nemmeno dove andrà l’arte, ma la storia insegna che i vinti potrebbero diventare vincitori, chissà».
È il tema del suo prossimo libro, in libreria a fine ottobre.
«Lorenzo Lotto, nella sua vita e in quattro secoli di storiografia, è stato un vinto. Nel manuale del mio esame di maturità era riassunto in breve. Lo accompagnavano solo aggettivi come anomalo, bizzarro, provinciale. Ho dedicato tanti scritti e tanto studio nel porre rimedio a questa ingiustizia. Si figuri che mentre dipingeva le tele della Santa Casa di Loreto, negli ultimi mesi della sua vita, gli facevano scrivere i numeri dei letti dei ricoverati».
L’Occidente produce arte o cultura ancora valida?
«Io sono felice di essere nato da questa parte del mondo, e pure di essere cresciuto in Italia. Un posto a sé da molti punti di vista. Anarchico, tutto sommato. Ammirato all’estero, fino al complesso di inferiorità di molti. Anche se si chiedono come facciamo noi, così cialtroni, a stare così bene. Non è un momento scintillante, questo bisogna dirlo. Ma negli anni Ottanta abbiamo brillato in tutto il mondo. Che cosa accadrà, non si sa».
Perché è così imprevedibile, come dice, la storia dell’arte?
«Prenda ad esempio la fine del movimento artistico dell’Informale. Tutti a interrogarsi su cosa sarebbe successo, a cercare di capire come quel linguaggio si sarebbe evoluto. Avevo 19 anni. Aprì la Biennale del 1964. Tutti ammutoliti, qualcuno addirittura disperato: era arrivata la Pop art. Il contrario delle previsioni. Il cambiamento avviene perché è l’artista stesso che non sa dove andrà. Fa arte perché non sa nulla di sé. Non comprende il senso del dolore e della sofferenza, e attraverso il pennello, o le note, o le immagini, è in continua ricerca e si esprime».
Una domanda di senso?
«Se ho speso la vita a dire che l’arte è per tutti e che occorrerebbe rimetterla al centro anche dell’insegnamento delle scuole è perché tutti hanno un cuore. E tutti quindi vivono nei misteri del cuore umano. Prenda ad esempio il tema del femminile, o della seduzione».
Più studio dell’arte, uguale meno violenza sulle donne?
«L’arte ha da sempre raccontato la gelosia in tutte le sue forme. Solo che l’ha sublimata. Un ossessionato dalla gelosia era per esempio Tolstoj. O Thomas Mann. Chi commette un delitto contro una donna lo fa per profondissima ignoranza e diseducazione. Esattamente l’assenza di cultura, di bellezza, di senso. Una deriva orribile».
Altri misteri del cuore che la affascinano?
«Il caos. Jackson Pollock fu il primo a darvi spazio e in un certo senso ad autorizzarlo. Nella stessa epoca in cui Einstein teorizzava la relatività. Non occorre sempre capire tutto, quando si ammira un quadro o quando si ascolta una canzone. Tocca il cuore, se è vera arte. Permette la conoscenza di sé. In forme più o meno sofisticate».
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Ezra Pound a Rapallo (Getty Images)
Un saggio ricostruisce i rapporti tra il poeta statunitense e i fascisti britannici di Oswald Mosley, traducendo per la prima volta gli articoli poundiani usciti sulle riviste inglesi.
L'Italia è sicuramente il Paese in cui, dopo l'America, sono state pubblicati più libri di e su Ezra Pound. C'è ovviamente una ragione legata alla biografia del poeta, che visse a lungo in Italia, produsse poesie e prose direttamente nella nostra lingua, strinse contatti con intellettuali e critici nostrani, oltre, ovviamente, ad aver lasciato il segno per le sue idee politiche, che l'hanno reso caro a tutta una comunità ideale che ha continuato a interessarsi alle sue idee anche quando questo non era di moda. Eppure, restano ancora testi inediti tutti da scoprire. È il caso, per esempio, della settantina di articoli che Pound pubblicò su riviste britanniche e di cui finora poco o nulla si sapeva da queste parti. A colmare il vuoto ci ha pensato il giornalista Fabrizio Vincenti, che per i tipi di Eclettica ha appena pubblicato Ezra Pound e il fascismo spiegato agli inglesi.
Il saggio – assieme a un corposo inquadramento storico-letterario di Vincenti – riproduce e traduce per la prima volta in italiano gli articoli di Pound usciti sulla stampa fascista inglese. In particolare parliamo dei testi scritti da Ezra Pound a Rapallo e pubblicati in Gran Bretagna nell’arco temporale che va dal 1935 al 1940 su tre diverse riviste. Si tratta di The British-Italian Bulletin, edito da L’Italia Nostra, settimanale della comunità italiana in Gran Bretagna, ma finanziato per il tramite dell’ambasciata dal ministero degli Esteri e con il quale Pound era entrato in contatto tramite Camillo Pellizzi, intellettuale e funzionario fascista, attivo sull’asse Roma-Londra; un’altra testata era il The Fascist Quarterly poi rinominato British Union Quarterly, il trimestrale di approfondimento della British Union of Fascists, ovvero il movimento fascista inglese guidato da Oswald Mosley. Infine, troviamo articoli pubblicati su Action, pubblicazione settimanale sempre legato alla Buf.
Scrive lo stesso Mosley nella sua autobiografia: «Ezra Pound l’ho incontrato quando avevo appena quarant’anni, e l’ho trovato esattamente il contrario di quello che m’aspettavo dal genio astruso della sua poesia, che tanto ha affascinato le giovani generazioni del periodo presente. Si presentava come una persona vivace, vivace e pratica, fece l’accorta osservazione che gli inglesi della mia classe in passato non erano mai vissuti sino ai quarant’anni».
In realtà, come ricorda Vincenti, i rapporti tra i due erano stati a lungo complicati. Ancora nel 1935, il poeta, dalle colonne del The New English Weekly, parlava delle «pagliacciate di Sir O. Mosley» e definiva i suoi militanti «fascisti travestiti». A guastare sul nascere i rapporti c’era stata la mancata pubblicazione in Inghilterra di Jefferson e/o Mussolini, principale pamphlet politico di Pound. I fascisti inglesi avevano inoltre pessimi rapporti con i fanatici del Credito sociale, l’eresia economica che Pound teneva in gran conto. Ma alla fine entrambi i problemi furono risolti. Scrive Vincenti: «I rapporti del poeta con il fascismo inglese, finirono comunque per svoltare definitivamente quando gli esponenti della Buf misero nero su bianco, proprio a Pound, l’accettazione dei cardini del Credito sociale. A quel punto, i principali motivi di dissenso erano venuti meno. Il campo era libero per provare prima ad annusarsi, poi ad avvicinarsi con passi sempre più rapidi».
Quanto agli articoli di Pound raccolti nel volume, è il solito Pound che scrive: un attivista febbrile, un genio un po’ ispirato e un po’ scombiccherato. Anche i temi sono quelli ben noti ai lettori del poeta corsivista: la difesa del fascismo italiano dalle critiche che, in Gran Bretagna, erano particolarmente insistenti, il tema onnipresente della lotta all’usura e della sovranità monetaria, l’affermazione di una certa idea di civiltà, di bellezza, di armonia. Alcuni passaggi infilati nel contesto di digressioni che non si sa dove vogliano andare a parare, come sempre accade con Pound, tolgono comunque il fiato per la capacità visionaria. In un articolo per esempio scrive: «La convinzione che «LO STATO DOVREBBE MUOVERSI COME UNA DANZA» non è semplicemente un raggio di luna poetico proiettato verso un futuro irraggiungibile. […] Esiste un’estetica nel movimento delle grandi masse umane. L'idea della danza in questi movimenti non è nuova. Ne sentiamo parlare, alcuni europei ne hanno visto tracce nei resti di culture perdute in Africa. E queste tracce non sono assolutamente barbare. Sono tracce di civiltà elevata ma in rovina. Così come la scultura del Benin o il telegrafo a tamburo sono tracce di qualcosa di rigoroso ed elaborato che ora non può più essere ricreato dai restanti custodi».
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