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Susanna Tamaro (Imagoeconomica)
Per Susanna Tamaro, «il patriarcato non c’entra nulla: è stata la demolizione della virilità a rendere gli uomini fragili e quindi più aggressivi. Ne risentono anche le donne, che sono meno protette. La rieducazione a scuola? Una pessima idea».
Susanna Tamaro ha appena pubblicato due libri di grande interesse: Il vento soffia dove vuole (Solferino), cioè una grande storia di amore con varie declinazioni, e Tutti abbiamo una stella, romanzo per ragazzi molto particolare, figlio anche del rapporto profondo dell’autrice con le arti marziali. Ho incontrato la celebre scrittrice per una puntata di Ztl, programma in onda tutti i giorni su Giornale Radio (sul cui sito si trova la registrazione integrale della conversazione).
Perché secondo lei facciamo così tanta fatica a trovare una quadra nei rapporti fra uomini e donne, che in questi giorni sono al centro di un grande dibattito?
«Perché le cose sono cambiate dagli anni Sessanta e Settanta, in maniera drammatica. Si sono squilibrate le relazioni e le dinamiche energetiche tra maschile e femminile. Lo dico perché io ho una visione profondamente taoista della realtà: se una delle due polarità va fuori fase, va fuori fase anche l’altra. C’è poco da fare, questa è una cosa quasi matematica, direi».
Si può dire che lei questo cambiamento lo abbia attraversato tutto.
«Sono cresciuta negli anni Settanta, all’inizio di questo cambiamento, e ho visto la progressiva distruzione della figura maschile, che è stata un lavoro lento e preciso, e che ha trovato pochi critici. Adesso le ragazze sono tutte sole, non ci sono relazioni di scambio, perché la diversità ormai è immensa tra maschi e femmine. Soprattutto i maschi vivono una perdita di dialogo, di parole, di conoscenza di sé e dunque di relazione con l’altro, in questo caso la donna. E questo è il primo grande vuoto nell’educazione maschile».
In tanti, persino il ministro di un governo che si vuole conservatore di destra, parlano di rieducare i ragazzi a scuola, soprattutto i maschi. Lei che ne pensa?
«I ragazzi sono molto deboli in questo momento, e sono aggressivi perché sono deboli: l’uomo impaurito diventa aggressivo. Io penso che siano una pessima idea i corsi di educazione e di rieducazione, perché la scuola deve insegnare altre cose. L’educazione dovrebbe venire dalla famiglia e dall’ambiente sociale intorno al ragazzo. Ma in un mondo che ha annullato qualsiasi valore, qualsiasi sforzo, qualsiasi senso del limite, è impossibile pensare che i ragazzi crescano in maniera sana. Molti sono depressi, molti problematici, perché intorno c’è il vuoto, e hanno ragione a essere arrabbiati, perché la società gli ha servito un piatto di pessima qualità, veramente di pessima qualità. Madri iperprotettive, padri assenti… Un bambino ha bisogno di sfide, ha bisogno di avere coraggio, ha bisogno di avere modelli positivi. E che modelli, oltre al videogioco, abbiamo visto negli ultimi 30 anni? Soltanto criminali, basta guardare le serie tv. Abbiamo fornito qualche modello positivo? No, e allora è inutile stracciarsi le vesti e fare corsi di educazione quando per 30 anni siamo stati totalmente zitti su questa questione».
Insomma i danni ormai sono fatti.
«Adesso è inutile piangere perché il latte è versato. L’amore richiede forza, e ci siamo dimenticati questo momento fondamentale della vita umana: se io ti voglio bene e ti educo, devo essere forte, devo anche sapermi far dire “ti odio”. Bisogna dare dei limiti, indicare con decisione una strada da percorrere quando si educa una persona. Non si può lasciarla brada, perché brada arriva la disperazione. E c’è una cosa che veramente mi colpisce…»
Cosa?
«Che si dimentica sempre la storia evolutiva. Sembra che siamo solo intenzioni, solo politica, ma in realtà abbiamo una storia lunga alle spalle e questa storia è ancora dentro di noi. Dunque se anche ci siamo separati anni fa dalle scimmie antropomorfe, la scimmia antropomorfa è dentro di noi. E se togliamo la parola perché non sappiamo più usarla, se togliamo l’idea che il mondo abbia un’anima e che siamo una realtà più complessa di quella potente animale, che cosa emerge?».
Che cosa?
«La scimmia. Perché la scimmia ha dei comportamenti che sono anche molto aggressivi nelle femmine, nei maschi eccetera. La scimmia non parla, non sa leggere la poesia… Si potrebbe dire che siamo nel tempo della scimmietà perché il nichilismo ha portato al riemergere delle scimmie».
Si discute molto del patriarcato, del fatto che ci sia una dominazione maschile ancora forte. È così?
«Secondo me così si va fuori strada, perché il patriarcato c’è in moltissime parti del mondo, ma non nel nostro mondo. Noi siamo le donne più fortunate della Terra perché abbiamo una situazione, rispetto alle altre, di grande libertà. Naturalmente l’uomo è più forte fisicamente, tende a prevalere, tende in caso di mancanza di parole a sopraffare la donna: questo è un problema che ci sarà sempre. L’uomo dovrebbe essere protettivo nei confronti della donna e invece è possessivo, e dalla possessività nascono tutte le patologie. Questo è lo squilibrio tra maschile e femminile: se l’uomo non è protettivo ma è possessivo, anche la donna non si sente protetta perché, nella realtà evolutiva, il maschio protegge la femmina perché è la femmina che gli dà la discendenza, che in natura è la cosa più importante».
Lei è una grande esperta di arti marziali. Il taoismo che ha citato prima pervade il kung fu. La nostra società tende a cancellare il contatto fisico, eppure forse le arti marziali potrebbero davvero fornire soluzioni educative utili.
«Certamente. I bambini maschi una volta andavano in cortile e litigavano con gli altri, e si stabilivano gerarchie, si faceva una vita sociale, di relazione. Adesso sono tutti figli unici, per lo più isolati e dunque non hanno mai modo di mettere alla prova la loro aggressività, la loro voglia di combattere, di sfidare. Hanno un interlocutore elettronico: quella è un’energia che addirittura abbassa il testosterone, potremmo dire che ti fa perire dentro. Le arti marziali sarebbero fondamentali perché sono una grande scuola, se proposte bene naturalmente. Sono una grande fonte di educazione a superare il limite, a esercitare il coraggio e anche la nobiltà d’animo, che è una cosa di cui non parla mai nessuno. Ne abbiamo bisogno, ci manca tantissimo la nobiltà d’animo: un cavaliere è nobile d’animo, l’uomo maschio dovrebbe aspirare a questa dimensione, non certo a quella del camorrista».
Ma davvero è possibile ottenere qualcosa di simile nel mondo di oggi?
«Io ho scritto nel 1995 un libro per bambini che si intitolava Cerchio magico, in cui c’era un orco che prendeva il potere e cantava una canzoncina che diceva: “Un mondo pulito, obbediente, pancia piena e in testa niente”. Questo è ciò che si è realizzato da allora. Nessuno ha detto un attimo “fermiamoci, ragioniamo”… Siamo andati molto in là, troppo in là. Non saranno né i buoni sentimenti né le buone intenzioni a cambiare questa situazione. Abbiamo totalmente perso la consapevolezza del fatto che il mistero dell’iniquità appartiene alla nostra vita. Non siamo angeli, non siamo creature incorporee. Abbiamo questo seme dentro di noi, chi più chi meno, che può esplodere in qualsiasi momento. E meno contenimento sociale c’è, più facilmente esplode».
Abbiamo parlato tanto dei maschi. E le ragazze?
«Cambiano, e mi sembra che siano molto più prigioniere di modelli rispetto a quanto lo fossimo noi negli anni Settanta. Allora se tu eri un po’ grassa, non importava nulla. La parte esteriore era molto relativa, era importante la parte interiore. Adesso sono sottoposte a una pressione fin dalle scuole primarie per essere quello che devono essere, che la società vuole che siano. E questa è un’angoscia terribile, porta a disperazioni assolute, perché se tu manchi in qualcosa delle cose richieste, sei pronto a suicidarti, perché non hai raggiunto il modello di perfezione richiesta. Questa è una violenza terribile verso le bambine e le ragazze. E sono anche molto sole, perché non trovano facilmente fidanzati, spasimanti: c’è un muro tra maschi e femmine. Ovviamente ci sono le eccezioni, ma in media le figlie delle mie amiche sono single, sono sole, non hanno interlocutori sentimentali, diciamo così».
Forse il punto è proprio questo, no? Siamo dentro un sistema che, al di là dei discorsi sulla tirannia del sesso maschile o sulla mascolinizzazione delle donne, ci porta alla solitudine e all’isolamento.
«Certo, perché l’era dello squalene, come la definisco io - cioè l’era della finanza che si è mangiata l’economia - vuole che siamo soli, isolati, perché per i predatori, quando sei solo, è più facile mangiarti. Dunque è una solitudine cercata, voluta, dal mondo “pulito e obbediente, pancia piena e in testa niente”. Tra un po’ in realtà non avremo nemmeno più la pancia piena. Io ho parlato per 30 anni di queste cose, ma nessuno mi ha mai dato il minimo ascolto. Si sarebbe potuto fare qualcosa 30 anni fa, dire “fermiamoci”, informare i genitori ecc. Non è stato fatto, è stato lasciato tutto andare e il danno adesso è molto importante».
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Riduci
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La severità eccessiva degli antichi precettori formava persone frustrate, disposte a eseguire qualsiasi ordine venisse loro impartito. Ma oggi la tolleranza verso ogni capriccio crea squilibrati, incapaci anche solo di immaginare un’alternativa al potere dominante.
I genitori che troppo accarezzano i figli non li educano alla virtù. Proverbio desueto, appartenuto a epoche passate, riportato solo su almanacchi talmente antichi che ancora vi compare la antiquata parola virtù.
I bambini sono passati dalla catastrofica pedagogia nera alla ancora più catastrofica assenza di linee direttive, che potremmo riassumere nel neologismo apedagogia postsessantottina. Il principio guida della pedagogia nera, il cui massimo esponente fu il medico tedesco Schreber, era la intrinseca cattiveria del bambino, che doveva quindi essere educato all’obbedienza assoluta, al totale controllo degli impulsi, e reso adulto precocemente. Era vietato prendere in braccio i bambini, le donne dovevano allattare chine sulle culle, era vietato rispondere al pianto, i bambini erano duramente puniti alla minima infrazione e dai sei mesi di vita in poi era obbligatorio lavarli solo con acqua fredda, anche in inverno. Per addestrarli alla verità e all’obbedienza era consigliato di lasciarli soli a lungo con una ciotola piena di qualcosa di piccolo, ciliegie, caramelle o qualcosa di simile. Poi l’esaminatore rientrava nella stanza e chiedeva con aria arcigna se il bambino aveva mangiato qualcosa. Le ciliegie o caramelle erano state accuratamente contate. Se il bambino aveva ceduto e aveva poi avuto l’ardire di mentire, come in effetti sarebbe istintivo davanti all’aria arcigna dell’esaminatore, era punito fino allo sfinimento. Questo rendeva il bambino assolutamente ligio al dovere e all’esecuzione di ordini, a volte incapace di menzogna, e privo di empatia. La incapacità a mentire è un sintomo importante spesso legato a mancanza di empatia. L’empatia si forma con maggiore difficoltà dove il bambino non abbia avuto in diritto di essere compreso. Si tratta di persone che vivevano con pesanti linee direttive ed erano linee disegnate da altri.
La apedagogia postsessantottina afferma la intrinseca bontà del bambino che deve quindi essere lasciato totalmente libero, affidato ai suoi impulsi e inchiodato a un’infanzia cronica che dura fino a 45 anni per poi trasformarsi in adolescenza permanente. La pedagogia nera ha creato individui frustrati e incapaci di empatia, la apedagogia crea disturbi borderline di personalità, ulteriormente peggiorati dall’uso abituale della cannabis. Il disturbo borderline di personalità è attualmente considerato normale, al punto tale che vengono serenamente mostrate le cosiddette crisi pantoclastiche, accessi di collera durante i quali si spacca tutto, tipiche di questo disturbo. I Måneskin che spaccano i loro strumenti e il tizio che prende a calci i fiori sul palco di Sanremo mostrano, vera o simulata che sia, una crisi da disturbo borderline di personalità. Il disequilibrio, anche se non necessariamente grave fino al disturbo borderline di personalità, è una situazione favorevole per un essere umano che debba vivere senza: senza lavoro, senza coniugi, senza famiglia, senza casa né auto (ma potrebbero avere un monopattino), senza nazione, senza identità, senza religione, senza emettere emissioni, soprattutto senza figli che emetterebbero emissioni, per cui pillola e aborto sono gratis, senza creare disturbo.
Le terrificanti dittature del secolo precedente avevano bisogno di frustrati esecutori di ordini disfunzionali. Le terrificanti dittature odierne necessitano di persone in disequilibrio permanente che diventano esecutori di ordini disfunzionali. Si intende per ordine disfunzionale un ordine che è contro l’interesse dell’individuo e della sua etica, uccidi gli armeni, distruggi la chiesa dei tuoi avi e poi porta tuo padre in un gulag, uccidi gli ebrei, prendi Stalingrado e poi resta lì a morire, chiuditi in casa per il terrore di una malattia curabile con lo 0,2% di mortalità, caccia dal lavoro chi rifiuta una terapia genica sperimentale e auguragli di diventare poltiglia verde. Questo è difficile da capire, sicuramente contro intuitivo. Tutti abbiamo l’impressione che sia più facile dare ordini, soprattutto se si tratta di ordini che sono contro la loro etica e contro il loro interesse, a persone inquadrate e coperte, cronicamente in assetto militare, piuttosto che a variopinti fricchettoni sempre un po’ strafatti di cannabis o pornografia. E invece la cosiddetta pandemia e la sua incredibile gestione, tutta la problematica gender e quella climatica, la guerra in Ucraina, dimostrano come sia enormemente facile dare a persone destrutturate ordini contro il loro interesse e contro l’etica.
Lo intuisce e lo spiega Lucien Cerise nel libro Gouverner par le chaos, governare attraverso il caos, prezioso testo sull’ingegneria sociale e la mondializzazione. L’ingegneria sociale è sempre una violentissima forma di sovversione sociale. La società si forma spontaneamente, adattandosi alla necessità, creata dalla somma delle azioni di tutti gli uomini, ognuno unico e irripetibile. L’ingegneria sociale desidera sterminare questa struttura spontanea e sostituirla con una struttura «ideale», secondo un ideale che appartiene alle élite e che per la gente sarà una dannazione. L’ingegnerizzazione sociale ha diversi passaggi che Cerise spiega molto accuratamente, e deve obbligatoriamente cominciare creando una situazione di urgenza assoluta, così da destabilizzare la popolazione e impedire qualsiasi dubbio e discussione. La pandemia è stata un’emergenza, l’emergenza climatica è appunto chiamata emergenza, chiunque faccia sprecare tempo ed energia in dubbi, richieste di chiarimenti, osservazioni su irrazionalità, contraddizioni e scempiaggini diventa un nemico del popolo e della sopravvivenza del pianeta. Il gender è un’emergenza permanente, basata sulla spaventosa supposta fragilità delle persone con orientamento non fisiologico e con l’idea di avere un’identità sessuale varia e cangiante, che potrebbero crollare in una depressione senza speranza e scivolare verso il suicidio se usiamo il pronome sbagliato, le parole uomo e donna, le parole padre e madre, se diciamo che ci piace Dante, che ci dà la nausea la gravidanza per altri e che non vogliamo finanziare i Pride dove la nostra religione è ingiuriata. C’è quindi un obbligo di dissociazione dalla realtà, per emergenza psicologica permanente. Le dittature, quelle di acciaio del secolo precedente e quelle fluide e glitterate attuali, hanno bisogno di pedagogie ad hoc per creare i loro servi ideali.
Per allevare i figli occorre quindi amore e severità. Un genitore amorevole e severo non è un ossimoro, ma un pleonasmo. Un genitore che ami i suoi figli, deve porre limiti e soprattutto deve porgere ostacoli da superare, perché solo superando gli ostacoli si forma il senso del proprio valore. È soprattutto il padre che ha questo compito e quindi per creare un popolo di servi perfetti della destrutturazione occorre abbattere i padri. Il peggior rappresentante dell’odio al padre è stato Marcello Bernardi, che vedeva nella famiglia una cellula dell’odiato patriarcato con il padre che rappresentava il capitale e la madre e figli che rappresentavano il proletariato in lotta permanente. Un genitore deve dare amore senza condizioni, amiamo i nostri figli anche quando disubbidiscono o combinano guai, ma amare i nostri figli non impedisce di pretendere che il letto sia rifatto al momento di andare a scuola e che i voti di scuola non scendano sotto la decenza e la sufficienza, perché altrimenti il messaggio inconscio che trasmettiamo è «tanto non sei capace», una perdita totale di fede in sé stessi.
Parlano di come allevare i figli innumerevoli libri. Tra i molti ho amato molto Il bambino capovolto, di Giampaolo Nicolais e Non avere paura mamma, di Rachele Sagramoso. Giampaolo Nicolais è un docente di Psicologia dello sviluppo che ha scritto un dolente saggio dove parla della tristezza delle nostre strade dove ci sono sempre più cani e sempre meno bambini, dell’orrore della cosiddetta maternità surrogata, dell’importanza per un bambino di avere amore e protezione, e qualcuno che abbia il coraggio di indicare la strada, porre limiti e ostacoli da superare, perché solo così possiamo imparare la forza, e che l’etica è una forma di amore. Rachele Sagramoso, ostetrica, scrive un libro pieno di scienza e tenerezza, dove alterna linee teoriche sul processo educativo ad aneddoti dei suoi sette figli o dei bambini delle amiche, di bambini veri, cioè, fatti di gambe, braccia, affetto, e capricci. Non avere paura mamma, e non abbiate paura bimbi. La vita è un’avventura straordinaria e le porte degli inferi non prevarranno. Il gran reset fallirà. Sconfiggeremo il caos.
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Riduci
Susanna Tamaro (Imagoeconomica)
La scrittrice, che ha fatto il concorso da docente elementare, boccia l’istruzione 4.0: «I bambini disimparano a pensare, inoltre da un lato sono spinti a performare e dall’altro sono trattati come “fragili” da tutelare. L’ideologia al potere uccide la fantasia».
Da un po’ di tempo, Susanna Tamaro ha preso l’abitudine di veleggiare in direzione contraria rispetto al vento del pensiero prevalente. Nei giorni scorsi, mentre i più s’affannavano a spiegare perché non si dovrebbe temere la digitalizzazione della scuola, la nota scrittrice ha pubblicato sul Corriere della Sera un duro articolo contro la «Scuola 4.0» che verrà sostenuta tramite abbondanti finanziamenti del Pnrr. Una rivoluzione a cui la Tamaro proprio non intende arrendersi. «Io nasco come maestra elementare», ci racconta. «Ho fatto anche il concorso, l’ultimo negli anni Ottanta. Mi sono sempre interessata alle scuole, soprattutto le primarie. E poi scrivo da tempo libri per bambini tra gli 8 e i 12 anni. Ho un rapporto costante con la scuola da tanti anni».
E questa versione 4.0 non le piace affatto.
«No».
Che cosa non va nella scuola di oggi?
«Intanto il fatto che si è polverizzata la capacità di pensare dei bambini, a partire dai più piccoli. Noi, a scuola, scrivevamo i pensierini, e come maestra elementare - alle vecchie magistrali - io ho imparato a farli fare ai bambini. Poi al posto dei pensierini sono arrivate le crocette, e i puntini, e i questionari da compilare. In questo modo il pensiero complesso non si può formare, perché la vita non è fatta di crocette o di puntini da riempire. I danni, in ogni caso, cominciano proprio dalle basi».
Cioè?
«La scuola elementare e le medie sono state in qualche modo “liceizzate”, togliendo così la possibilità di imparare bene i fondamenti. Si insegnano cose molto complesse, ma si dovrebbe insegnare meglio le cose semplici: lavorare sui fondamenti, che si imparano con la ripetizione e l’esercizio».
Vero. Però oggi le famiglie pretendono tantissimo dalla scuola, la caricano di aspettative, e forse scaricano su di essa il compito educativo che spetterebbe a loro.
«Sicuramente. Una volta c’era una alleanza tra scuola e famiglia, mentre oggi sembra che ci sia uno scarico di responsabilità, e questo è un segno di grande fragilità. A me non piace affatto l’idea della scuola azienda, in cui non si insegnano più le basi ma si debbono fare le cose più interessanti, più stimolanti… Non ha senso: le cose stimolanti si faranno poi. Alle scuole primarie bisogna mettere le fondamenta, con l’esercizio. Non si fa più, e i risultati sono drammatici».
Forse dipende anche dal fatto che la scuola ha assunto, nel corso dei decenni, un carattere sempre più «materno», anche perché le insegnante - specie alle primarie - sono quasi tutte donne.
«Certo, ma non solo. Ci sono molte donne, ma c’è anche un continuo cambiamento di maestre. Se tu a 7 anni cambi una maestra all’anno, o due volte in un anno, hai a che fare con didattiche differenti, non riesci ad assorbire il sapere con continuità».
A rendere ancora più complicata la situazione c’è il fatto che oggi molti bambini e bambine sono, come si dice, «certificati». Hanno disturbi dell’attenzione, dell’apprendimento…
«Sì, e purtroppo non si va a indagare fino in fondo su che cosa ci sia dietro a questi disturbi, che talvolta si certificano con troppa velocità. In passato gli insegnanti avevano anche la possibilità di agire con una certa autorità, mentre oggi appaiono quasi del tutto impotenti, anche volendo agire con decisione in alcune situazioni non lo possono fare».
Da che cosa dipende secondo lei questo eccesso di certificazioni? È un tentativo di controllo, in qualche modo biopolitico?
«Da un lato c’è l’idea di cristallizzare la vita. Tu non sei più tu: sei il tuo disturbo, e il disturbo va curato. L’essere umano, in questa concezione, nasce già come potenziale malato. Poi c’è l’incapacità di capire la diversità umana, perché tra i bambini ci sono quelli timidi, quelli aggressivi, c’è di tutto. La diversità non è necessariamente malattia. Un tempo c’erano attività che consentivano di incanalare le energie, anche quelle in eccesso, aiutavano gli insegnanti a gestire la situazione. Erano piccole cose, come cantare in coro, che non si fanno più».
Si preferisce certificare chi è troppo, diciamo, esuberante. Si esita a porre limiti perché si teme di urtare, di offendere.
«Sì ma dobbiamo ricordarci che i bambini provano un grande piacere nell’imparare le cose, anche nella graduale difficoltà dell’apprendimento. E questo piacere così lo togliamo. Se non ci sono ostacoli con cui mettersi alla prova, la vita diventa disperazione, si genera smarrimento».
Non sembra che la scuola 4.0 disegnata dalle linee di investimento previste dal Pnrr possa migliorare la situazione, anzi. Lei l’ha molto criticata, a partire dai termini con cui si presenta.
«In quel piano c’è una terminologia impressionante per la complessità farraginosa che mostra. È pieno di inglesismi, di parole perfino ridicole. In ogni caso, mi lascia perplessa questa insistenza sulla digitalizzazione».
Perché?
«All’asilo e alle primarie, come dicevo, bisogna avere l’educazione di base dell’essere umano. Quella poi renderà capaci di avere a che fare meglio, eventualmente, con la tecnologia. Ma se cominciamo a fare ai bambini questo lavaggio fin da piccolissimi, temo che cresceranno in maniera totalmente acritica, cosa molto grave per una civiltà. Ci sono poi danni collaterali della tecnologia in eccesso. I bambini hanno totalmente perso la fisicità: a 8 o 10 anni non sanno correre, sono obesi, malati, hanno paura di fare qualsiasi cosa di un po’ impegnativo».
Dobbiamo aggiungere le conseguenze della reclusione e della didattica a distanza.
«La dad è stata catastrofica, i bambini non hanno imparato niente, ma hanno sofferto tantissimo. Se fossi stata ministro dell’Istruzione, subito dopo il lockdown, avrei per prima cosa spedito i bambini fuori a giocare per i successivi tre mesi. Si sarebbe recuperato il tempo perduto l’anno dopo, e forse si sarebbe riusciti a compensare la reclusione. Parlando con tanti insegnanti mi dicono che invece oggi ci sono moltissimi problemi, ci sono classi ingestibili dopo il rientro a scuola, bambini che non stanno seduti, non si concentrano…».
In compenso spesso si pretende che nella scuola entri il cosiddetto impegno sociale. Che si parli di fluidità di genere, o di rivoluzione green…
«La scuola sta diventando una palestra ideologica e anche questa idea del 4.0 fa parte dell’ideologia. E l’ideologia è la fine della fantasia, della creatività, della vita… Il fatto che nella scuola sia entrata la melassa buonista è stato deleterio».
Ne parlavamo prima: nella società del trauma non bisogna offendere.
«Ma il bambino è pieno di istinti negativi, come ogni essere umano. Crescendo deve imparare a conoscerli e dominarli, serve per vivere con gli altri. Tutto questo è stato cancellato. L’idea che ci sia un lavoro da fare su sé stessi è stata ridicolizzata dal buonismo, da questa melassa spalmata ovunque. Poiché abbiamo perso il senso della vita, temiamo che la minima difficoltà tarperà per sempre le ali ai bambini. Ma non funziona così: l’essere umano è fortissimo, ha risorse interiori pazzesche. Non si può evitare il trauma, tutta la vita è trauma, a partire dalla nascita. Ma siamo fatti per superare i traumi. E dobbiamo sapere che nella vita esiste anche il male, la sventura, la guerra».
Da un lato si vuole appunto evitare il trauma e si creano i piccoli «fiocchi di neve». Dall’altro però si impone da subito una sorta di competizione, si richiede la prestazione. Sembrano due facce della stessa medaglia.
«Sì, c’è anche questo aspetto. Si insiste sul fatto che devi essere molto performante, devi fare il massimo, che devi essere già pronto fin da piccolo ad entrare nella vita. È l’altro lato del discorso che facevamo, ed è molto triste. Senza considerare poi quel che ciò che comporta per gli insegnanti, per cui ormai il lavoro è H24. Basti pensare alle chat con i genitori a cui si deve rispondere a ogni ora…».
A proposito di cellulari, il ministro Valditara ha diffuso una circolare - pur blanda - per impedire che siano usati in classe. Lei che ne pensa?
«Mi sembra sacrosanto. Apprendere richiede attenzione: se l’attenzione non c’è non si impara nulla. Io sono anche una insegnante di arti marziali, da tanti anni. La pratica mi ha insegnato che se non c’è la ripetizione non si apprende. L’attenzione e la fatica sono il fondamento dell’imparare».
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