Confesso di non capire perché in Italia ci si indigni tanto per le parole di Donald Trump e Elon Musk sull’Unione europea. Può non piacere che il presidente americano parli della fine della civiltà del vecchio continente.
E possono sembrare sopra le righe le frasi del padrone di Tesla a proposito un presunto quarto Reich, ovvero di un regime che limita le libertà. Tuttavia, a prescindere dal gradimento che possono suscitare le dichiarazioni provocatorie dei due, è abbastanza evidente che la Ue e in generale l’economia europea rischiano di fare una brutta fine. Un tempo i Paesi europei erano non soltanto la culla della civiltà, ma soprattutto il cuore dell’industria, della finanza e dell’innovazione. Da parecchio il baricentro si è però spostato ad ovest, in America, tant’è che nel vecchio continente dall’inizio del nuovo millennio non è sorto quasi nulla e, soprattutto, non ci sono invenzioni che possano lasciar pensare a un cambiamento del modello produttivo.
E quando non sono gli Stati Uniti a battezzare gli unicorni, ovvero le start up che in breve conquistano il mercato, ci sono la Cina e i Paesi dell’Est asiatico. Dunque, perché scandalizzarci se qualcuno parla di declino dell’Unione e critica il nostro modello economico e le nostre politiche?
Trump e Musk certo non sono campioni di simpatia e probabilmente anche per il modo in cui si esprimono suscitano reazioni avverse. Ma nei fatti anche altri, che non possono essere considerati pregiudizialmente contrari alla Ue, dicono le stesse cose. Prendete Jamie Dimon, ovvero il gran capo di Jp Morgan, amministratore delegato di una banca d’affari che da sempre lavora con i governi occidentali. Sabato sera al Reagan National Defense Forum ha messo in guardia l’Unione europea dicendo che ha «un vero problema»” e spiegando che sta «allontanando le imprese, gli investimenti e l’innovazione». Un’improvvisa pugnalata alla schiena? No, la conferma di un giudizio che era già stato espresso con la lettera agli azionisti di inizio 2025, quando Dimon aveva parlato di «una serie di problemi da risolvere». Il capo di Jp Morgan potrebbe essere ritenuto un inguaribile pessimista a proposito del futuro che attende l’Europa. Ma a sorpresa anche Jim Farley, amministratore delegato della Ford Motor Company, esprime giudizi non proprio lusinghieri a proposito della leadership Europa. In un intervento pubblicato dal Financial Times il numero uno del colosso automobilistico americano sostiene che l’Europa sta mettendo a rischio il futuro della propria industria automobilistica. Niente di nuovo, a dire il vero, dato che dubbi sulle scelte della Ue a proposito del settore li esprimiamo pure noi da anni. Ma Farley non è un opinionista, bensì il rappresentante di uno dei grandi player di quella che per anni è stata la principale catena di montaggio industriale del mondo. L’auto ha fatto girare l’economia e attorno alle quattro ruote è stata costruita la crescita. Se all’improvviso i veicoli europei inchiodano e il settore rischia di uscire di strada per effetto di alcune scelte politiche è evidente che i contraccolpi potrebbero essere devastanti.
Qualcuno potrebbe osservare che sia Dimon che Farley sono americani e dunque rappresentano il mondo che ha espresso sia Trump che Musk. Eppure a pensarla così non sono soltanto i banchieri e gli industriali a stelle e strisce, ma anche gli amministratori delegati delle principali industrie europee. Secondo un’indagine citata dalla britannica Reuters fra i numeri uno dei colossi del vecchio continente, fra i quali aziende come Basf, Vodafone e Asml, gli Stati Uniti sono assolutamente preferibili per fare investimenti rispetto alla Ue. Le motivazioni della scelta non sono politiche ma economiche: il 45% crede che puntare sugli Usa garantisca migliori ritorni rispetto alla Ue e il 38% ha dichiarato che in Europa investirà meno di quanto pianificato appena sei mesi prima. In altre parole, i vertici delle principali imprese europee non hanno fiducia nell’Unione.
A questo punto si può prendersela finché si vuole con i discorsi irridenti di Trump e pure con i giudizi sarcastici di Musk, ma se i protagonisti di banche e imprese, americane e comunitarie, dicono che a Bruxelles qualche cosa non va, forse dovremmo fare una riflessione. Soprattutto dopo aver dato uno sguardo alla bilancia commerciale europea, da cui risulta che il nostro import dalla Cina continua ad aumentare. Dopo l’introduzione dei dazi voluti da Trump, Pechino ha visto calare drasticamente le esportazioni verso gli Usa ma ha compensato abbondantemente con quelle verso la Ue. In pratica, noi siamo sempre più dipendenti dalla Repubblica popolare cinese, il che non è esattamente un bel segnale, visto che il Dragone non è un ente di beneficienza ma un Paese governato da una dittatura post comunista. Secondo Massimo D’Alema intrattenere rapporti con Xi Jinping è utile, ma se va bene a un tizio che dalla difesa del proletariato è passato senza soluzione di continuità al settore difesa e armamenti, occupandosi di piazzare corvette e caccia a Paesi non proprio democratici, c’è qualche cosa che non va. E i primi a doversi preoccupare non sono Trump o Musk ma noi.




