Un dibattito democratico ad alto grado di rissosità. Rispetto alla noia soporifera del confronto di mercoledì sera, quello di stanotte è risultato decisamente più movimentato, con i dieci candidati sul palco che hanno alla fine esemplificato l'autentica situazione in seno all'Asinello: litigiosità allo stato puro, condita da manie di protagonismo e da una certa ipocrisia. La seconda serata è stata quella dei big: e questo ha determinato non poca attesa in casa democratica. I vari candidati si sono concentrati per smontare quanto fatto da Bernie Sanders e Joe Biden. Entrambi dell'Asinello.
Se il dibattito di giovedì avrebbe infatti dovuto individuare un candidato realmente in grado di confrontarsi con Trump alle presidenziali del 2020, ebbene le speranze sono andate deluse. Non solo il Partito democratico è apparso infatti più diviso che mai. Ma i dem hanno mostrato, ancora una volta, un vero e proprio scollamento dalle questioni realmente rilevanti di questa campagna elettorale, concedendosi non di rado momenti di pura demagogia.
A riprova di questo stato di cose, stanno i frequenti attacchi che i vari candidati hanno man mano mosso contro i due grandi vecchi dell'Asinello, Bernie Sanders e Joe Biden. Se il senatore socialista del Vermont è finito sotto attacco per alcune sue proposte programmatiche giudicate troppo radicali (soprattutto in materia economica e sanitaria), molto peggio se l'è vista l'ex vicepresidente americano. In generale, l'attuale front runner si è mostrato abbastanza sfibrato, a tratti confuso. Una manifestazione di debolezza che ha aizzato i suoi rivali. Rivali che, una volta annusato l' "odore del sangue", ne hanno approfittato per andare all'attacco: senza troppa pietà. Ad aprire le danze contro Biden è stato il deputato californiano Eric Swalwell, che ha tirato in ballo molto presto la questione generazionale, affermando che l'ex vicepresidente dovrebbe "passare il testimone". Se in quel frangente, Biden se l'è cavata con una battuta, la situazione per lui è decisamente peggiorata nel prosieguo del dibattito.
La senatrice della California, Kamala Harris, ha progressivamente preso di mira l'ex vicepresidente, mettendolo al centro di una dura requisitoria. Si tratta, del resto, di un'attività particolarmente congeniale alla senatrice. Pasionaria delle galassie liberal, si è già fatta notare nei mesi scorsi per il duro ostruzionismo condotto contro la nomina del giudice conservatore Brett Kavanaugh alla Corte Suprema. In un primo momento, la Harris ha dichiarato il suo disaccordo con l'amministrazione Obama, colpevole - secondo lei - di aver rimpatriato un numero eccessivo di immigrati clandestini. Ciononostante l'attacco vero e proprio è stato sferrato poco dopo, quando - con piglio inquisitoriale, la senatrice ha contestato a Biden i suoi recenti commenti di simpatia verso due senatori segregazionisti del passato, oltre alla sua opposizione - negli anni Settanta - alla politica del "busing": una strategia per combattere il segregazionismo nelle scuole, che prevedeva l'impiego degli autobus per far sì che gli studenti afroamericani uscissero dai ghetti in cui erano stati relegati. La Harris ha incalzato spietatamente l'ex vicepresidente che, davanti a un simile attacco diretto (e molto melodrammatico), non ha saputo reagire adeguatamente. Ha abbassato lo sguardo, ha balbettato, per poi fornire una risposta che è parsa più un'arrampicata sugli specchi che una difesa energica. La Harris, che è abituata ai processi mediatici, non ha mollato la presa, assestando un colpo di immagine di non poco conto all'ex vicepresidente. Se fino ad allora Biden era riuscito tutto sommato a evitare polemiche troppo dure, il "siparietto" con la senatrice è risultato un momento significativamente negativo per lui. Un momento che potrebbe produrre conseguenze elettorali di un certo peso. Infine ci si è messo pure Sanders: se i due big avevano inizialmente evitato i duelli diretti, a un certo punto il senatore del Vermont ne ha approfittato per rinfacciare a Biden di aver votato, nel 2002, a favore della guerra in Iraq. Un argomento che il candidato socialista era soluto usare, tre anni fa, anche contro Hillary Clinton.
Sanders, dal canto suo, ha dovuto maggiormente difendersi da accuse di natura politica, evitando di ricevere attacchi personali. Se, in generale, è apparso più in forma e - in definitiva - più battagliero di Biden, il senatore del Vermont si è trovato spesso sotto assedio, mostrando anche una certa ripetitività nel messaggio. Molto (forse troppo) simile al Sanders del 2016, l'arzillo socialista deve sbrigarsi a trovare una chiave nuova, se vuole sperare di emergere dalla rissosa pletora dei rivali e intestarsi – ancora una volta – il ruolo di rappresentante della sinistra. Un ruolo cui ambiscono numerosi competitor: dalla stessa Kamala Harris alla senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, protagonista del dibattito di mercoledì sera. Più difficile è capire se possa nutrire effettive speranze di imporsi il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg: un tempo forte nei sondaggi, è finito recentemente al centro della bufera per l'uccisione di un afroamericano dalla polizia della sua città. Un problema per cui è stato messo sotto accusa anche durante il dibattito di stanotte, soprattutto da Swalwell e dall'ex governatore del Colorado, John Hickenlooper.
A livello generale, il Partito democratico si è mostrato debole su alcuni punti chiave. Esattamente come accaduto nella prima sera, anche nella seconda i candidati si sono spesso lasciati imbrigliare dal politicamente corretto, avanzando proposte strampalate e del tutto avulse dalle esigenze socioeconomiche di alcune loro quote elettorali di riferimento. A partire proprio dai colletti blu della Rust Belt, che - un tempo democratici - non si capisce per quale motivo dovrebbero tornare a votare l'Asinello nel 2020, viste alcune proposte di legge che vengono avanzate. In particolare, lo stesso presidente americano, Donald Trump, ha criticato via Twitter la linea generale dei rivali, che si sono detti favorevoli all'accesso indiscriminato alla sanità per gli immigrati irregolari. E, sempre come nel corso della prima sera, anche nella seconda si è assistito a un certo grado di ipocrisia. Al di là dei teatrini melodrammatici della Harris, sulla questione migratoria i vari candidati hanno attaccato la politica della tolleranza zero adottata dall'amministrazione Trump, spesso dimenticando che, in passato, il loro stesso partito, oltre ai rimpatri, abbia realizzato barriere difensive al confine meridionale e schierato forze militari per controllare i flussi di migranti. Senza poi trascurare il dossier cinese. Se nel 2016 erano solo Trump e Sanders a parlare dei pericoli rappresentati da Pechino in termini commerciali contro gli Stati Uniti, oggi - con molta disinvoltura - quasi tutti i competitor per la nomination democratica risultano dello stesso avviso. Anche Biden che, appena pochi mesi fa, si era espresso in senso diametralmente opposto.
Insomma, anziché diminuire, i problemi dell'Asinello persistono. Il partito continua ad essere spaccato e i rapporti di forza interni, anticipati dai sondaggi, sembrano più o meno confermarsi senza troppe sorprese. Quel che è certo è che la leadership di Biden e Sanders appaia sempre più logora e stantia. Il punto è che, almeno per ora, adeguati sostituti all'orizzonte se ne vedono pochi. E intanto Trump può continuare a dormire sonni tranquilli.
Pochi guizzi e molta prevedibilità. Il primo dibattito tra i candidati alla nomination democratica del 2020, organizzato NBC News a Miami, non ha brillato per particolari sorprese.
Attacchi contro Trump e toni melodrammatici. A questo, in sostanza, si è ridotto il primo dibattito tra i candidati alla nomination democratica del 2020. Un confronto televisivo sbiadito, senza particolari guizzi, che ha messo in luce – una volta di più – non solo le profonde spaccature interne all'Asinello ma anche – più in generale – la difficoltà che i democratici stanno riscontrando nel criticare Donald Trump. A dispetto dei sondaggi che lo vedrebbero perdente praticamente contro ogni dem attualmente in lizza, il presidente può al momento contare su due fattori non indifferenti: il mantenimento della stretta sull'immigrazione e i buoni risultati economici raggiunti. E, proprio su questi due fronti, i democratici hanno cercato di concentrarsi nel dibattito. Con risultati tuttavia abbastanza scarsi.
La questione migratoria è stata tra i principali temi affrontati. Ad occuparsene è risultato soprattutto l'ex ministro, Julian Castro, che ha criticato il presidente, invocando una riforma complessiva della materia migratoria. Il candidato ha inoltre affermato di voler smantellare la politica della tolleranza zero adottata dall'amministrazione Trump, favorendo – tra l'altro – gli immigrati clandestini nel processo di acquisizione della cittadinanza americana. Castro ha quindi citato il recente caso del padre e della bambina affogati nel Rio Grande.
«L'immagine di Oscar e sua figlia, Valeria, è straziante. Dovrebbe anche farci infuriare tutti», ha dichiarato. Nelle parole di Castro era chiaramente sottintesa l'intenzione di attribuire la responsabilità dell'episodio allo stesso Donald Trump. Una linea, in buona sostanza ripresa anche dal senatore del New Jersey, Cory Booker, che ha lasciato intendere come la morte dei due migranti sia dovuta proprio al presidente, colpevole – a suo dire – di tagliare risorse per risolvere i problemi migratori. Insomma, la gestione dell'immigrazione clandestina torna al centro della battaglia politica. I democratici sanno infatti che, sul tema, Trump si giochi gran parte della rielezione nel 2020. E, per questa ragione, cercano di bersagliarlo ripetutamente: non solo nell'agone elettorale ma anche – come accaduto negli ultimi mesi – a livello giudiziario, intentando cause contro il muro al confine con il Messico. Una linea, quella democratica, che deve fare i conti con alcune contraddizioni interne.
In primo luogo, non bisogna dimenticare che sia stato proprio l'Asinello, in passato, a realizzare barriere al confine meridionale: si pensi soltanto alla presidenza Clinton negli anni '90. In secondo luogo, qualche mese fa, il senatore del Vermont, Bernie Sanders, si è chiaramente detto contrario alla politica delle frontiere aperte. Una mossa che va incontro alle istanze della classe operaia impoverita della Rust Belt. Una quota elettorale, un tempo democratica, che nel 2016 ha votato per Trump, convinta dalle sue posizioni in tema di commercio internazionale e di stretta migratoria. Non è quindi chiaro se la linea morbida e buonista in termini di immigrazione possa aiutare l'Asinello a recuperare quel fondamentale voto, in vista del 2020.
Altro elemento caratterizzante del dibattito di stanotte è risultato il tema economico. Anche qui, i democratici si trovano da mesi in un certo imbarazzo. Con i principali indicatori fortemente favorevoli, Donald Trump si trova al momento in una botte di ferro. I suoi avversari hanno quindi un'arma spuntata quando lo attaccano sulla questione e – non a caso – hanno preferito concentrarsi stanotte sulla questione delle disuguaglianze sociali e del contrasto alle big corporation. Su questo fronte è stata la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, a fare la parte del leone, attaccando i giganti economici, la delocalizzazione della produzione e le crescenti sperequazioni sociali. Una linea che ha provato a far propria anche il sindaco di New York, Bill de Blasio, il quale non è tuttavia riuscito a scalzare la senatrice dal suo ruolo di «paladina anti-corporation».
Tanto che, alla fine, il primo cittadino della Grande Mela ha dovuto accontentarsi di un misero ruolo da comparsa, fondamentalmente incolore e privo di effettivo significato. Ciò detto, anche su questo fronte le armi dei dem si sono rivelate piuttosto spuntate. In questi anni di governo, Trump ha mantenuto un rapporto non sempre cordiale con i colossi economici (si pensi solo ai frequenti attriti con Amazon). Senza poi dimenticare come l'attuale presidente si sia sempre speso per contrastare la delocalizzazione della produzione (soprattutto nel settore automobilistico). Insomma, la retorica dem forse sbaglia bersaglio. E se è vero che l'attacco politico in campagna elettorale è necessario, bisognerebbe forse calibrarlo meglio. Altrimenti il rischio è fare un regalo all'avversario. Non sarà del resto un caso che dalle parti della Casa Bianca si gongola.
I democratici sembrano trovare compattezza solo su alcuni loro classici cavalli di battaglia, come l'aborto o i diritti civili. Cavalli di battaglia che, piaccia o meno, non sembrano destinati tuttavia a risultare così dirimenti in vista delle elezioni del 2020, quando – con ogni probabilità – saranno dossier come i salari e il protezionismo commerciale a prendersi il centro della scena. Senza poi trascurare che nell'Asinello si litighi anche su questioni un tempo più o meno condivise. Si pensi solo alla sanità. Questa notte si sono infatti scontrati coloro che auspicherebbero un sistema sanitario universale (connesso all'abolizione delle assicurazioni private) con chi chiede – di contro – un modello meno invasivo da parte del governo federale. Un fattore che non farà che alimentare le già dure lotte intestine che sconvolgono l'Asinello.
A livello generale, si può dire che – in definitiva – il dibattito di stanotte lo abbia vinto la Warren. Esito abbastanza scontato e già preconizzato da tutti i sondaggi. Indubbiamente la senatrice ha avuto il pregio di avanzare proposte chiare e dettagliate. Eppure non va trascurato che la sua vittoria sia stata favorita anche dalla presenza di competitor particolarmente scialbi. Si pensi solo all'ex deputato texano Beto O' Rourke, che è risultato caratterizzato da un preoccupante «effetto Marco Rubio»: un candidato da laboratorio, tutto marketing politico e ben poco arrosto. Nel corso della serata, si è mostrato irresoluto, tentennante, a tratti quasi imbambolato. Proprio lui, che da più di un anno i media americani (e nostrani) hanno spesso dipinto come la giovane promessa della politica statunitense (incuranti del fatto che fosse già stato sconfitto dal senatore repubblicano Ted Cruz nella corsa elettorale per il seggio senatoriale del Texas lo scorso novembre).
Insomma, stando a questo primo dibattito, l'Asinello risulta perso dietro a battaglie di principio (talvolta un po' ipocrite) e ai crismi del politicamente corretto. Vedremo se nel confronto televisivo di giovedì sera emergerà qualche figura interessante o se resterà invece intatto questo generale piattume. Trump, per il momento, sta alla finestra e aspetta. Perché, nonostante i soliti sondaggi apocalittici, è in fin dei conti convinto che l'Asinello si stia scavando – ancora una volta – la fossa con le sue stesse mani.so".





