La figura di Gabriele D'Annunzio è tra le più affascinanti di un'epoca a cavallo tra età romantica e modernità, di cui lui per primo fu tra i motori propulsivi. Poliedrico ed eclettico ha lasciato traccia anche nel gastromondo, con indubbia originalità. I primi segni a cinque anni, quando una allarmata domestica avvertì la mamma che il piccolo ogni tanto beveva aceto per non ingrassare. Il suo imprinting culinario non ebbe molto tempo per consolidarsi, a parte la madeleine legata al croccante di mandorle di mamma Luisa. Tredicenne venne spedito dalla sua Pescara a Prato, presso il collegio Cicognini. Qui manifestò già le sue doti di leader trascinatore, guidando la «rivolta delle polpette». Assieme ai suoi seguaci devastarono le cucine come protesta per quelle sgradevoli «pallottole» che dovevano subire a pranzo e cena.
A Roma, iscritto alla Facoltà di Lettere, fu progressivamente attratto da quel mondo in cui poteva esibire le sue svariate doti. Intraprese la carriera di giornalista e «si dedicò a fare il D'Annunzio per tutta la vita». Con le dovute attenzioni. Oramai era sotto l'occhio dei riflettori. Gli sguardi incuriositi delle possibili prede femminili, di accigliata invidia dei colleghi maschi. La sua condotta conseguente. Mangiava a casa, prima dei vari eventi, in quanto considerava volgare e poco raffinata la necessità di riempire «il triste sacco» come ricorda Giordano Bruno Guerri. Incontra Eleonora Duse, con la quale attiva le sue strategie di conquista e seduzione accompagnate alle golose scenografie conseguenti. Ad esempio una tavola imbandita con petali di rosa, degno contorno a un risotto ovviamente «rosato» in abbinamento con uno champagne, naturalmente rosé. Non sempre poteva mangiare come voleva. Candidato a una cena elettorale presso Ortona, si trovò al tavolo d'onore, protagonista della panarda, una sorta di corrida golosa secondo la migliore tradizione abruzzese. Un rito sorvegliato dal guardiano di panarda, armato di fucile, che ammoniva i renitenti di gola con un serafico «magne o te spare». D'Annunzio diede fondo alla sua fantasia. Dapprima tentò di svuotare i piatti sotto la tavola ma poi, vista la mala parata, simulò un improvviso svenimento.
Dopo la delusione dell'impresa di Fiume prese la sua definitiva residenza a Gardone, sul lago di Garda. Quello che, per tutti, è ora il Vittoriale, all'iniziò lo chiamò prioria, una sorta di convento laico di cui lui era il priore e clarisse le numerose domestiche al suo servizio. Qui si consolida il rapporto con suor Intingola (o suor Ghiottizia, a seconda delle circostanze), al secolo Albina Becevello, trevigiana. L'incontro era avvenuto a Venezia, nel 1916, quando il Vate rilevò la residenza sul Canal Grande del principe Fritz Hohenlohe. Questi gli raccomandò la sua fidata cuoca e il gondoliere, Dante Fenzo, che poi divenne l'autista storico. Una corrispondenza fittissima quella con cui D'Annunzio comunicava con Suor Indulgenza Plenaria, a seconda dei peccati di gola richiesti.
Su questo curioso archivio Maddalena Santeroni e Donatella Milani hanno raccolto una sorta di menù di casa d'Annunzio dalle mille scoperte. Il Vate era goloso di uova, tanto da avere a disposizione un pollaio ben attrezzato. Una vocazione di lunga data testimoniata dal suo stesso cimentarsi, in gioventù, con una frittata … «volata in cielo». «Ruppi trentatrè uova e, dopo averle sbattute con mano prode e sapiente, diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa. Nel volgere gli occhi al cielo, nel bagliore della luna, passò un angelo che colse la frittata in aria e la offerse ai beati, aureola di Sainte Omelette».
Abruzzese non poteva dimenticare i maccheroni alla chitarra «una sorta di arpa cuciniera che si suona con le mani, dalle cui corde esce una pasta ben conosciuta a chi ama questo ramo della musica applicata alla gastronomia». Raffinato ma che sapeva anche accontentarsi delle cose semplici, realizzate a regola d'arte. Ad esempio un uovo sodo con le acciughe «Quando ero bambino chiedevo l'ovo spalmato in una leggera salsa di acciughe. Stasera ho ritrovato quella divina estasi. Scivolo sotto la tavola in uno svenimento che nessuna femmina mi farà mai provare. Albina, sii laudata ne secoli dei secoli. E risplendi nella costellazione dell'Ovo e nella nebulosa dell'Acciuga». Si va in replica con un pollo da estasi. «Hai superato i più famosi cuochi. Entrando in me quel pollo diventava angelo, spiegava le sue ali e si metteva a cantare le tue laudi». Una volta, per ringraziarla di una frittata ben riuscita, la premiò con duemila lire, due volte lo stipendio di un impiegato di concetto. Ma anche al Vittoriale D'Annunzio tenne fede a quella sua regola iniziata a Roma. Desinava abitualmente da solo alla sua scrivania, la zambracca, ma gli ospiti erano ricevuti nella sala della Cheli. Chiamata così per via della tartaruga che vegliava al tavolo d'onore. Gli era stata regalata dalla marchesa Luisa Casati Stampa. Venne a mancare per una scorpacciata fatale di tuberose nel parco. In suo onore D'Annunzio la fece ricreare dallo scultore Renato Brozzi all'interno del voluminoso carapace. Posta a memento degli ospiti di non esagerare con i peccati di gola.
Al Vittoriale si possono vedere i vasi da frutta luminosi creati su progetto del Vate dal maestro del vetro muranese Napoleone Martinuzzi. D'Annunzio era molto goloso di frutta, cui attribuiva virtù mitologiche. Mele simbolo di trasgressione (chiedere ad Adamo ed Eva). Uva paragonata alla «rigonfia mammella di una dea». Melagrana che rinviava al desiderio di immortalità «quando sarò morto i miei discepoli mi onoreranno sotto una pianta di melograno». Goloso di dolci che offriva alle sue amanti dopo «ore difficili», lui, devoto cultore del mito di Venere. Su tutti il parrozzo, del suo conterraneo Luigi D'Amico, in cui l'amalgamarsi sapiente di uova, mandorle e cioccolato, rinviava al più modesto pan rozzo, il cibo povero dei pastori abruzzesi. Ricercato quale testimonial di nuovi prodotti, a lui venivano ispirati anche dei piatti, come fece con la lepre alla D'Annunzio Giulio Piccini (in arte Jarro) o un'insalata che gli dedicò Attilio Peruzzotti. Il Sangue Morlacco dei Luxardo, ora esuli dalmati sui colli euganei, è parto della fantasia di D'Annunzio. Ben descritta da Giovanni Comisso nei giorni di Fiume. Un distillato di marasche sino ad allora chiamato Ratafià. Si trovavano in una trattoria, Il Cervo d'oro, ribattezzato dal poeta L'Ornitorinco. Sul tavolo un giornale inglese aveva definito D'Annunzio «un tiranno barbaro che succhiava il sangue dei morlacchi», coraggiosa etnia nomade dell'entroterra. E così, in loro onore, ecco il distillato a loro dedicato. Anche Aurum è parto del Vate. Si trattava di un brandy creato da Amadeo Pompilio con infusi di agrumi all'arancio. Prodotto di nicchia, poco conosciuto al di fuori dell'Abruzzo. Ecco nascere il collegamento con la romanità classica, dove l'auratium, l'arancio, era il frutto dell'oro. Per coerenza anche le bottiglie dovevano essere all'altezza, riferimento a manufatti trovati negli scavi di Pompei.
Nel 1911 Giovanni Agnelli voleva lanciare il suo nuovo modello, la Fiat Tipo 4. D'Annunzio gli suggerì di abbinare la vettura ad un cioccolatino. Nacquero i Fiat della Majani, un originale cremino a quattro strati come quattro erano i cilindri della vettura. I tramezzini che incrociate tutti i giorni nel mordi e fuggi un po' distratto meritano una sosta di rispetto. Anche questi sono frutto del copyright by D'Annunzio, in seguito a un'innovativa proposta di Angela Nebiolo, dello storico caffè Mulassano di Torino. Se volete provare qualche rilettura dello spirito dannunziano, una volta usciti dal pellegrinaggio curioso al Vittoriale, a Salò vi aspetta la cucina del Rose, di Andrea De Carli e Marco Cozza, dove troverete l'oleum Vatis, prodotto nello storico oliveto del Vate.