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2022-08-16
Surrealismo Pop: l'arte contemporanea in mostra a Trento
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Fulvio Di Piazza, Pacific, 2014, Galleria Giovanni Bonelli, Milano
Un Putin dissacrante e dispotico, novello Bonaparte che mostra il dito allo spettatore; la Regina Elisabetta in t-shirt «Italians Do it Better »; una capra in doppiopetto; un vaso rosso sangue dotato di vene e arterie; satiri e gnomi; fumetti brulicanti di elementi, a metà strada fra Hieronymus Bosch e Jacovitti. Colori vivaci e accesi, temi infantili e surreali, a tratti eccessivi. Favole, folk art, caricature, graffiti e iconografia gotica, elementi punk e il linguaggio dei comics e dei cartoon.
Pittori, scultori, writer, illustratori, digital artist e tatuatori. Un mix di stili, di arti e di personalità talentuose (ma estranee ai circuiti dell’arte ufficiale) che hanno dato vita – tra gli anni 80’ e 90’ del secolo scorso - al «Pop Surrealism», altrimenti detto Lowbrow Art, una forma d’arte che viene «dal basso », alternativa, popolare e incolta, in netta contrapposizione a tutto ciò che è «Highbrow», troppo alto e intellettuale. Anche accademico. A volte sterile. Il Surrealismo Pop parla invece un linguaggio semplice, facile e comprensibile, trasversale e accessibile a tutti. Naif e un po’ kitsch.
La mostra
L’esposizione alla Galleria Civica di Trento - curata da Margherita de Pilati e Ivan Quaroni – propone una selezione di 17 pittori e writer italiani dall’ immaginario artistico decisamente eterogeneo, che attinge dagli elementi mass mediali della società dei consumi (miti, loghi e icone decisamente riconiscibili) e dall’arte fantastica e surreale, quella che rimanda al fantasy, all’assurdo, al sogno e all’inconscio. Artisti che mescolano vari codici spesso in contrasto fra loro, sottilmente ironici o smaccatamente sarcastici, insofferenti al sistema e distanti dagli intellettualismi elitari e autoreferenziali. Quella stessa distanza che mettono fra la loro arte e quella contemporanea istituzionale.
Gli artisti in mostra provengono o guardano principalmente alla cosiddetta Nuova Figurazione o alla Street art. Loro inesauribili fonti di ispirazione sono le geografie urbane metropolitane e tutto ciò che è cultura di massa, ossia cinema, fumetto, letteratura, games, manga, illustrazione, web, serie Tv ( per esempio Games of Thrones). Non mancano critiche alla società capitalistica e consumistica, scenari destabilizzanti o irreali. Esattamente come recita il titolo della mostra: Eccentrici, apocalittici, pop.Inferno e delizia dell'arte contemporanea.
Gli artisti in mostra
La mostra raccoglie i lavori più significativi di Nicola Caredda, Luciano Civettini, Vanni Cuoghi, Ilaria Del Monte, Fulvio Di Piazza, Zoe Lacchei, Marco Mazzoni, Fatima Messana, Giovanni Motta, Laurina Paperina, Giuseppe Veneziano, Nicola Verlato, Vesod.
Completano il progetto 4 interventi site-specific di El Gato Chimney (artista autodidatta, con un background da street artist e interessi esoterici ), Massimo Giacon (illustratore e designer che spazia dal fumetto all’arte digitale) , Ozmo (pseudonimo di Gionata Gesi, pittore e street artist) Pao (al secolo Paolo Bordino, al pari di Ozmo pittore e street artist).
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Eccentrici, apocalittici, pop, surreali. Tra sogni, fumetti, visioni e bestiari fantastici, alla Galleria Civica di Trento, sino al 2 ottobre 2022, in mostra i lavori di 17 artisti del Pop Surrealism declinato all’italiana. Un Putin dissacrante e dispotico, novello Bonaparte che mostra il dito allo spettatore; la Regina Elisabetta in t-shirt «Italians Do it Better »; una capra in doppiopetto; un vaso rosso sangue dotato di vene e arterie; satiri e gnomi; fumetti brulicanti di elementi, a metà strada fra Hieronymus Bosch e Jacovitti. Colori vivaci e accesi, temi infantili e surreali, a tratti eccessivi. Favole, folk art, caricature, graffiti e iconografia gotica, elementi punk e il linguaggio dei comics e dei cartoon. Pittori, scultori, writer, illustratori, digital artist e tatuatori. Un mix di stili, di arti e di personalità talentuose (ma estranee ai circuiti dell’arte ufficiale) che hanno dato vita – tra gli anni 80’ e 90’ del secolo scorso - al «Pop Surrealism», altrimenti detto Lowbrow Art, una forma d’arte che viene «dal basso », alternativa, popolare e incolta, in netta contrapposizione a tutto ciò che è «Highbrow», troppo alto e intellettuale. Anche accademico. A volte sterile. Il Surrealismo Pop parla invece un linguaggio semplice, facile e comprensibile, trasversale e accessibile a tutti. Naif e un po’ kitsch. La mostraL’esposizione alla Galleria Civica di Trento - curata da Margherita de Pilati e Ivan Quaroni – propone una selezione di 17 pittori e writer italiani dall’ immaginario artistico decisamente eterogeneo, che attinge dagli elementi mass mediali della società dei consumi (miti, loghi e icone decisamente riconiscibili) e dall’arte fantastica e surreale, quella che rimanda al fantasy, all’assurdo, al sogno e all’inconscio. Artisti che mescolano vari codici spesso in contrasto fra loro, sottilmente ironici o smaccatamente sarcastici, insofferenti al sistema e distanti dagli intellettualismi elitari e autoreferenziali. Quella stessa distanza che mettono fra la loro arte e quella contemporanea istituzionale.Gli artisti in mostra provengono o guardano principalmente alla cosiddetta Nuova Figurazione o alla Street art. Loro inesauribili fonti di ispirazione sono le geografie urbane metropolitane e tutto ciò che è cultura di massa, ossia cinema, fumetto, letteratura, games, manga, illustrazione, web, serie Tv ( per esempio Games of Thrones). Non mancano critiche alla società capitalistica e consumistica, scenari destabilizzanti o irreali. Esattamente come recita il titolo della mostra: Eccentrici, apocalittici, pop.Inferno e delizia dell'arte contemporanea.Gli artisti in mostraLa mostra raccoglie i lavori più significativi di Nicola Caredda, Luciano Civettini, Vanni Cuoghi, Ilaria Del Monte, Fulvio Di Piazza, Zoe Lacchei, Marco Mazzoni, Fatima Messana, Giovanni Motta, Laurina Paperina, Giuseppe Veneziano, Nicola Verlato, Vesod. Completano il progetto 4 interventi site-specific di El Gato Chimney (artista autodidatta, con un background da street artist e interessi esoterici ), Massimo Giacon (illustratore e designer che spazia dal fumetto all’arte digitale) , Ozmo (pseudonimo di Gionata Gesi, pittore e street artist) Pao (al secolo Paolo Bordino, al pari di Ozmo pittore e street artist).
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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