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2021-08-05
Lo studio israeliano sull’ivermectina Covid curato con un dollaro al giorno
Ansa
La Fda non ha voluto approvarla. L'Oms l'ha sconsigliata persino per le sperimentazioni. A marzo, l'ha bocciata anche l'Ema. Eppure, c'è qualcuno che, sull'utilizzo dell'ivermectina come antivirale, non si vuole arrendere. E sta ottenendo nuovi risultati incoraggianti.
Arriva da Israele, ormai un laboratorio a cielo aperto, la notizia di una ricerca che dimostra l'efficacia di questo antiparassitario, peraltro molto economico: il Jerusalem Post parla di «meno di 1 dollaro al giorno» e, nel momento in cui i fornitori di vaccini a mRna hanno aumentato il prezzo delle dosi vendute all'Ue, la circostanza è particolarmente felice. Lo studio non è stato ancora sottoposto a revisione paritaria, ma è stato condotto, in forma controllata e randomizzata, con il metodo del «doppio cieco», che limita i possibili condizionamenti sia sul versante del medico, sia su quello del paziente.
Il professor Eli Schwartz, fondatore del Center for travel medicine and tropical disease, presso lo Sheba medical center di Tel Aviv, ha radunato 89 volontari maggiorenni infettati dal Sars-CoV-2 e li ha divisi in due gruppi: una metà ha ricevuto un placebo, l'altra metà l'ivermectina. Tre pillole, per tre giorni, un'ora prima del pasto. Risultato: il 72% di chi aveva assunto il farmaco si è negativizzato entro sei giorni, contro il 50% registrato nel gruppo di controllo. In più, Schwartz ha scoperto un dettaglio interessante: solo il 13% dei pazienti trattati con l'ivermectina, anche se ancora positivo, trascorsi i sei giorni, era in grado d'infettare. Al contrario, nel gruppo placebo, resisteva un 50% di potenziali untori: quattro volte di più.
Bisognerebbe che Mario Draghi prendesse in mano la ricerca israeliana, visto che, a suo avviso, il green pass (peraltro rilasciato già dopo la prima dose, in Italia) offrirebbe la «garanzia» di trovarsi tra «persone che non sono contagiose». È evidente che i vaccini riducono la circolazione del virus. Ma è anche vero che sempre dai dati del Paese mediorientale, emerge che quasi quattro vaccinati su dieci con Pfizer possono essere infettati dalla variante Delta. E, stando alle analisi condotte dai Cdc negli Usa, in una fetta degli immunizzati che entra a contatto con il ceppo indiano, è presente la stessa carica virale riscontrabile nei non vaccinati.
Se l'analisi di Tel Aviv fosse confermata, l'ivermectina - che, comunque, non ha un valore profilattico - potrebbe essere impiegata non solo come terapia, ma anche come uno strumento per ridurre la contagiosità dei positivi al coronavirus. Un recente articolo uscito sull'American journal of therapeutics, peraltro, evidenziava che, incrociando i risultati di 27 studi, si poteva concludere che l'antiparassitario abbia dato «un segnale forte di efficacia terapeutica contro il Covid-19».
Naturalmente, sebbene il professor Schwartz sostenga che essa possa ridurre i decessi del 75%, l'ivermectina non è priva di controindicazioni. Tant'è che in Israele si è aperto un dibattito. Ya'acov Nahmias, scienziato dell'Hebrew university di Gerusalemme, ha ammonito: «Dovremmo essere molto cauti nell'usare questo tipo di medicinale per trattare una malattia virale da cui la maggioranza della popolazione guarirà senza neppure bisogno di questa cura». Obiezione comprensibile: ci sono casi - molti - in cui è più pericoloso assumere dei farmaci che affrontare il Covid armati solo del proprio sistema immunitario. Ma perché questo discorso si può affrontare quando si parla d'ivermectina, mentre è tabù se lo si applica ai vaccini? Perché, quasi ovunque, si puntano le siringhe sui ragazzini, anche se non è così pacifico che il rapporto rischi/benefici dell'iniezione sia per loro vantaggioso e anche se i soggetti fragili, ai quali potrebbero trasmettere la patologia, sono già protetti? Perché si prefigurano dosi ai bimbi in fasce, se pare ormai assodato che il virus diventerà endemico e, quindi, l'idea di bloccarne la diffusione tramite l'immunità di gregge si sta rivelando una chimera?
Il professor Schwartz segnala che, tra i suoi pazienti, nessuno ha sofferto effetti collaterali: certo, oggettivamente, 89 persone sono un numero piccolissimo. E in America, molti di quelli che hanno tentato la cura fai da te, sono finiti in ospedale per gli effetti avversi. Tra i volontari di Israele, invece, solo cinque sono stati ricoverati. Quattro di loro non avevano preso l'ivermectina. L'altro aveva sintomi polmonari già al momento del reclutamento e, il giorno dopo aver assunto il medicinale, è stato dimesso. «C'è un sacco di opposizione», lamenta il luminare di Tel Aviv. «Abbiamo provato a pubblicare lo studio ed è stato rigettato da tre riviste. Nessuno voleva neppure sentirne parlare». Per quale motivo? L'ivermectina è davvero inservibile, se non dannosa, nella lotta al coronavirus? Oppure, come sospetta Schwartz, dietro ci sono interessi economici, che rendono poco profittevole promuovere un medicinale già in commercio e dal prezzo così basso?
Nel frattempo, in Italia, un'altra terapia subisce uno smacco: anche a Padova, uno dei primi ospedali a ricorrere ai protocolli introdotti dal compianto professor Giuseppe De Donno, è stata interrotta la somministrazione del plasma iperimmune. «Ormai i clinici non credono più in questo trattamento», ha spiegato al Corriere la dottoressa Giustina De Silvestro, direttrice del Centro immunotrasfusionale del nosocomio. Che però è pronta a pubblicare una ricerca e insiste: «Non è una cura miracolosa, ma ha dato buoni risultati». Anche in questo caso, si rincorrono le voci sugli scarsi profitti per le case farmaceutiche. Mania del complotto, o crudo realismo?
L’Islanda: niente immunità di gregge
La vaccinazione sta riducendo il tasso di pazienti con forme gravi di Covid-19 anche in Islanda dove però l'obiettivo non è più l'immunità di gregge, come si sostiene, nei fatti, in Italia, ma la capacità di controllare l'epidemia. Secondo Thorolfur Gudnason il capo degli epidemiologi islandesi (il corrispondente di Anthony Fauci per gli americani), «la variante Delta ha superato tutte le altre ed è diventato chiaro che le persone vaccinate possono infettarsi e trasmettere il virus», come riporta Iceland review. In questo contesto, fissare una percentuale di copertura vaccinale nella popolazione (immunità di gruppo o gregge) che metta al sicuro le persone non vaccinate, diventa una questione non più perseguibile.
L'Islanda è alle prese con 1.304 positivi, un numero record per l'isola a ridosso del Circolo polare artico, ma in ospedale ci sono 16 ricoverati. Come ha spiegato il Fauci islandese, «a giugno scorso sono state revocate le restrizioni perché i tassi di infezione erano molto bassi, la maggior parte della nazione era vaccinata e c'erano controlli alla frontiera». Il 75% della popolazione è immunizzata, compreso il 10% dei giovani tra 12-16 anni. «Nelle ultime due o tre settimane», ha aggiunto l'esperto, «la variante Delta ha preso il sopravvento su tutte le altre varianti in Islanda ed è emerso che anche i vaccinati possono contrarre, con relativa facilità, l'infezione e diffonderla». Come del resto si registra in tutti i Paesi, e anche in Italia, c'è una risalita dei contagi ed è in corso una nuova ondata di infezioni. Ci sono tuttavia indicazioni, come ha ricordato Gudnason, che la vaccinazione prevenga malattie gravi. «Circa 24 persone hanno dovuto essere ricoverate in questa ondata, poco più dell'1% degli infetti. Nelle ondate precedenti», ha precisato, «si era intorno al 4-5%. Attualmente, finisce all'ospedale il 2,4% delle persone non vaccinate», che contraggono il virus Sars-Cov2.
Invece di predicare la necessità di un'immunità di gregge, l'esperto islandese, nel ricordare che la pandemia non è vicina alla fine, con un certo pragmatismo, invita ad affrontare le nuove sfide che emergono. Il virus ora è endemico, non si può eradicare, «ma sappiamo cosa fare per frenare l'infezione». Non è chiaro se cambieranno le misure restrittive che in Islanda scadono il 13 agosto, ma «le due persone che sono ricoverate in terapia intensiva non sono vaccinate», ha ricordato Guðnason aggiungendo che, «non è possibile trarre conclusioni generali, ma la vaccinazione sembra ridurre le malattie gravi in generale».
Su questo concordano anche i dati dell'Istituto superiore di sanità (Iss). «L'efficacia dei vaccini è altissima, oltre il 95% per ospedalizzazioni e decessi», ha dichiarato in questi giorni Silvio Brusaferro, presidente Iss. «La stragrande maggioranza delle persone che finiscono in ospedale e in terapia intensiva non ha ricevuto nemmeno una dose». A differenza degli islandesi però, in Italia, dove è stato immunizzato il 60% della platea degli over 12, si continua a rincorrere «l'immunità di comunità» che sarà raggiunta «entro la fine di settembre, con il completamento del ciclo vaccinale da parte dell'80% della platea da vaccinare», ha ricordato il Commissario all'Emergenza, Francesco Paolo Figliuolo. Anche per questo c'è «la disponibilità di ulteriori dosi di vaccino Pfizer, a partire dalla terza settimana di agosto». Come si potrà, con i vaccini, raggiungere il blocco della circolazione di una variante, la Delta, che contagia anche chi ha ricevuto due dosi, è tutt'altro che chiaro. Del resto, lo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi ritiene che con il green pass si ha «la garanzia di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose», mentre i numeri dicono altro.
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Una ricerca dimostra l'efficacia dell'antiparassitario, non privo di controindicazioni e bocciato da Oms ed Ema. Può pure ridurre la contagiosità degli infetti. A Padova stop al plasma iperimmune: pratica poco remunerativa?Record di positivi in Islanda con il 75% di vaccinati che possono contrarre l'infezione e diffonderla. Il capo degli epidemiologi: «Il virus non si eradica, ma sappiamo gestirlo».Lo speciale contiene due articoli.La Fda non ha voluto approvarla. L'Oms l'ha sconsigliata persino per le sperimentazioni. A marzo, l'ha bocciata anche l'Ema. Eppure, c'è qualcuno che, sull'utilizzo dell'ivermectina come antivirale, non si vuole arrendere. E sta ottenendo nuovi risultati incoraggianti.Arriva da Israele, ormai un laboratorio a cielo aperto, la notizia di una ricerca che dimostra l'efficacia di questo antiparassitario, peraltro molto economico: il Jerusalem Post parla di «meno di 1 dollaro al giorno» e, nel momento in cui i fornitori di vaccini a mRna hanno aumentato il prezzo delle dosi vendute all'Ue, la circostanza è particolarmente felice. Lo studio non è stato ancora sottoposto a revisione paritaria, ma è stato condotto, in forma controllata e randomizzata, con il metodo del «doppio cieco», che limita i possibili condizionamenti sia sul versante del medico, sia su quello del paziente. Il professor Eli Schwartz, fondatore del Center for travel medicine and tropical disease, presso lo Sheba medical center di Tel Aviv, ha radunato 89 volontari maggiorenni infettati dal Sars-CoV-2 e li ha divisi in due gruppi: una metà ha ricevuto un placebo, l'altra metà l'ivermectina. Tre pillole, per tre giorni, un'ora prima del pasto. Risultato: il 72% di chi aveva assunto il farmaco si è negativizzato entro sei giorni, contro il 50% registrato nel gruppo di controllo. In più, Schwartz ha scoperto un dettaglio interessante: solo il 13% dei pazienti trattati con l'ivermectina, anche se ancora positivo, trascorsi i sei giorni, era in grado d'infettare. Al contrario, nel gruppo placebo, resisteva un 50% di potenziali untori: quattro volte di più. Bisognerebbe che Mario Draghi prendesse in mano la ricerca israeliana, visto che, a suo avviso, il green pass (peraltro rilasciato già dopo la prima dose, in Italia) offrirebbe la «garanzia» di trovarsi tra «persone che non sono contagiose». È evidente che i vaccini riducono la circolazione del virus. Ma è anche vero che sempre dai dati del Paese mediorientale, emerge che quasi quattro vaccinati su dieci con Pfizer possono essere infettati dalla variante Delta. E, stando alle analisi condotte dai Cdc negli Usa, in una fetta degli immunizzati che entra a contatto con il ceppo indiano, è presente la stessa carica virale riscontrabile nei non vaccinati. Se l'analisi di Tel Aviv fosse confermata, l'ivermectina - che, comunque, non ha un valore profilattico - potrebbe essere impiegata non solo come terapia, ma anche come uno strumento per ridurre la contagiosità dei positivi al coronavirus. Un recente articolo uscito sull'American journal of therapeutics, peraltro, evidenziava che, incrociando i risultati di 27 studi, si poteva concludere che l'antiparassitario abbia dato «un segnale forte di efficacia terapeutica contro il Covid-19».Naturalmente, sebbene il professor Schwartz sostenga che essa possa ridurre i decessi del 75%, l'ivermectina non è priva di controindicazioni. Tant'è che in Israele si è aperto un dibattito. Ya'acov Nahmias, scienziato dell'Hebrew university di Gerusalemme, ha ammonito: «Dovremmo essere molto cauti nell'usare questo tipo di medicinale per trattare una malattia virale da cui la maggioranza della popolazione guarirà senza neppure bisogno di questa cura». Obiezione comprensibile: ci sono casi - molti - in cui è più pericoloso assumere dei farmaci che affrontare il Covid armati solo del proprio sistema immunitario. Ma perché questo discorso si può affrontare quando si parla d'ivermectina, mentre è tabù se lo si applica ai vaccini? Perché, quasi ovunque, si puntano le siringhe sui ragazzini, anche se non è così pacifico che il rapporto rischi/benefici dell'iniezione sia per loro vantaggioso e anche se i soggetti fragili, ai quali potrebbero trasmettere la patologia, sono già protetti? Perché si prefigurano dosi ai bimbi in fasce, se pare ormai assodato che il virus diventerà endemico e, quindi, l'idea di bloccarne la diffusione tramite l'immunità di gregge si sta rivelando una chimera?Il professor Schwartz segnala che, tra i suoi pazienti, nessuno ha sofferto effetti collaterali: certo, oggettivamente, 89 persone sono un numero piccolissimo. E in America, molti di quelli che hanno tentato la cura fai da te, sono finiti in ospedale per gli effetti avversi. Tra i volontari di Israele, invece, solo cinque sono stati ricoverati. Quattro di loro non avevano preso l'ivermectina. L'altro aveva sintomi polmonari già al momento del reclutamento e, il giorno dopo aver assunto il medicinale, è stato dimesso. «C'è un sacco di opposizione», lamenta il luminare di Tel Aviv. «Abbiamo provato a pubblicare lo studio ed è stato rigettato da tre riviste. Nessuno voleva neppure sentirne parlare». Per quale motivo? L'ivermectina è davvero inservibile, se non dannosa, nella lotta al coronavirus? Oppure, come sospetta Schwartz, dietro ci sono interessi economici, che rendono poco profittevole promuovere un medicinale già in commercio e dal prezzo così basso?Nel frattempo, in Italia, un'altra terapia subisce uno smacco: anche a Padova, uno dei primi ospedali a ricorrere ai protocolli introdotti dal compianto professor Giuseppe De Donno, è stata interrotta la somministrazione del plasma iperimmune. «Ormai i clinici non credono più in questo trattamento», ha spiegato al Corriere la dottoressa Giustina De Silvestro, direttrice del Centro immunotrasfusionale del nosocomio. Che però è pronta a pubblicare una ricerca e insiste: «Non è una cura miracolosa, ma ha dato buoni risultati». Anche in questo caso, si rincorrono le voci sugli scarsi profitti per le case farmaceutiche. Mania del complotto, o crudo realismo? <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/studio-israeliano-ivermectina-covid-cura-2654451717.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lislanda-niente-immunita-di-gregge" data-post-id="2654451717" data-published-at="1628145414" data-use-pagination="False"> L’Islanda: niente immunità di gregge La vaccinazione sta riducendo il tasso di pazienti con forme gravi di Covid-19 anche in Islanda dove però l'obiettivo non è più l'immunità di gregge, come si sostiene, nei fatti, in Italia, ma la capacità di controllare l'epidemia. Secondo Thorolfur Gudnason il capo degli epidemiologi islandesi (il corrispondente di Anthony Fauci per gli americani), «la variante Delta ha superato tutte le altre ed è diventato chiaro che le persone vaccinate possono infettarsi e trasmettere il virus», come riporta Iceland review. In questo contesto, fissare una percentuale di copertura vaccinale nella popolazione (immunità di gruppo o gregge) che metta al sicuro le persone non vaccinate, diventa una questione non più perseguibile. L'Islanda è alle prese con 1.304 positivi, un numero record per l'isola a ridosso del Circolo polare artico, ma in ospedale ci sono 16 ricoverati. Come ha spiegato il Fauci islandese, «a giugno scorso sono state revocate le restrizioni perché i tassi di infezione erano molto bassi, la maggior parte della nazione era vaccinata e c'erano controlli alla frontiera». Il 75% della popolazione è immunizzata, compreso il 10% dei giovani tra 12-16 anni. «Nelle ultime due o tre settimane», ha aggiunto l'esperto, «la variante Delta ha preso il sopravvento su tutte le altre varianti in Islanda ed è emerso che anche i vaccinati possono contrarre, con relativa facilità, l'infezione e diffonderla». Come del resto si registra in tutti i Paesi, e anche in Italia, c'è una risalita dei contagi ed è in corso una nuova ondata di infezioni. Ci sono tuttavia indicazioni, come ha ricordato Gudnason, che la vaccinazione prevenga malattie gravi. «Circa 24 persone hanno dovuto essere ricoverate in questa ondata, poco più dell'1% degli infetti. Nelle ondate precedenti», ha precisato, «si era intorno al 4-5%. Attualmente, finisce all'ospedale il 2,4% delle persone non vaccinate», che contraggono il virus Sars-Cov2. Invece di predicare la necessità di un'immunità di gregge, l'esperto islandese, nel ricordare che la pandemia non è vicina alla fine, con un certo pragmatismo, invita ad affrontare le nuove sfide che emergono. Il virus ora è endemico, non si può eradicare, «ma sappiamo cosa fare per frenare l'infezione». Non è chiaro se cambieranno le misure restrittive che in Islanda scadono il 13 agosto, ma «le due persone che sono ricoverate in terapia intensiva non sono vaccinate», ha ricordato Guðnason aggiungendo che, «non è possibile trarre conclusioni generali, ma la vaccinazione sembra ridurre le malattie gravi in generale». Su questo concordano anche i dati dell'Istituto superiore di sanità (Iss). «L'efficacia dei vaccini è altissima, oltre il 95% per ospedalizzazioni e decessi», ha dichiarato in questi giorni Silvio Brusaferro, presidente Iss. «La stragrande maggioranza delle persone che finiscono in ospedale e in terapia intensiva non ha ricevuto nemmeno una dose». A differenza degli islandesi però, in Italia, dove è stato immunizzato il 60% della platea degli over 12, si continua a rincorrere «l'immunità di comunità» che sarà raggiunta «entro la fine di settembre, con il completamento del ciclo vaccinale da parte dell'80% della platea da vaccinare», ha ricordato il Commissario all'Emergenza, Francesco Paolo Figliuolo. Anche per questo c'è «la disponibilità di ulteriori dosi di vaccino Pfizer, a partire dalla terza settimana di agosto». Come si potrà, con i vaccini, raggiungere il blocco della circolazione di una variante, la Delta, che contagia anche chi ha ricevuto due dosi, è tutt'altro che chiaro. Del resto, lo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi ritiene che con il green pass si ha «la garanzia di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose», mentre i numeri dicono altro.
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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Kennedy Jr (Ansa)
D’ora in avanti, le donne che risultano negative al test per l’epatite B potranno decidere, consultando il proprio medico, se vaccinare o no alla nascita il proprio bambino. I membri che hanno votato a favore delle nuove raccomandazioni hanno sostenuto che il rischio di contrarre il virus è basso, e che i vaccini dovrebbero essere personalizzati.
Il gruppo di lavoro dell’Acip, rinnovato dallo scorso giugno dal segretario alla Salute Robert F. Kennedy Jr. ha suggerito di attendere almeno i 2 mesi di età per la prima dose. La vaccinazione continuerà a essere somministrata ai neonati di madri che risultano positive, o il cui stato di salute è sconosciuto. Il direttore facente funzioni dei Cdc, Jim O’Neill, ora dovrà decidere se adottare o meno queste raccomandazioni.
La commissione ha inoltre votato a favore della consultazione dei genitori con gli operatori sanitari, per sottoporre i figli a test sulla ricerca degli anticorpi contro l’epatite B prima di decidere se sia necessario somministrare altre dosi del vaccino. Attualmente, dopo la prima i bambini ricevono la seconda a 1-2 mesi di età e la terza tra i 6 e i 18 mesi.
Kennedy ha già limitato l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e raccomandato che i neonati vengano vaccinati separatamente contro la varicella. Susan Kressly, presidente dell’American academy of pediatrics, ha affermato che il cambiamento apportato dall’Acip renderà i bambini americani meno sicuri. «Esorto i genitori a parlare con il pediatra e a vaccinarsi contro l’epatite B alla nascita, indipendentemente dallo stato di salute della madre», è stato il suo appello.
Il presidente Donald Trump, invece, ha commentato soddisfatto l’esito della votazione. Con un post su Truth, venerdì sera aveva definito «un’ottima decisione porre fine alla raccomandazione sul vaccino contro l’epatite B per i neonati, la stragrande maggioranza dei quali non corre alcun rischio di contrarre una malattia che si trasmette principalmente per via sessuale o tramite aghi infetti. Il calendario vaccinale infantile americano richiedeva da tempo 72 “iniezioni” per bambini perfettamente sani, molto più di qualsiasi altro Paese al mondo e molto più del necessario. In effetti, è ridicolo! Molti genitori e scienziati hanno messo in dubbio, così come me, l’efficacia di questo “programma”».
Trump ha poi annunciato di avere appena firmato «un memorandum presidenziale che ordina al dipartimento della Salute e dei Servizi Umani di “accelerare” una valutazione completa dei calendari vaccinali di altri Paesi del mondo e di allineare meglio quello statunitense, in modo che sia finalmente radicato nel Gold Standard della scienza e del buon senso», ha concluso il presidente.
Prima del voto, questa settimana dodici ex dirigenti della Fda avevano contestato sul The New England journal of medicine la proposta di revisione delle approvazioni dei vaccini da parte dell’agenzia, sostenendo che i cambiamenti minacciano gli standard basati sulle prove, indeboliscono le pratiche di immunobridging (strategia scientifica e normativa che confronta i marcatori della risposta immunitaria indotti da un vaccino in diverse situazioni per stimare l’efficacia del vaccino) e rischiano di erodere la fiducia del pubblico.
A proposito della nota interna di Vinay Prasad, direttore della divisione vaccini della Food and drug administration (Fda), che dieci giorni ha sostenuto che «non meno di 10» dei 96 decessi infantili segnalati tra il 2021 e il 2024 al Vaers, il sistema federale di segnalazione degli eventi avversi da vaccino, erano «correlati» alle somministrazioni di dosi contro il Covid, i dodici si affannano a criticarla. «Prove sostanziali dimostrano che la vaccinazione può ridurre il rischio di malattie gravi e di ospedalizzazione in molti bambini e adolescenti», dichiarano. Dati che non risultano confermati da nessuno studio o revisione paritaria.
Sul continuo attacco alle scelte operate nel campo delle vaccinazioni dalla nuova amministrazione americana interviene il professor Francesco Cetta, ordinario di Chirurgia e docente di Intelligenza artificiale umanizzata presso lo Iassp (Istituto di alti studi strategici e politici). «Trump non è contro la scienza, come urla ad alta voce la sinistra nostrana», commenta. «Al contrario, pragmaticamente, per i problemi che non conosce, ha insediato nuove commissioni indipendenti di esperti, in grado di acclarare in tempi brevi, per quanto possibile, la verità su due argomenti particolarmente sensibili come le vaccinazioni e gli effetti dei cambiamenti climatici. E su che cosa si può fare in concreto per controllarli. Con quali costi e benefici per la comunità».
Il professore aggiunge: «Bisogna evitare le terapie a tappeto, indistintamente uguali per tutti, ma adattare ad ogni malato il suo trattamento come un “abito su misura”. In particolare, per alcune categorie come i bambini e le donne in gravidanza, bisogna valutare con attenzione vantaggi e svantaggi della somministrazione di ogni farmaco, incluso i vaccini, che determinano una perturbazione delle difese immunitarie individuali».
Considerazioni che dovrebbero essere fatte anche dal nostro ministero della Salute e dalle varie associazioni mediche che non ammettono revisioni dei metodi vaccinali.
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