La ricercatrice Tracy Høeg ha analizzato i numeri del Paese scandinavo, che demoliscono le paure sul «long Covid» e sulla sindrome multisistemica che colpisce i più piccoli. E suggeriscono di concentrarsi sui veri fragili.
La ricercatrice Tracy Høeg ha analizzato i numeri del Paese scandinavo, che demoliscono le paure sul «long Covid» e sulla sindrome multisistemica che colpisce i più piccoli. E suggeriscono di concentrarsi sui veri fragili.Per la serie: guardi i dati italiani, li confronti con quelli esteri e vieni assalito dalla sensazione che, qui, qualcosa non quadri. Un altro preclaro esempio di statistiche, capaci di incrinare le granitiche certezze su punture ai bimbi e potere salvifico delle terze dosi, arriva da Copenaghen. Ad analizzare i numeri, riferiti al periodo 1 ottobre-1 dicembre, ci ha pensato, in un lungo post su Twitter, una ricercatrice di origini danesi dell’Università della California a Davis, Tracy Høeg. La studiosa, in realtà, non fa altro che interpretare i grafici ufficiali sull’andamento dell’epidemia nel Paese. E rileva, anzitutto, due elementi interessanti a proposito dell’efficacia delle inoculazioni come strumento di profilassi. Primo: tra i bimbi (5-11 anni) vaccinati ci sono maggiori tassi d’infezione, anche quando si applica un fattore correttivo basato sul tasso di tamponi. Secondo: i booster non sono associati a una decrescita dei contagi. Sarebbe un’osservazione coerente con ciò che è stato già verificato in Israele. L’ennesima prova del fatto che porgere il braccio alla patria non aiuta a ridurre la circolazione del virus - apparentemente, nemmeno nello scenario Delta, che è quello fotografato dai dati danesi, risalenti a inizio dicembre. Figuriamoci con Omicron. Se ne dovrebbero trarre le opportune conclusioni in merito all’inutilità del green pass, cosa che in effetti, nel mondo scandinavo, stanno facendo. In Norvegia, ad esempio, il prof Preben Aavitsland, ai vertici del nazionale Istituto di sanità pubblica, ha scritto che la vasta adozione della card all’interno dell’Ue dovrebbe «spaventare» i suoi concittadini e che, d’altronde, il passaporto Covid «non ha senso, dal punto di vista del controllo delle infezioni», ma serve solo a «molestare la minoranza non vaccinata».Un altro aspetto rilevante, come nota la dottoressa Høeg, è che il richiamo, fino a circa 50 anni d’età, non pare collegato a una riduzione sensibile degli ingressi in terapia intensiva, se si paragonano tra loro le fette di popolazione non vaccinata, vaccinata con due dosi e vaccinata con tre. Anche ciò sarebbe in linea con quanto rilevava uno studio israeliano, uscito un mese e mezzo fa sul New England journal of medicine: al di sotto dei 40 anni, i casi di malattia grave erano già troppo bassi per misurare eventuali effetti benefici della terza dose. Perché è essenziale saperlo? Be’, ad esempio, perché le regole sulla Dad, in Italia, obbligano alle lezioni online, in caso di focolaio in classe, non solo i ragazzi non vaccinati dai 12 anni in su, ma anche quelli che, vaccinati da oltre quattro mesi, non si sono sottoposti al richiamo. Discorso analogo per il green pass imposto agli iscritti alle università. È la stessa studiosa dell’ateneo californiano a definire un obbligo di booster per i più giovani «non basato sulla scienza e, alla luce dei rischi anche piccoli di eventi avversi gravi, non etico». Resterebbe, a proposito dell’iniezione ai minori, l’argomento fondato sull’immancabile spauracchio: il long Covid. La Høeg è lapidaria. Il disturbo, spiega, è «così raro nei bambini che non riusciamo nemmeno a individuarlo in modo sistematico a livello della popolazione, in studi ben progettati». E infatti, il mese scorso, sul Journal of infection, era comparso un articolo dalle conclusioni inequivocabili: «La frequenza della maggior parte dei sintomi persistenti riportati è risultata simile nei casi positivi al Sars-Cov-2 e nel gruppo di controllo». Ergo, il virus non costituiva un fattore di pericolo apprezzabile. Non a caso, gli autori evidenziavano esplicitamente l’«importanza critica di un gruppo di controllo» in indagini del genere. Ultimo grimaldello dell’assedio ai più piccoli: la sindrome infiammatoria multisistemica (Mis-C), una patologia serissima, talora provocata dal coronavirus. Questa volta, Høeg fa riferimento ai dati americani, raccolti dai Cdc, dai quali si evince che dopo un nuovo aumento dei casi di Mis-C, tra luglio e settembre, a partire dall’autunno, le diagnosi si sono ridotte costantemente, fino a tornare ai livelli della primavera 2020, sia nell’ultima fase della decrescita dei contagi dovuti al ceppo Delta, sia durante la nuova ondata causata da Omicron. Se è vero che i tassi d’infezione sono aumentati enormemente anche e soprattutto tra i giovanissimi, inseguire questi ultimi con la siringa in mano, a meno che non si tratti di pazienti fragili, sa di crociata ideologica. Tutto considerato, la Høeg sposa quindi una posizione di assoluto buon senso. E sostiene che «il numero delle dosi di vaccino andrebbe calibrato individualmente in base all’età e a specifici fattori rischio», anziché essere il risultato di una costrizione. Un bel salto di qualità, rispetto ai ricatti e alle vessazioni che caratterizzano il famigerato «modello italiano».
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