
Ai tempi di Socrate, nella città dell’Ellade si vendevano minestre di legumi lungo le strade. Poi, in riva al Tevere, la consacrazione.Cinque giorni all’Assunta. Grazie, borgo alle porte di Mantova tra i più belli d’Italia, collocato su un promontorio affacciato sul Mincio, è pronto ad accogliere i 135 madonnari che dipingeranno con i gessetti il sagrato davanti al trecentesco santuario della Beata Vergine delle Grazie. Un terzo di loro viene dall’estero, qualcuno da Oltreoceano. Non vogliono mancare al loro cinquantesimo rendez-vous che quest’anno propone l’affascinante tema della Divina Commedia.Quattro gli appuntamenti da non perdere: la messa nel suggestivo santuario fatto erigere dai Gonzaga; la camminata tra i capolavori dei madonnari; il giro sul Mincio con i battelli elettrici per ammirare la straordinaria fioritura del loto. Il quarto appuntamento è gastronomico, con il ciclopico panino imbottito con maxi rotelle di cotechino venduto dalle trattorie del paese. La grassa ciupina col cudghin. Più che ciupina, è una ciupona. Somiglia al disco volante di Ultimatum alla terra. A Grazie hanno capovolto i tempi della confessione cattolica: prima si va in chiesa a pentirsi, poi si commette più volentieri il ghiotto peccato di gola.Uno dei diavoli tentatori è Claudio Somenzi che propone questa specialità da 25 anni. Dietro il bancone sulla strada dirimpetto al santuario, stanno alcune vezzose donzelle che smezzano le ciupine di pane e affettano i grossi e grassi cotechini preparati per la sagra. Una locandina recita: «Piatto di strada: panino col cotechino». Da qualche anno Claudio ha aggiunto la scritta street food. «Ma è solo per richiamare i giovani», si giustifica con furbizia bertoldesca. «Loro parlano così». Ha ragione. Oggidì se non si sputazza un po’ d’inglese, si è out, tagliati fuori. Per festeggiare il 25°, Somenzi ha creato lo street food for groups, il cibo di strada per comitive: 80 centimetri di pane imbottito con un chilo e mezzo di cotechino. Per smaltire questo peccato di gola di messe ce ne vogliono almeno tre. Ad una quarantina di chilometri da Grazie, a Madonna dell’Uva Secca, borgata di Povegliano Veronese, il piatto dell’Assunta è molto particolare: sate de galina in brodo. Le sate sono le zampe, quella parte del pollo tutta pelle e ossa che va dalla coscia fino alle unghie. Spiega Tiziano Bighellini, tra gli organizzatori della festa: «Non è un vero e proprio street food anche se si mangia all’aperto. È un piatto comunitario. Celebriamo l’Assunta con l’offerta gratuita alla gente che esce dalla messa delle 10.30 di sate de galina in brodo. È un piatto povero della civiltà contadina che proponiamo da 52 anni. Nei giorni che precedono la festa, le donne della borgata si riuniscono per preparare le sate: le pre-bolliscono, tolgono le unghie e la pelle. Nel giorno dell’Assunta vengono cotte in quattro pentoloni. Ne cuociamo 2.600. Nel piatto col brodo ne mettiamo 5-6. Più che masticare, c’è da succhiare». Intorno al Lago di Garda, nei luoghi di villeggiatura di mezz’Italia, nelle piazze dello street food, può capitare di imbattersi in uno strano camper bombato, metallizzato argento, luccicante come un modulo lunare. È un Airstream, un camper americano del 1963 costruito in alluminio, del tipo di quelli usati dalla Nasa. Due intraprendenti soci, Stefano Franchini e Alessandro Valsecchi, macellaio il primo, cuoco il secondo, lo hanno recuperato in Ohio, restaurato ad Amsterdam e munito di cucina in Italia. Propongono cibo di strada tipico del territorio dove le zolle del basso veronese si mescolano con quelle grasse della pianura mantovana: risotto col tastasàl, polpettine in saòr (con le acciughe), trippe.Panini, polpette, arancini o qualsiasi altro alimento venduto in piazza, per strada, in fiere o mercati, da cibi di strada qual erano, sono diventati street food. Niente di male, per carità. Però si sta esagerando. Non portiamo più a casa cibo d’asporto, ma take away che mettiamo nella food bag, la sportina. I furgoncini con cucina sono in via d’estinzione. Gli ambulanti alimentari circolano con i food truck. All’osteria o all’enoteca (pardòn, wine shop) con il calice di bollicine (bubble drink?) in mano, beccoliamo snack e finger food figlio legittimo dello street food. E se mangiamo pop corn, chips, wurstel o altro cibo spazzatura basta chiamarlo junk food e fa più figo.Il cibo che si porta alla bocca con le dita, il finger food, nasce quando l’uomo non era ancora tanto sapiens da usare forchetta e coltello (che del resto non erano ancora stati inventati) e gli bastava allungare le mani pelose per cogliere i frutti dagli alberi. Se oltre alla sua lingua troglodita avesse saputo un po’ di yankee li avrebbe chiamati fruits food facendo un figurone.Torniamo seri: sono le grandi civiltà a regalare ai popoli urbani affamati, più abituati a vivere in strada che in casa, alimenti a buon mercato, cucinati all’aperto, offerti ai clienti su fette di pane e sbafati portando con le dita il tutto alla bocca. In epoca ellenica, ad Alessandria d’Egitto, si friggeva e si vendeva il pesce lungo le arterie urbane. Ai tempi di Socrate (stiamo parlando di 2500 anni fa circa), per le strade di Atene si incontravano venditori di minestre calde di legumi. Ma è nella Roma Spqr e dell’impero che potulenta ed esculenta- cose da beive, cose da mangiä, tradurrebbe Fabrizio De André - raggiungono livelli stellari da far invidia a Massimo Bottura e Carlo Cracco.Gli scavi di Pompei e di Ercolano hanno portato alla luce i resti delle thermopolia, bottegucce che sorgevano vicino alle terme e che offrivano polpette e altri cibi già cucinati, cauponae e tabernae che s’aprivano sul foro o negli altri luoghi dove si concentrava la vita cittadina. Il pranzo in casa come lo intendiamo noi, non esisteva. Affacciati direttamente sulla strada, quei locali corrispondevano alle friggitorie, piadinerie, kebabberie, pizzerie e bar e vassoi di finger food dei tempi nostri.Il popolo, attirato dai richiami dei venditori, vi trovava di tutto e di più: puls, una sorta di polentina; globulus, polpetta di carne; farreum, focaccia di farro, minestre di fave, spiedini, pesciolini fritti e la torta di ceci, la più gettonata tra i cibi di strada. Basta un po’ di fantasia per immaginare la scena: folla vociante, richiami di ambulanti, fuochi, fumi, spintoni. Un casino in costume romano. Così lo definì Marziale lodando l’editto imperiale che, finalmente, dettò le regole a bancarellai e tavernieri: «Non più fiaschi appesi ai pilastri. Barbiere, bettoliere, friggitore, norcino; nel proprio guscio se ne sta ciascuno. Ora c’è Roma: prima era un casino».Anche nel Medioevo e nei secoli successivi, fino all’Ottocento, le classi popolari urbane vivevano gran parte della giornata per strada, dove consumavano i pasti spendendo qualche moneta in botteghe o da venditori ambulanti. Verso la fine del Settecento Wolfgang Goethe, sulle strade del Grand tour in Italia, a Napoli scatta questa istantanea che riporta ne Il viaggio in Italia: «Sulle soglie delle case, grandi padelle erano poste su focolari improvvisati. Un garzone lavorava la pasta, un altro la manipolava e ne faceva ciambelle che gettava nell’olio fumante. Un terzo, vicino alla padella, ritraeva con un piccolo spiedo le ciambelle man mano ch’eran cotte e con un altro spiedo le passava a un quarto che le offriva agli astanti».Cent’anni dopo, alla fine dell’Ottocento, migliaia di viaggiatori inglesi spediscono cartoline a casa che ritraggono scugnizzi napoletani con le mani grondanti di maccheroni acquistati nei bassi che fanno cadere nella bocca spalancata. L’altro cibo da strada venduto nel ventre di Napoli era la pizza, piegata a portafoglio. Matilde Serao scriveva: «Vi sono, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno, entro cui stanno queste fette di pizza e girano pei vicoli e danno un grido speciale, dicendo che la pizza l’hanno col pomidoro e con l’aglio, con la mozzarella e con le alici salate». La pastasciutta e la pizza, prima dell’arrivo di Garibaldi e della loro diffusione nazionale, erano il finger food dei lazzeroni napoletani.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco
Al via un tour nelle principali città italiane. Obiettivo: fornire gli strumenti per far crescere le imprese.
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