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2023-09-24
Con lo stop dell’export russo dimentichiamoci di trovare benzina e diesel sotto i 2 euro
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A sorpresa, la Russia decreta lo stop alle esportazioni di benzina e diesel verso i Paesi al di fuori della ristretta cerchia dei membri dell’Unione economica eurasiatica, ovvero Kazakistan, Armenia, Bielorussia e Kirghizistan. Il blocco viene definito temporaneo dalle autorità di Mosca, ma non è stato fornita una scadenza. «Restrizioni temporanee contribuiranno a saturare il mercato del carburante, che a sua volta ridurrà i prezzi per i consumatori», scrive il governo russo in una nota diffusa pochi giorni fa. Il divieto è a tempo indeterminato e ulteriori azioni dipenderanno dalla saturazione del mercato, secondo il viceministro russo dell’Energia, Pavel Sorokin. Secondo il ministero, il provvedimento servirebbe ad impedire le esportazioni non autorizzate di carburanti.
Negli ultimi mesi, infatti, la Russia si è trovata a corto di carburanti e i prezzi all’ingrosso sono saliti. I prezzi al dettaglio sono stati invece calmierati dal Cremlino, per cercare di contenere l’inflazione. A quanto sembra, la debolezza del rublo e il prezzo calmierato a valle hanno spinto molti operatori a privilegiare l’export, mettendo così in crisi il mercato interno. «Ci aspettiamo che il mercato ne risenta positivamente abbastanza in fretta. Ma poi tutto dipenderà dalla saturazione del mercato», ha detto Sorokin. La chiusura delle frontiere in uscita arriva dopo che nei primi venti giorni di questo mese l’export di prodotti raffinati dalla Russia era già calato drasticamente, di quasi il 30% rispetto allo stesso periodo di agosto. I timori del governo russo sono soprattutto legati alle attività agricole, di raccolta del grano segnatamente, per la quale serve molto gasolio.
La Russia è uno dei maggiori esportatori di diesel. Nel 2022, nonostante la guerra in Ucraina, il price cap e l’embargo, Mosca ha esportato 35 milioni di tonnellate di diesel. Una crisi interna dei prezzi dei combustibili, in vista dell’inverno, sarebbe un problema anche politico per Vladimir Putin, considerato che nel prossimo marzo ci saranno le elezioni presidenziali. All’annuncio, giovedì, le quotazioni del gasolio sul mercato Ice sono salite oltre i 1.000 dollari a tonnellata, per poi assestarsi poco sotto tale soglia. I prezzi internazionali di diesel e benzina sono in crescita dai primi di maggio, con riflessi che giungono anche ai distributori del nostro Paese. A portare tensione sui mercati non è solo l’improvviso blocco da parte della Russia. Già le quotazioni del greggio sono ormai stabilmente sopra i 90 dollari al barile, dopo che proprio la Russia e l’Arabia Saudita hanno annunciato il prolungamento dei tagli alla produzione fino alla fine di quest’anno. In più, le tensioni tra Armenia e Azerbaijan, grande produttore di petrolio, alimentano l’incertezza. Non ultimi, si segnalano numerosi problemi di manutenzione nelle raffinerie degli Stati Uniti. Le interruzioni delle attività di molte raffinerie americane pesano sulla possibilità di rimpinguare le scorte dei carburanti, generando così forte tensione sui prezzi. Un altro problema, dopo quello saudita, per Joe Biden. L’incredibile aumento del 50% dei guasti nei primi otto mesi di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2022 si è verificato proprio mentre si accrescevano le manutenzioni programmate, a causa del super-lavoro degli ultimi mesi. Localmente, negli Usa, i prezzi della benzina possono essere molto diversi. ll prezzo alla pompa in California è in media a 5,77 dollari al gallone (con punte di 6 a San Diego e a Los Angeles), mentre la media americana è a 3,84 (pari a circa 94 centesimi di euro al litro). Per il momento, i prezzi alla pompa in Italia reggono, nonostante l’aumento delle quotazioni all’ingrosso. Nell’ultima rilevazione ufficiale del ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) di giovedì 21 settembre il prezzo medio della benzina al self-service era di 2,00 euro al litro, mentre per il diesel, sempre self-service, il prezzo medio nazionale era di 1,94 euro al litro. Sui due combustibili grava l’accisa pari a 0,728 euro al litro nel caso della benzina e a 0,617 euro al litro nel caso del diesel. Proprio la questione politicamente delicata delle accise sui carburanti ritorna, nel nostro Paese. Il governo di Giorgia Meloni porterà in Consiglio dei ministri il prossimo lunedì, sembra, un provvedimento da 100 milioni che estende ai carburanti la possibilità di utilizzo della social card destinata a nuclei familiari con Isee al di sotto dei 15.000 euro. Non si hanno invece ancora notizie del meccanismo cosiddetto di «accisa mobile», che ridurrebbe le accise perché compensate dai maggiori introiti dell’Iva in presenza di aumenti dei prezzi. In teoria, il cosiddetto Decreto carburanti (legge 10 marzo 2023, n.23) prevede che l’accisa mobile si applichi quando nel bimestre precedente la media del prezzo in euro del petrolio Brent sia superiore a quella previsto nel Documento di economia e finanza (Def) ultimo approvato. Nell’attuale Def il petrolio era fissato a 77,4 euro al barile, mentre le quotazioni del barile sono sopra tale soglia solo dalla fine di agosto. Non ci sarebbero quindi ancora le condizioni per far scattare la salvaguardia.
Anche la Svezia frena sul green: «Sicurezza e welfare le priorità»
Bella la transizione ecologica, bello l’ambientalismo, bello tutto. Peccato solo che gli svedesi abbiano altre priorità. È questo il motivo che ha spinto il governo di Stoccolma a un brusco rallentamento sulla svolta green richiesta a gran voce dall’Unione europea. L’esecutivo di centrodestra, guidato da Ulf Kristersson e insediatosi quasi un anno fa, ha annunciato per il 2024 una riduzione dei finanziamenti per le misure ecologiste. Si parla di un taglio di circa 259 milioni di corone, cioè oltre 20 milioni di euro. Non solo: sono previste anche agevolazioni fiscali su benzina e diesel, in netta discontinuità con gli obiettivi fissati da Bruxelles. Tutto questo, ovviamente, avrà ricadute sulle emissioni di anidride carbonica: stando alle valutazioni fatte dal governo di Stoccolma, entro il 2030 ci sarà un aumento stimato fra i 5,9 e i 9,8 milioni di tonnellate, la maggior parte delle quali interesserà il settore dei trasporti. Ma perché mai la Svezia, la patria di Greta Thunberg e dell’avanguardismo green, ha deciso di operare questo deciso cambio di rotta? Perché, appunto, gli svedesi hanno altre priorità. Come ha spiegato il ministro delle Finanze, Elisabeth Svantesson, l’esecutivo deve trovare risorse per mantenere il suo Stato sociale, che è uno dei più avanzati al mondo. Senza contare i fondi che vanno destinati alla difesa e alla giustizia penale. La Svezia infatti, in questi tempi burrascosi, sta per entrare nella Nato. E i costi non sono indifferenti: Washington, com’è noto, richiede a tutti i membri dell’Alleanza atlantica di mettere il 2% del Pil a disposizione delle forze armate. In proposito, per il solo 2024, si parla di un aumento delle spese di 27 miliardi di corone svedesi, pari a circa 2,2 miliardi di euro. Non proprio noccioline. Detto dell’esercito, anche la polizia, però, chiede la sua parte: la nazione scandinava, in effetti, è piagata ormai da anni dal fenomeno delle baby gang immigrate, con diversi quartù ormai inaccessibili alle forze dell’ordine. Pure qui, pertanto, è servito l’intervento del ministero delle Finanze. Non è finita: per affrontare la crisi economica, l’inflazione e la svalutazione della corona svedese, il governo deve investire parecchi denari per incentivare il lavoro e assistere i cittadini in difficoltà. Le auto elettriche, insomma, possono aspettare. C’è poco da fare: questo è un duro colpo per gli ecomaniaci di Friday for future. Che, infatti, sono insorti, scendendo in piazza a Stoccolma. E pensare che la Svezia è il Paese che più si è speso per la transizione ecologica, tanto da fissare l’obiettivo delle emissioni zero al 2045, ossia con cinque anni di anticipo rispetto agli altri Stati membri dell’Unione europea. Quello della Svezia, tuttavia, non è un caso isolato. Anche Rishi Sunak, primo ministro del Regno Unito, ha annunciato in questi giorni che il suo governo intende rallentare la marcia verso la svolta green: «Per troppi anni», ha dichiarato, «politici in governi di ogni colore non sono stati onesti sui costi e sui cambiamenti. Hanno preso la strada più semplice, raccontando che possiamo avere tutto». Per questi motivi, Londra ha deciso di andare incontro ai contribuenti, rimandando la messa al bando di auto a benzina e di caldaie a gas. Ma se la Gran Bretagna è ormai fuori dalla Ue, grazie alla Svezia lo scetticismo ambientalista arriva direttamente nelle stanze di Bruxelles. Minacciando così di rimettere in discussione tutta la retorica apocalittica sui cambiamenti climatici.
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Il blocco alle esportazioni deciso da Mosca, insieme alla guerra in Nagorno e al taglio produttivo di Riad, farà schizzare i prezzi alla pompa. Su cui il governo ha le mani legate. Il Paese di Greta taglia il budget per il clima e annuncia l’aumento delle emissioni.Lo speciale contiene due articoli.A sorpresa, la Russia decreta lo stop alle esportazioni di benzina e diesel verso i Paesi al di fuori della ristretta cerchia dei membri dell’Unione economica eurasiatica, ovvero Kazakistan, Armenia, Bielorussia e Kirghizistan. Il blocco viene definito temporaneo dalle autorità di Mosca, ma non è stato fornita una scadenza. «Restrizioni temporanee contribuiranno a saturare il mercato del carburante, che a sua volta ridurrà i prezzi per i consumatori», scrive il governo russo in una nota diffusa pochi giorni fa. Il divieto è a tempo indeterminato e ulteriori azioni dipenderanno dalla saturazione del mercato, secondo il viceministro russo dell’Energia, Pavel Sorokin. Secondo il ministero, il provvedimento servirebbe ad impedire le esportazioni non autorizzate di carburanti.Negli ultimi mesi, infatti, la Russia si è trovata a corto di carburanti e i prezzi all’ingrosso sono saliti. I prezzi al dettaglio sono stati invece calmierati dal Cremlino, per cercare di contenere l’inflazione. A quanto sembra, la debolezza del rublo e il prezzo calmierato a valle hanno spinto molti operatori a privilegiare l’export, mettendo così in crisi il mercato interno. «Ci aspettiamo che il mercato ne risenta positivamente abbastanza in fretta. Ma poi tutto dipenderà dalla saturazione del mercato», ha detto Sorokin. La chiusura delle frontiere in uscita arriva dopo che nei primi venti giorni di questo mese l’export di prodotti raffinati dalla Russia era già calato drasticamente, di quasi il 30% rispetto allo stesso periodo di agosto. I timori del governo russo sono soprattutto legati alle attività agricole, di raccolta del grano segnatamente, per la quale serve molto gasolio.La Russia è uno dei maggiori esportatori di diesel. Nel 2022, nonostante la guerra in Ucraina, il price cap e l’embargo, Mosca ha esportato 35 milioni di tonnellate di diesel. Una crisi interna dei prezzi dei combustibili, in vista dell’inverno, sarebbe un problema anche politico per Vladimir Putin, considerato che nel prossimo marzo ci saranno le elezioni presidenziali. All’annuncio, giovedì, le quotazioni del gasolio sul mercato Ice sono salite oltre i 1.000 dollari a tonnellata, per poi assestarsi poco sotto tale soglia. I prezzi internazionali di diesel e benzina sono in crescita dai primi di maggio, con riflessi che giungono anche ai distributori del nostro Paese. A portare tensione sui mercati non è solo l’improvviso blocco da parte della Russia. Già le quotazioni del greggio sono ormai stabilmente sopra i 90 dollari al barile, dopo che proprio la Russia e l’Arabia Saudita hanno annunciato il prolungamento dei tagli alla produzione fino alla fine di quest’anno. In più, le tensioni tra Armenia e Azerbaijan, grande produttore di petrolio, alimentano l’incertezza. Non ultimi, si segnalano numerosi problemi di manutenzione nelle raffinerie degli Stati Uniti. Le interruzioni delle attività di molte raffinerie americane pesano sulla possibilità di rimpinguare le scorte dei carburanti, generando così forte tensione sui prezzi. Un altro problema, dopo quello saudita, per Joe Biden. L’incredibile aumento del 50% dei guasti nei primi otto mesi di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2022 si è verificato proprio mentre si accrescevano le manutenzioni programmate, a causa del super-lavoro degli ultimi mesi. Localmente, negli Usa, i prezzi della benzina possono essere molto diversi. ll prezzo alla pompa in California è in media a 5,77 dollari al gallone (con punte di 6 a San Diego e a Los Angeles), mentre la media americana è a 3,84 (pari a circa 94 centesimi di euro al litro). Per il momento, i prezzi alla pompa in Italia reggono, nonostante l’aumento delle quotazioni all’ingrosso. Nell’ultima rilevazione ufficiale del ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) di giovedì 21 settembre il prezzo medio della benzina al self-service era di 2,00 euro al litro, mentre per il diesel, sempre self-service, il prezzo medio nazionale era di 1,94 euro al litro. Sui due combustibili grava l’accisa pari a 0,728 euro al litro nel caso della benzina e a 0,617 euro al litro nel caso del diesel. Proprio la questione politicamente delicata delle accise sui carburanti ritorna, nel nostro Paese. Il governo di Giorgia Meloni porterà in Consiglio dei ministri il prossimo lunedì, sembra, un provvedimento da 100 milioni che estende ai carburanti la possibilità di utilizzo della social card destinata a nuclei familiari con Isee al di sotto dei 15.000 euro. Non si hanno invece ancora notizie del meccanismo cosiddetto di «accisa mobile», che ridurrebbe le accise perché compensate dai maggiori introiti dell’Iva in presenza di aumenti dei prezzi. In teoria, il cosiddetto Decreto carburanti (legge 10 marzo 2023, n.23) prevede che l’accisa mobile si applichi quando nel bimestre precedente la media del prezzo in euro del petrolio Brent sia superiore a quella previsto nel Documento di economia e finanza (Def) ultimo approvato. Nell’attuale Def il petrolio era fissato a 77,4 euro al barile, mentre le quotazioni del barile sono sopra tale soglia solo dalla fine di agosto. Non ci sarebbero quindi ancora le condizioni per far scattare la salvaguardia.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/stop-dellexport-russo-benzina-diesel-2665723759.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="anche-la-svezia-frena-sul-green-sicurezza-e-welfare-le-priorita" data-post-id="2665723759" data-published-at="1695543964" data-use-pagination="False"> Anche la Svezia frena sul green: «Sicurezza e welfare le priorità» Bella la transizione ecologica, bello l’ambientalismo, bello tutto. Peccato solo che gli svedesi abbiano altre priorità. È questo il motivo che ha spinto il governo di Stoccolma a un brusco rallentamento sulla svolta green richiesta a gran voce dall’Unione europea. L’esecutivo di centrodestra, guidato da Ulf Kristersson e insediatosi quasi un anno fa, ha annunciato per il 2024 una riduzione dei finanziamenti per le misure ecologiste. Si parla di un taglio di circa 259 milioni di corone, cioè oltre 20 milioni di euro. Non solo: sono previste anche agevolazioni fiscali su benzina e diesel, in netta discontinuità con gli obiettivi fissati da Bruxelles. Tutto questo, ovviamente, avrà ricadute sulle emissioni di anidride carbonica: stando alle valutazioni fatte dal governo di Stoccolma, entro il 2030 ci sarà un aumento stimato fra i 5,9 e i 9,8 milioni di tonnellate, la maggior parte delle quali interesserà il settore dei trasporti. Ma perché mai la Svezia, la patria di Greta Thunberg e dell’avanguardismo green, ha deciso di operare questo deciso cambio di rotta? Perché, appunto, gli svedesi hanno altre priorità. Come ha spiegato il ministro delle Finanze, Elisabeth Svantesson, l’esecutivo deve trovare risorse per mantenere il suo Stato sociale, che è uno dei più avanzati al mondo. Senza contare i fondi che vanno destinati alla difesa e alla giustizia penale. La Svezia infatti, in questi tempi burrascosi, sta per entrare nella Nato. E i costi non sono indifferenti: Washington, com’è noto, richiede a tutti i membri dell’Alleanza atlantica di mettere il 2% del Pil a disposizione delle forze armate. In proposito, per il solo 2024, si parla di un aumento delle spese di 27 miliardi di corone svedesi, pari a circa 2,2 miliardi di euro. Non proprio noccioline. Detto dell’esercito, anche la polizia, però, chiede la sua parte: la nazione scandinava, in effetti, è piagata ormai da anni dal fenomeno delle baby gang immigrate, con diversi quartù ormai inaccessibili alle forze dell’ordine. Pure qui, pertanto, è servito l’intervento del ministero delle Finanze. Non è finita: per affrontare la crisi economica, l’inflazione e la svalutazione della corona svedese, il governo deve investire parecchi denari per incentivare il lavoro e assistere i cittadini in difficoltà. Le auto elettriche, insomma, possono aspettare. C’è poco da fare: questo è un duro colpo per gli ecomaniaci di Friday for future. Che, infatti, sono insorti, scendendo in piazza a Stoccolma. E pensare che la Svezia è il Paese che più si è speso per la transizione ecologica, tanto da fissare l’obiettivo delle emissioni zero al 2045, ossia con cinque anni di anticipo rispetto agli altri Stati membri dell’Unione europea. Quello della Svezia, tuttavia, non è un caso isolato. Anche Rishi Sunak, primo ministro del Regno Unito, ha annunciato in questi giorni che il suo governo intende rallentare la marcia verso la svolta green: «Per troppi anni», ha dichiarato, «politici in governi di ogni colore non sono stati onesti sui costi e sui cambiamenti. Hanno preso la strada più semplice, raccontando che possiamo avere tutto». Per questi motivi, Londra ha deciso di andare incontro ai contribuenti, rimandando la messa al bando di auto a benzina e di caldaie a gas. Ma se la Gran Bretagna è ormai fuori dalla Ue, grazie alla Svezia lo scetticismo ambientalista arriva direttamente nelle stanze di Bruxelles. Minacciando così di rimettere in discussione tutta la retorica apocalittica sui cambiamenti climatici.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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