A luglio più della metà degli italiani avrà in busta paga 200 euro. E a giugno arriverà anche il «contentino» del governo per i ministeriali: 3500 euro lordi di aumenti legati al rinnovo del contratto. In media, naturalmente.
E solo per gli arretrati degli ultimi tre anni (2019-2021). Ma c’è anche chi porterà a casa fino a 6509 euro lordi, grazie alle indennità. Così almeno dovrebbe avvenire per i lavoratori pubblici della difesa, degli interni e dei beni culturali. A partire dallo stesso mese scatterà l’ aumento contrattuale che al mese oscilla fra 117 e 120 euro.
Festa, sia pure magra, per una platea di circa 200 mila persone. Anche perché intanto l’inflazione galoppa e ha già ampiamente mangiato gli aumenti appena concordati dai sindacati con il ministro della funzione pubblica, Renato Brunetta. Non a caso al momento della firma del rinnovo contrattuale con l’Aran i sindacati sono stati particolarmente critici.
«Il nuovo contratto nasce già scaduto e giunge alla fine di un lungo iter di approvazione durato oltre quattro mesi dalla firma della preintesa, avvenuta all’inizio di gennaio» aveva spiegato al momento della firma il segretario generale della Federazione Lavoratori Pubblici e funzioni pubbliche (FLP) Marco Carlomagno.
«Non possiamo certo essere soddisfatti degli aumenti stipendiali in senso stretto, vista anche l’inflazione che ha ricominciato a correre negli ultimi mesi, né delle manovre dilatorie del governo, che ha ritardato in ogni modo possibile la firma definitiva per rinviare il pagamento degli arretrati» aveva aggiunto.
Cionostante la Flp identificava alcuni tratti positivi: «Malgrado le criticità siamo soddisfatti per le potenzialità innovative di questo contratto - aveva concluso il rappresentante sindacale -. La contrattazione integrativa dei nuovi istituti contrattuali può portare a un ammodernamento della struttura organizzativa dello Stato». Bisognerà vedere quali saranno ora i risultati che verranno fuori per il rinnovo del contratto della scuola, al primo round di negoziazione. E con lo sciopero al 30 maggio.
Da tempo, Luca Casarini preferisce il mare alla terra ferma. Tolta la tuta bianca che lo aveva reso famoso, ha iniziato a indossare il salvagente e a navigare attorno alle coste della Libia alla disperata ricerca di migranti da salvare. Da disobbediente è diventato credente, anche se solo in ciò che gli fa comodo, imbarcando un don Chichì, per dirla con Giovannino Guareschi, come Mattia Ferrari.
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
È noto da tempo che le regole Ue, dai Trattati in giù, siano dotate di eccezionale flessibilità, in modo da essere applicate ai nemici e interpretate per gli amici. Ma ciò che sta accadendo pur di erogare un prestito (di fatto un sussidio) all’Ucraina rischia davvero di superare ogni limite di fantasia legale e finanziaria.
Il primo ostacolo era la procedura in forma scritta per prorogare a tempo indeterminato la sanzione del sequestro degli asset russi (circa 210 miliardi di euro immobilizzati e detenuti in gran parte presso il depositario belga Euroclear). Proprio ieri, è arrivata l’adozione a maggioranza qualificata da parte del Consiglio della proposta basata sull’articolo 122 del Tfue, che permette di agire in caso di emergenze economiche gravi, senza richiedere l’unanimità. Come prevedibile, l’Ungheria ha già annunciato ricorso alla Corte di Giustizia Ue, definendo la mossa «illegale».
Su questo punto, si sprecano i dubbi dei giuristi - da ultimo Marina Castellaneta sul Sole 24 Ore di ieri - sulla legittimità di questa scelta.
Ma il peggio, se possibile, è ancora davanti a noi. Perché si sta preparando, sempre che la Bce accetti di «fare il palo», un’operazione di finanziamento monetario degli Stati membri, vietata dai Trattati. In questo senso, una spia di allarme si era già accesa mercoledì scorso, leggendo l’intervista dell’amministratore delegato di Euroclear, Valerie Urbain, sul Corriere della Sera.
Il timore della Urbain è che se la Ue costringesse Euroclear a cedere la liquidità (e non anche altre attività finanziarie, si badi bene) dei russi immobilizzata nei loro conti, contro un «pagherò» firmato dalla Commissione improduttivo di interessi, si realizzerebbe una confisca di quei beni russi con tutte le conseguenze sulla stabilità finanziaria e sull’affidabilità del mercato dei capitali europeo.
Accadrebbe infatti che, qualora i russi vedessero riconosciuto il loro diritto a vedersi restituire quelle somme, Euroclear non avrebbe più un centesimo in cassa, ma solo un inservibile «pagherò» della Ue. Che la Ue potrebbe onorare soltanto se e quando la Russia pagasse i danni di guerra all’Ucraina, in modo da permettere a quest’ultima di rimborsare Bruxelles. Roba da fantapolitica. È quindi necessario che Euroclear abbia la liquidità necessaria per restituire i soldi ai russi e c’è solo una banca in grado di prendere il «pezzo di carta» della Commissione in garanzia per erogare un prestito di liquidità al depositario belga: la Bce. Ed è proprio lo scenario ipotizzato nell’intervista, quando la Urbain ha risposto che se la Commissione offrisse un titolo di credito «che dia interessi e che dunque la Bce accetti», si andrebbe «in una direzione migliore: sarebbe uno strumento rivendibile in cui possiamo investire».
Da qui si può dedurre - perché se la Bce fosse stata contraria, la Urbain avrebbe dovuto dirlo - che lo spazio a Francoforte c’è. Tanto è vero che la domanda se avesse parlato di questo a Ursula von der Leyen ha ricevuto una risposta possibilista (Be’, stiamo discutendo…).
Quindi è uno scenario concreto che la Bce - pur di non vedere Euroclear diventare insolvente davanti al rimborso dei fondi ai russi, come espressamente ammesso dalla Urbain - crei liquidità dal nulla per fornire un prestito a Euroclear, e accetti come garanzia dai belgi il «pagherò» della Ue, munito delle garanzie pro-quota di tutti gli Stati membri e del bilancio Ue.
È notizia di ieri pomeriggio che la Banca Centrale russa ha citato in giudizio Euroclear davanti al tribunale di Mosca accusando l’istituzione belga di aver reso inaccessibili fondi e titoli con azioni illegali e chiedendo danni pari al valore dei fondi, dei titoli e dei mancati guadagni. La Russia promette di contestare la misura in ogni tribunale internazionale e minaccia ritorsioni, tra cui il sequestro di 17 miliardi di Euroclear detenuti in Russia e possibili nazionalizzazioni.
E qui si concretizza lo scenario del finanziamento monetario. Perché se la Russia non pagasse i danni di guerra o, ancora prima, vedesse riconosciuto il suo diritto al rimborso di quei fondi sequestrati in Belgio, chi rimarrà col cerino in mano sarà Christine Lagarde.
Infatti, a cascata, l’Ucraina non rimborserà il prestito alla Ue, la Ue non rimborserà Euroclear e quest’ultima utilizzerà il prestito Bce per rimborsare i russi, lasciando la garanzia in mano alla Bce. Così a Francoforte si vedranno costretti a chiedere alla Commissione di onorare il «pagherò» ed escutere le garanzie degli Stati membri, a meno di non voler subire una perdita patrimoniale comunque priva di effetti concreti, perché la Bce non potrà mai essere insolvente in euro.
Una versione più raffinata di questa struttura è stata ipotizzata sul Financial Times il 7 dicembre, sempre terminante col cerino in mano alla Bce e in cui si ammette che l’alternativa, costituita dall’emissione di debito comune, non esiste, perché la «capacità di indebitamento della Ue e degli Stati membri è limitata».
Di fronte a tale marchingegno finanziario e legale, la memoria va immediatamente ai tanti «non si può… non ci sono i soldi… è vietato dai Trattati, ecc…» che ascoltiamo in modo ricorrente quando si respingono richieste di fondi per la sanità, l’istruzione, le pensioni o per un taglio di tasse.
Qui sono al lavoro da settimane per tirare come una molla tutte le regole e permettere alla Bce di stampare 90 miliardi con un click e farli partire, via Euroclear e Ue, verso Kiev. Il 18 dicembre ci sarà la decisione finale del Consiglio Europeo e il trucco di questo gioco delle tre carte sarà svelato.
Non c’è solo il mondo al contrario raccontato dal generale Roberto Vannacci, c’è anche quello delle nostre istituzioni. La storia che stiamo per raccontarvi lo dimostra. Ieri Lettera43, sito di informazione finanziaria fondato da Paolo Madron, ha annunciato che Francesco De Dominicis, responsabile della comunicazione del più importante sindacato dei bancari, la Fabi, è stato costretto al passo indietro. La sua colpa? Essere sospettato di aver passato a questo giornale la chiacchierata senza freni, in un ristorante romano, del consigliere per la Difesa di Sergio Mattarella. Ricordate la vicenda? Francesco Saverio Garofani, segretario del Consiglio supremo di Difesa, in una cena di romanisti s’era lasciato andare, parlando del governo e dell’opposizione, di provvidenziali scossoni che cambiassero gli scenari politici e di quanto fossero inconsistenti gli attuali vertici dell’opposizione.
Il senso era chiaro: se non si fa qualche cosa per fermarla, Giorgia Meloni ce la ritroviamo anche alla prossima legislatura. Peccato che il presidente del Consiglio, insieme con quello della Repubblica, e in compagnia dei principali ministri che compongono l’attuale governo, sieda proprio a fianco del consigliere chiacchierone e impiccione. E dunque, appena La Verità ha pubblicato la notizia della cena e soprattutto riportato le improvvide frasi, ne è nato un caso politico. Come può un consigliere del capo dello Stato parlare in pubblico di cose del genere? Come si può accettare che un funzionario del Quirinale, che deve garantire la terzietà fra le forze politiche e che siede in un organismo che definisce indirizzi e coordina la politica militare e di sicurezza nazionale, si esprima come se fosse un parlamentare del Pd? Francesco Saverio Garofani non è un militare né un tecnico esperto di Difesa, ma un ex giornalista cresciuto nelle testate della Dc e un ex deputato di lungo corso del Partito democratico. Ma questo non lo autorizza a coltivare strategie politiche mentre occupa una posizione importante sul Colle.
La polemica ha generato forti tensioni fra il Quirinale e la maggioranza e anche con Palazzo Chigi, soprattutto perché, invece di smentire le frasi, il consigliere di Mattarella le ha sostanzialmente confermate con un’intervista al Corriere della Sera, in cui si è difeso dicendo che quelle riportate erano «quattro chiacchiere fra amici». Il buon senso, ma anche il senso delle istituzioni, avrebbe consigliato un passo indietro. Aver messo in imbarazzo il presidente della Repubblica e aver creato una frizione con il governo, in altri tempi, cioè quando le istituzioni non avevano porte girevoli a disposizione della politica, avrebbe comportato un’assunzione di responsabilità. Ma Francesco Saverio Garofani se n’è stato tranquillo al suo posto senza fare nemmeno un plissé e – c’è da scommetterci – siederà a fianco di Mattarella, ma anche di Giorgia Meloni e dei vertici delle Forze armate, al prossimo Consiglio supremo di Difesa. Chi invece sarebbe stato sollevato dall’incarico (o comunque in procinto di esserlo, magari con un accordo consensuale) sarebbe secondo Lettera43 il capo della comunicazione della Fabi, perché accusato di essere la talpa che ha passato la notizia al nostro giornale. In pratica, a pagare per le frasi di Garofani non sarebbe lo stesso Garofani, ma un altro. La cui colpa è di essersi trovato, con una ventina di altre persone, a una cena (non di lavoro ma di tifosi) in un ristorante romano. Cioè si caccerebbe chi è sospettato di aver raccontato le surreali frasi di Garofani e non l’autore delle frasi.
Se «l’allontanamento» di De Dominicis fosse vero (la Fabi ieri sera ha smentito le dimissioni) si dimostrerebbe non solo che il mondo è davvero al contrario, come dice Vannacci, ma che esiste una Casta di intoccabili che si crede al di sopra di tutto e di tutti, che non risponde all’opinione pubblica, ma che copre le proprie piccole e grandi marachelle inaugurando una caccia alle streghe. Più che una Repubblica la nostra sembra una monarchia…





