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2022-11-16
Gli spericolati rapporti della Turchia con l'Isis e un attentato ancora tutto da decifrare
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Ansa
La polizia turca ha diffuso lunedì mattina una serie di fotografie e video della presunta attentatrice di Istanbul. Si tratta di una donna arabo-siriana di nome Ahlam Albashir, che è stata arrestata nella notte tra domenica e lunedì insieme ad altre 46 persone accusate di essere coinvolte nella rete che ha organizzato e coordinato l'attacco terroristico di domenica scorsa avvenuto nella trafficata via dello shopping di Istiqlal, nel cuore della città. Analizzando il video non si possono non notare una serie di incongruenze a partire dal fatto che la persona ripresa dalle telecamere di sicurezza e quella arrestata non sembrano la stessa persona.
Ma allora chi è questa donna apparsa visibilmente provata dopo gli interrogatori? Fino a ieri nessuno ne aveva mai sentito parlare ma le autorità turche hanno dichiarato: «Ha confessato di essere stata addestrata come ufficiale dell'intelligence speciale dal Partito dei lavoratori del Kurdistan». Secondo le autorità di Ankara la donna avrebbe anche detto di essere entrata clandestinamente in Turchia attraverso il confine colabrodo della città siriana di Afrin, che è controllata dalle milizie siriane filo-turche. Il ministro dell'interno turco Suleyman Soylu non ha dubbi: «L'ordine dell'attacco sarebbe venuto però da Kobane», la capitale del Rojava, l'amministrazione curda che ha il controllo del Nord-Est della Siria, che i turchi vorrebbero passasse presto nelle loro mani. Quindi se non sono stati i gruppi islamisti che non hanno rivendicato l’azione, è stato il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk)? Forse sì, ma questi hanno smentito qualsiasi loro coinvolgimento sul sito Firat News: «Il nostro popolo e il pubblico democratico sanno che non siamo collegati a questo incidente, che non prenderemo di mira direttamente i civili», si legge nel comunicato nel quale però si omette il fatto che in passato ci sono stati diversi attentati organizzati dal Pkk in Turchia che hanno fatto diverse vittime anche tra i civili. Ma se non sono stati l’Isis, al-Qaeda o qualcuna delle molte milizie islamiste armate e non è stato nemmeno il Pkk, chi ha ordinato di mettere la bomba domenica scorsa a Istanbul? In Turchia qualsiasi vicenda resta sempre sospesa tra il vero e il falso, basti pensare al «golpe di cartone» del luglio 2016. I mezzi di informazione ormai tutti al servizio del regime islamista non possono fare nulla dopo le centinaia di arresti di giornalisti e la chiusura dei giornali non allineati con il potere.
La consegna dei foreign fighters da parte di Hayat Tahrir al-Sham all'intelligence turca

A proposito dei rapporti spericolati del regime islamista di Ankara c’è la recente vicenda della consegna di jihadisti stranieri alla Turchia da parte di Hayat Tahrir al-Sham (Hts, già Fronte al-Nusra), in cambio della rimozione dalle liste dei terroristi internazionali. Hts, conosciuta anche come Organizzazione per la liberazione del Levante, fa risalire i suoi inizi all'inizio della guerra civile siriana ed è rimasta una pericolosa forza di opposizione per tutta la durata del conflitto. Nel maggio 2018, il gruppo è stato aggiunto alla designazione esistente del Dipartimento di Stato del suo predecessore, l'affiliato di al-Qaeda Jabhat al-Nusra, come organizzazione terroristica straniera (Fto). Oggi, Hts può essere considerata un'organizzazione terroristica siriana relativamente localizzata, che conserva un'ideologia salafita-jihadista nonostante la sua separazione pubblica da al-Qaeda nel 2017. La consegna dei foreign fighters ha scatenato la rabbia dei jihadisti che si oppongono al gruppo nella provincia Nord-occidentale di Idlib, in Siria. Saleh al-Hamwi, un ex leader jihadista, ha scritto in un tweet: «Quello che faceva in segreto è diventato pubblico oggi. Hts ha consegnato alla Turchia oltre 50 detenuti stranieri e in precedenza ha presentato file terroristici ai servizi di intelligence occidentali, il che ha spinto l'International Crisis Group e il Syrian Dialogue Center a chiedere di rimuoverlo dalle liste dei terroristi e di farne un partner nella lotta al terrorismo». In realtà l'International Crisis Group non ha chiesto direttamente la cancellazione dall'elenco di Hts, ma in un rapporto del febbraio 2021 ha affermato che «Washington, in collaborazione con Ankara e gli alleati europei dovrebbe fare pressioni sul gruppo affinché affronti le principali preoccupazioni locali e internazionali e definisca chiaramente i parametri di riferimento che (se rispettati) potrebbero consentire a Hts di liberarsi della sua etichetta di terrorista». Ma chi sono questi 50 combattenti stranieri arrestati negli anni? Secondo fonti che si sono rifiutate di rivelare i loro nomi, la maggior parte di coloro che sono stati consegnati erano affiliati allo Stato islamico, mentre altri appartengono a Hurras al-Din, che si oppone a Hts. I detenuti sono di nazionalità francese, marocchina, saudita e turca. E cosa se ne fanno i turchi? Servono nell'ambito dei negoziati e ai servizi di intelligence dei paesi di origine dei detenuti. Un leader vicino a Hts, soprannominato Abu Khaled al-Homsi, ha detto ad al-Monitor: «É normale consegnare ad Ankara individui di nazionalità turca, anche quelli appartenenti all'Isis. Hts ha la sua legge e le sue prigioni e non ha bisogno di consegnare i detenuti in nessun paese. Lo fa solo nel caso in cui fossero turchi e stessero combattendo a fianco dell'Isis e avrebbero pianificato di effettuare attacchi contro Hts o contro la Turchia». A questo proposito sono di grande interesse le dichiarazioni di Omar Abu Hafs, un ex leader jihadista che vive a Idlib: «Hts ha sempre collaborato con la Turchia in tutti i campi e ha consegnato molti agenti alle autorità turche. Ha i suoi obiettivi politici, vale a dire cercare di rimuovere il suo nome dalle liste dei terroristi. La Turchia potrebbe aiutare Hts a raggiungere questo obiettivo attraverso le sue relazioni con gli Stati Uniti. Questo è il motivo per cui Hts desidera rafforzare i suoi legami con la Turchia».
Nonostante i rapporti obliqui, l'Isis resta una minaccia per la Turchia

Non è un segreto per nessuno che i circa 5.000 foreign fighters accorsi negli anni nel «Siraq» per combattere la loro «guerra santa» sotto le bandiere nere del califfato, sono arrivati in Siria attraverso i confini resi colabrodo dai turchi che, in funzione anti-Assad, hanno lasciato fare anche perché nel frattempo vi furono moltissimi affari tra l’Isis che rubava il petrolio in Iraq e la Turchia che ha venduto armi e munizioni ai jihadisti. E in questi sporchi affari chi c’era? Nel 2016 Wikileaks ha pubblicato un archivio di 58.000 e-mail, documentando il coinvolgimento diretto del genero di Erdogan, Berat Albayrak, nel sostenere il mercato illegale del petrolio dell'Isis. Fino alla pubblicazione di quelle e-mail, il genero di Erdogan e lo stesso presidente turco avevano sempre negato il coinvolgimento nel mercato del petrolio jihadista. Poi dopo la pubblicazione di Wikileaks la vicenda è finita nel dimenticatoio. A pagare sono stati solo alcuni coraggiosi magistrati che indagarono e i giornalisti che ne scrissero che sono condannati all’ergastolo con accuse di «terrorismo. E dove sono finiti i soldi di tutti quei traffici? Per quanto riguarda l’Isis non è un caso che entrambi i califfi, Abu Bakr Al-Baghdadi (Barisha+2019) e il suo successore Abū Ibrāhīm al-Hāshimī al-Qurashi (Atme +2022), hanno trovato la morte in due villaggi siriani attaccati proprio al confine con la Turchia che volevano raggiungere perché è nelle banche turche che si trova il tesoro milionario dello Stato islamico. Sempre dal confine turco-siriano sono scappati per tempo molti jihadisti che in cambio di 3.000-5.000 dollari fatti scivolare nelle tasche della polizia di frontiera turca si sono rifatti una vita nel Paese della mezzaluna protetti da un Paese amico nel quale molti di loro hanno avviato interessanti business. Ogni tanto i servizi segreti turchi ne arrestano qualcuno ma si tratta sempre di pesci piccoli che servono a dimostrare ai governi occidentali che Ankara lotta contro i terroristi e a mandare messaggi all’interno della Turchia.
L’Isis, nonostante i rapporti a dir poco obliqui, resta una minaccia costante per la Turchia che guarda con preoccupazione al fatto che lo Stato islamico in Siria e in Iraq, durante il periodo pandemico, è riuscito nell’impresa titanica di riorganizzarsi. Ad affermarlo è il responsabile dell'antiterrorismo delle Nazioni Unite, Vladimir Voronkov, che ha presentato al Consiglio di sicurezza l'ultima relazione sul tema. Secondo il documento circa 10.000 miliziani dell'Isis (numero arrotondato per difetto) sono tutt’ora operativi nel «Siraq» e tutto questo nonostante l'organizzazione terroristica internazionale sia stata dichiarata militarmente sconfitta più di tre anni fa in Siria e più di cinque anni fa in Iraq. Il capo dell'antiterrorismo delle Nazioni Unite ha anche avvertito il Consiglio di sicurezza che il confine tra Iraq e Siria «rimane altamente vulnerabile ed è da li che il gruppo ha lanciato ad aprile una campagna globale di attività operative rafforzate per vendicare alti dirigenti uccisi in operazioni antiterrorismo».
Mentre scriviamo si apprende che con una mossa simbolica il governo del presidente Erdoğan ha designato una donna azera, cittadina naturalizzata turca, come membro dello Stato islamico in Iraq e Siria e ha congelato i suoi beni un mese dopo che era stata tranquillamente assolta e lasciata andare da un tribunale. Ulkar Mammadova, alias Hacer, è un'azera di 35 anni che ha sposato il leader turco dell'Isis Mustafa Dokumacı in Turchia e si è trasferita nel territorio controllato dallo Stato islamico nella provincia siriana di Idlib nel 2014. Era ricercata dall'agosto 2015 a causa di il suo presunto coinvolgimento in complotti e attentati dell'Isis avvenuti in Turchia. Suo marito guidava una cellula nella provincia sud-orientale di Adıyaman che in seguito divenne nota come Mustafa Dokumacı Group nella rete Isis.
La cellula è stata coinvolta nell'attacco terroristico più mortale della Turchia, il 10 ottobre 2015, quando gli attentatori suicidi dell'Isis hanno ucciso 103 persone davanti alla stazione ferroviaria di Ankara. Uno degli attentatori suicidi, Yunus Emre Alagöz, era un protetto di Dokumacı che ha viaggiato con lui in Siria. L'intelligence turca ritiene che Mammadova potrebbe essere uno dei numerosi attentatori suicidi e sarebbe in grado di organizzare un attacco terroristico in Turchia. È stata inserita nell'elenco dei terroristi ricercati in Turchia e all'Interpol è stato presentato un avviso rosso per il suo arresto. Nonostante questo il collegio di tre giudici ha accolto la mozione della difesa e ha deciso per la sua assoluzione e il suo rilascio alla prima udienza e ha rimosso un divieto di volo precedentemente emesso per lei. L'unica punizione è una multa per aver attraversato illegalmente il confine turco-siriano al suo ritorno.
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La guerra in Ucraina prima e l’attentato di domenica scorsa a Istanbul dai contorni a dir poco misteriosi, stanno contribuendo a silenziare tutta una serie di vicende che si giocano in Siria e nel Paese della mezzaluna.L’Isis, nonostante i rapporti a dir poco obliqui, resta una minaccia costante per Ankara che guarda con preoccupazione al fatto che lo Stato islamico in Siria e in Iraq, durante il periodo pandemico, è riuscito nell’impresa titanica di riorganizzarsi.Secondo le Nazioni Unite, sono circa 10.000 i miliziani dell'Isis tutt’ora operativi nel «Siraq», nonostante l'organizzazione terroristica internazionale sia stata dichiarata militarmente sconfitta più di tre anni fa in Siria e più di cinque anni fa in Iraq.Lo speciale contiene tre articoli.La polizia turca ha diffuso lunedì mattina una serie di fotografie e video della presunta attentatrice di Istanbul. Si tratta di una donna arabo-siriana di nome Ahlam Albashir, che è stata arrestata nella notte tra domenica e lunedì insieme ad altre 46 persone accusate di essere coinvolte nella rete che ha organizzato e coordinato l'attacco terroristico di domenica scorsa avvenuto nella trafficata via dello shopping di Istiqlal, nel cuore della città. Analizzando il video non si possono non notare una serie di incongruenze a partire dal fatto che la persona ripresa dalle telecamere di sicurezza e quella arrestata non sembrano la stessa persona. Ma allora chi è questa donna apparsa visibilmente provata dopo gli interrogatori? Fino a ieri nessuno ne aveva mai sentito parlare ma le autorità turche hanno dichiarato: «Ha confessato di essere stata addestrata come ufficiale dell'intelligence speciale dal Partito dei lavoratori del Kurdistan». Secondo le autorità di Ankara la donna avrebbe anche detto di essere entrata clandestinamente in Turchia attraverso il confine colabrodo della città siriana di Afrin, che è controllata dalle milizie siriane filo-turche. Il ministro dell'interno turco Suleyman Soylu non ha dubbi: «L'ordine dell'attacco sarebbe venuto però da Kobane», la capitale del Rojava, l'amministrazione curda che ha il controllo del Nord-Est della Siria, che i turchi vorrebbero passasse presto nelle loro mani. Quindi se non sono stati i gruppi islamisti che non hanno rivendicato l’azione, è stato il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk)? Forse sì, ma questi hanno smentito qualsiasi loro coinvolgimento sul sito Firat News: «Il nostro popolo e il pubblico democratico sanno che non siamo collegati a questo incidente, che non prenderemo di mira direttamente i civili», si legge nel comunicato nel quale però si omette il fatto che in passato ci sono stati diversi attentati organizzati dal Pkk in Turchia che hanno fatto diverse vittime anche tra i civili. Ma se non sono stati l’Isis, al-Qaeda o qualcuna delle molte milizie islamiste armate e non è stato nemmeno il Pkk, chi ha ordinato di mettere la bomba domenica scorsa a Istanbul? In Turchia qualsiasi vicenda resta sempre sospesa tra il vero e il falso, basti pensare al «golpe di cartone» del luglio 2016. I mezzi di informazione ormai tutti al servizio del regime islamista non possono fare nulla dopo le centinaia di arresti di giornalisti e la chiusura dei giornali non allineati con il potere.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/spericolati-rapporti-turchia-isis-attentato-2658668913.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-consegna-dei-foreign-fighters-da-parte-di-hayat-tahrir-al-sham-all-intelligence-turca" data-post-id="2658668913" data-published-at="1668605130" data-use-pagination="False"> La consegna dei foreign fighters da parte di Hayat Tahrir al-Sham all'intelligence turca A proposito dei rapporti spericolati del regime islamista di Ankara c’è la recente vicenda della consegna di jihadisti stranieri alla Turchia da parte di Hayat Tahrir al-Sham (Hts, già Fronte al-Nusra), in cambio della rimozione dalle liste dei terroristi internazionali. Hts, conosciuta anche come Organizzazione per la liberazione del Levante, fa risalire i suoi inizi all'inizio della guerra civile siriana ed è rimasta una pericolosa forza di opposizione per tutta la durata del conflitto. Nel maggio 2018, il gruppo è stato aggiunto alla designazione esistente del Dipartimento di Stato del suo predecessore, l'affiliato di al-Qaeda Jabhat al-Nusra, come organizzazione terroristica straniera (Fto). Oggi, Hts può essere considerata un'organizzazione terroristica siriana relativamente localizzata, che conserva un'ideologia salafita-jihadista nonostante la sua separazione pubblica da al-Qaeda nel 2017. La consegna dei foreign fighters ha scatenato la rabbia dei jihadisti che si oppongono al gruppo nella provincia Nord-occidentale di Idlib, in Siria. Saleh al-Hamwi, un ex leader jihadista, ha scritto in un tweet: «Quello che faceva in segreto è diventato pubblico oggi. Hts ha consegnato alla Turchia oltre 50 detenuti stranieri e in precedenza ha presentato file terroristici ai servizi di intelligence occidentali, il che ha spinto l'International Crisis Group e il Syrian Dialogue Center a chiedere di rimuoverlo dalle liste dei terroristi e di farne un partner nella lotta al terrorismo». In realtà l'International Crisis Group non ha chiesto direttamente la cancellazione dall'elenco di Hts, ma in un rapporto del febbraio 2021 ha affermato che «Washington, in collaborazione con Ankara e gli alleati europei dovrebbe fare pressioni sul gruppo affinché affronti le principali preoccupazioni locali e internazionali e definisca chiaramente i parametri di riferimento che (se rispettati) potrebbero consentire a Hts di liberarsi della sua etichetta di terrorista». Ma chi sono questi 50 combattenti stranieri arrestati negli anni? Secondo fonti che si sono rifiutate di rivelare i loro nomi, la maggior parte di coloro che sono stati consegnati erano affiliati allo Stato islamico, mentre altri appartengono a Hurras al-Din, che si oppone a Hts. I detenuti sono di nazionalità francese, marocchina, saudita e turca. E cosa se ne fanno i turchi? Servono nell'ambito dei negoziati e ai servizi di intelligence dei paesi di origine dei detenuti. Un leader vicino a Hts, soprannominato Abu Khaled al-Homsi, ha detto ad al-Monitor: «É normale consegnare ad Ankara individui di nazionalità turca, anche quelli appartenenti all'Isis. Hts ha la sua legge e le sue prigioni e non ha bisogno di consegnare i detenuti in nessun paese. Lo fa solo nel caso in cui fossero turchi e stessero combattendo a fianco dell'Isis e avrebbero pianificato di effettuare attacchi contro Hts o contro la Turchia». A questo proposito sono di grande interesse le dichiarazioni di Omar Abu Hafs, un ex leader jihadista che vive a Idlib: «Hts ha sempre collaborato con la Turchia in tutti i campi e ha consegnato molti agenti alle autorità turche. Ha i suoi obiettivi politici, vale a dire cercare di rimuovere il suo nome dalle liste dei terroristi. La Turchia potrebbe aiutare Hts a raggiungere questo obiettivo attraverso le sue relazioni con gli Stati Uniti. Questo è il motivo per cui Hts desidera rafforzare i suoi legami con la Turchia». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/spericolati-rapporti-turchia-isis-attentato-2658668913.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="nonostante-i-rapporti-obliqui-l-isis-resta-una-minaccia-per-la-turchia" data-post-id="2658668913" data-published-at="1668605130" data-use-pagination="False"> Nonostante i rapporti obliqui, l'Isis resta una minaccia per la Turchia Non è un segreto per nessuno che i circa 5.000 foreign fighters accorsi negli anni nel «Siraq» per combattere la loro «guerra santa» sotto le bandiere nere del califfato, sono arrivati in Siria attraverso i confini resi colabrodo dai turchi che, in funzione anti-Assad, hanno lasciato fare anche perché nel frattempo vi furono moltissimi affari tra l’Isis che rubava il petrolio in Iraq e la Turchia che ha venduto armi e munizioni ai jihadisti. E in questi sporchi affari chi c’era? Nel 2016 Wikileaks ha pubblicato un archivio di 58.000 e-mail, documentando il coinvolgimento diretto del genero di Erdogan, Berat Albayrak, nel sostenere il mercato illegale del petrolio dell'Isis. Fino alla pubblicazione di quelle e-mail, il genero di Erdogan e lo stesso presidente turco avevano sempre negato il coinvolgimento nel mercato del petrolio jihadista. Poi dopo la pubblicazione di Wikileaks la vicenda è finita nel dimenticatoio. A pagare sono stati solo alcuni coraggiosi magistrati che indagarono e i giornalisti che ne scrissero che sono condannati all’ergastolo con accuse di «terrorismo. E dove sono finiti i soldi di tutti quei traffici? Per quanto riguarda l’Isis non è un caso che entrambi i califfi, Abu Bakr Al-Baghdadi (Barisha+2019) e il suo successore Abū Ibrāhīm al-Hāshimī al-Qurashi (Atme +2022), hanno trovato la morte in due villaggi siriani attaccati proprio al confine con la Turchia che volevano raggiungere perché è nelle banche turche che si trova il tesoro milionario dello Stato islamico. Sempre dal confine turco-siriano sono scappati per tempo molti jihadisti che in cambio di 3.000-5.000 dollari fatti scivolare nelle tasche della polizia di frontiera turca si sono rifatti una vita nel Paese della mezzaluna protetti da un Paese amico nel quale molti di loro hanno avviato interessanti business. Ogni tanto i servizi segreti turchi ne arrestano qualcuno ma si tratta sempre di pesci piccoli che servono a dimostrare ai governi occidentali che Ankara lotta contro i terroristi e a mandare messaggi all’interno della Turchia.L’Isis, nonostante i rapporti a dir poco obliqui, resta una minaccia costante per la Turchia che guarda con preoccupazione al fatto che lo Stato islamico in Siria e in Iraq, durante il periodo pandemico, è riuscito nell’impresa titanica di riorganizzarsi. Ad affermarlo è il responsabile dell'antiterrorismo delle Nazioni Unite, Vladimir Voronkov, che ha presentato al Consiglio di sicurezza l'ultima relazione sul tema. Secondo il documento circa 10.000 miliziani dell'Isis (numero arrotondato per difetto) sono tutt’ora operativi nel «Siraq» e tutto questo nonostante l'organizzazione terroristica internazionale sia stata dichiarata militarmente sconfitta più di tre anni fa in Siria e più di cinque anni fa in Iraq. Il capo dell'antiterrorismo delle Nazioni Unite ha anche avvertito il Consiglio di sicurezza che il confine tra Iraq e Siria «rimane altamente vulnerabile ed è da li che il gruppo ha lanciato ad aprile una campagna globale di attività operative rafforzate per vendicare alti dirigenti uccisi in operazioni antiterrorismo».Mentre scriviamo si apprende che con una mossa simbolica il governo del presidente Erdoğan ha designato una donna azera, cittadina naturalizzata turca, come membro dello Stato islamico in Iraq e Siria e ha congelato i suoi beni un mese dopo che era stata tranquillamente assolta e lasciata andare da un tribunale. Ulkar Mammadova, alias Hacer, è un'azera di 35 anni che ha sposato il leader turco dell'Isis Mustafa Dokumacı in Turchia e si è trasferita nel territorio controllato dallo Stato islamico nella provincia siriana di Idlib nel 2014. Era ricercata dall'agosto 2015 a causa di il suo presunto coinvolgimento in complotti e attentati dell'Isis avvenuti in Turchia. Suo marito guidava una cellula nella provincia sud-orientale di Adıyaman che in seguito divenne nota come Mustafa Dokumacı Group nella rete Isis.La cellula è stata coinvolta nell'attacco terroristico più mortale della Turchia, il 10 ottobre 2015, quando gli attentatori suicidi dell'Isis hanno ucciso 103 persone davanti alla stazione ferroviaria di Ankara. Uno degli attentatori suicidi, Yunus Emre Alagöz, era un protetto di Dokumacı che ha viaggiato con lui in Siria. L'intelligence turca ritiene che Mammadova potrebbe essere uno dei numerosi attentatori suicidi e sarebbe in grado di organizzare un attacco terroristico in Turchia. È stata inserita nell'elenco dei terroristi ricercati in Turchia e all'Interpol è stato presentato un avviso rosso per il suo arresto. Nonostante questo il collegio di tre giudici ha accolto la mozione della difesa e ha deciso per la sua assoluzione e il suo rilascio alla prima udienza e ha rimosso un divieto di volo precedentemente emesso per lei. L'unica punizione è una multa per aver attraversato illegalmente il confine turco-siriano al suo ritorno.
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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