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2025-07-18
Macron perde pezzi e si gioca l’impero. I militari francesi lasciano il Senegal
Soldati francesi (Getty)
La Francia di Emmanuel Macron è sempre più insignificante sul piano internazionale. Ieri, dall’Africa, è arrivata una nuova conferma: l’esercito francese ha lasciato definitivamente il Senegal, uno dei Paesi storicamente più legati a Parigi anche dopo l’ottenimento dell’indipendenza. In realtà, a Dakar restavano ormai all’incirca solo 350 militari francesi, in quello che veniva chiamato Efs, Elementi francesi in Senegal, che svolgeva le proprie mansioni di nell’ambito di un partenariato militare operativo con i loro omologhi senegalesi. Niente di speciale, si potrebbe dire, tuttavia la partenza di questo piccolo contingente transalpino ha una portata simbolica, per non dire storica visto che i soldati francesi erano presenti in Senegal dal 1960. In effetti da oggi non ci sarà più un solo soldato tricolore in tutta l’Africa centro-occidentale. Un territorio immenso che per decenni è rimasto fortemente legato a Parigi alla quale ha anche dato molto, dall’uranio ai metalli preziosi, nonché un’area di influenza di estrema importanza strategica.
Il divorzio definitivo tra Dakar e Parigi è stato deciso dal neo presidente senegalese, Bassirou Diomaye Faye, eletto lo scorso anno. Fin dall’inizio del mandato, le sue intenzioni sono apparse estremamente chiare visto che ha dichiarato che «il Senegal è un Paese indipendente e sovrano» e che «la sovranità non si accorda con la presenza di basi militari» straniere sul proprio territorio. Il presidente senegalese aveva smentito la volontà di arrivare ad una «rottura», parlando invece di un «partenariato rinnovato». Tuttavia, aveva annunciato che la presenza militare straniera nel suo Paese sarebbe finita nel 2025. Inoltre, una volta entrato in carica si era mosso per accelerare l’adozione, da parte del suo Paese, dell’Eco al posto del Franco Cfa, la moneta imposta da Parigi a varie sue ex colonie africane.
E così ieri, alla presenza del capo di Stato maggiore dell’esercito di Dakar, il generale Mbaye Cissé e del generale francese Pascal Ianni, capo dell’Esercito di Parigi in Africa, sono stati restituiti al Senegal il Camp Geille e lo scalo dell’aeronautica militare francese. Due strutture che ospitavano fino a ieri il contingente militare di Parigi.
Ormai, la Francia è presente in soli due Paesi africani, Gibuti e il Gabon ma, considerata la storia dell’ultimo decennio, è difficile dire ancora per quanto. Intanto Brice Clotaire Oligui Nguema, l’uomo che ha abbattuto il regime dei Bongo con un colpo di Stato e si è fatto eleggere presidente, ha già comunicato a Parigi che vuole ridiscutere la loro presenza in Gabon.
Come detto, la cacciata di Parigi dal Senegal è soltanto l’ultimo atto di una storia che vedeva i francesi certi di potersi muovere come padroni incontrastati di una fetta importante del continente africano. Parigi per decenni si è crogiolata nella sicurezza di un rapporto politico, economico e storico, senza realmente comprendere come i paesi africani stessero cambiando e soprattutto senza accorgersi dell’arrivo di un nutrito ed agguerrito gruppo di nuovi concorrenti. La Françafrique era una preda troppo ambita per non finire nel mirino dei cosiddetti «emerging powers» come Cina, Russia e Turchia che avevano compreso le enormi potenzialità sul tavolo. La prima nazione ad uscire dall’orbita francese era stata la Repubblica Centrafricana del 2016, ma Parigi non aveva dato troppa importanza ad uno stato marginale, senza sbocco sul mare e con potenzialità economiche limitate. Si trattava invece delle avvisaglie di ciò che sarebbe poi accaduto molto rapidamente. Mosca, infatti, aveva puntato con forza al ventre molle dei rapporti franco-africani, abbattendo presidenti e primi ministri impopolari e totalmente dipendenti dalle voglie transalpine. Fra il 2021 e il 2023 l’Africa occidentale è stata crivellata di colpi di stato, tutti orchestrati dalla Russia che ha puntato al controllo economico e politico del Sahel. Parigi, che aveva impegnato uomini e mezzi per combattere il terrorismo islamico, aveva già iniziato a ritirare il contingente della fallimentare operazione Barkhane creato per combattere i network di al Qaeda e dello Stato Islamico, intenti a creare un califfato nel cuore del Sahel. Accusato dai suoi ormai ex alleati africani di aver fallito nel difenderli dal pericolo jihadista la Francia aveva dovuto accettare di non essere più a capo di un impero coloniale, passando dalle minacce a tentare di blandire le nazioni che si sfilavano una dopo l’altra e arrivando a cercare di influenzare le elezioni presidenziali proprio in quel Senegal che sancisce la fine della sua storia africana. A Dakar il governo di Macron ha dato il peggio di sé prima convincendo il presidente in carica Macky Sall a cercare di rinviare le elezioni, poi spingendo la magistratura compiacente con il governo filofrancese a sciogliere il partito di opposizione e ad arrestarne il leader. Non soddisfatti, avevano finanziato e appoggiato il debole e manovrabile candidato governativo Amadou Ba, che era stato travolto dal voto popolare. Una vittoria schiacciante aveva Incoronato l’attuale presidente che non ha dimenticato quello che Parigi aveva fatto contro di lui e soprattutto contro le scelte del popolo senegalese.
I cittadini fanno «la festa» a Bayrou. Per il 78% non è un premier adatto
Le misure annunciate dal premier francese François Bayrou, per cercare di mettere una pezza al debito pubblico da 43,8 miliardi di euro, continuano ad alimentare le polemiche al di là delle Alpi.
Uno dei principali punti di attrito è la proposta fatta dal premier parigino di abolire due giorni festivi: il lunedì di Pasquetta e l’anniversario della vittoria alleata l’8 maggio 1945 che, dal 1920, è anche festa nazionale di Giovanna d’Arco e del patriottismo. La proposta non piace nemmeno tra i ranghi di En Marche, il partito fondato da Emmanuel Macron, tanto che i giovani del movimento hanno avuto l’ideona: teniamoci il lunedì dell’Angelo ma aboliamo la festività del 15 di agosto! In un Paese con radici cristiane e con un minimo di conoscenza della propria storia millenaria, l’uscita dei virgulti macronisti sarebbe stata bollata come una boutade. Questo perché, in Francia, il Ferragosto è festivo dal 1638, ovvero da quando re Luigi XIII ha deciso di tenere fede ad un voto fatto alla Vergine Maria, alla quale aveva chiesto l’intercessione per la nascita di un erede. In questo modo il 15 di agosto è diventato non solo una festa religiosa ma anche una festa nazionale. Peccato che tutto ciò sia stato dimenticato dai giovani rampanti, ispirati da Monsieur le président e cresciuti in uno Stato per il quale la laicità è quasi un sinonimo di ateismo. E infatti, ieri su X, il movimento ha scritto che «l’8 maggio incarna la memoria nazionale, la vittoria sulla barbarie (nazifascista) e i valori repubblicani. La sua portata è universale e laica, al contrario del 15 agosto».
In ogni caso, l’ipotesi di cancellare dal calendario due giorni festivi non piace ai francesi, come ha confermato un sondaggio pubblicato ieri da Le Figaro e realizzato da Odoxa-Backbone Consulting. I risultati parlano chiaro: solo il 26% degli intervistati è favorevole all’abolizione delle due giornate di vacanza. Invece la stragrande maggioranza, dei partecipanti al sondaggio ha dato il proprio semaforo verde all’ipotesi di creare un «contributo di solidarietà» a carico dei francesi più abbienti, nonché all’idea di congelare la spesa (e magari anche gli sprechi) dei ministeri del governo di Parigi. La prima ipotesi, che però è già stata esclusa dal governo, ha ottenuto il plauso del 79% dei sondati, mentre la seconda dell’80%. Più in generale, l’87% dei transalpini prevede che le misure di budget proposte da Bayrou, porteranno ad un calo del potere d’acquisto. È quindi facile capire come mai una percentuale «bulgara» di intervistati (78%) ritenga che il premier non sia «l’uomo della situazione».
Il sondaggio non promette niente di buono per Bayrou che però, stando a fonti anonime ministeriali contattate da La Verità, sarebbe pronto a vendere cara la pelle. Nel senso che potrebbe riuscire ad evitare delle censure parlamentari, negoziando con i vari partiti delle concessioni sui temi cari ai loro elettori. La strada pare comunque molto in salita. Come scritto ieri su questo giornale, l’idea del premier è già stata evocata dal Rassemblement national di Marine Le Pen e da esponenti di estrema sinistra. Il Partito socialista (Ps) sembra essere più cauto ma non esclude che si arrivi ad una nuova crisi di governo e parlamentare. In questo senso, secondo il quotidiano di sinistra Libération, il Ps starebbe lavorando ad un «piano scioglimento», in modo da poter presentare i propri candidati in tutti i 577 collegi elettorali. Il segretario Ps, Olivier Faure preferisce essere pronto ad ogni evenienza perché, ha ricordato, «dal 7 luglio il presidente della Repubblica può nuovamente sciogliere l’Assemblea nazionale» e «conoscendo il suo cinismo, dobbiamo tenerci pronti».
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Riduci
Parigi sempre più insignificante nel continente coloniale. Oggi i contingenti transalpini resistono solamente a Gibuti e in Gabon.Consensi giù per l’uomo che vuole sacrificare Pasquetta sull’altare della produzione.Lo speciale contiene due articoliLa Francia di Emmanuel Macron è sempre più insignificante sul piano internazionale. Ieri, dall’Africa, è arrivata una nuova conferma: l’esercito francese ha lasciato definitivamente il Senegal, uno dei Paesi storicamente più legati a Parigi anche dopo l’ottenimento dell’indipendenza. In realtà, a Dakar restavano ormai all’incirca solo 350 militari francesi, in quello che veniva chiamato Efs, Elementi francesi in Senegal, che svolgeva le proprie mansioni di nell’ambito di un partenariato militare operativo con i loro omologhi senegalesi. Niente di speciale, si potrebbe dire, tuttavia la partenza di questo piccolo contingente transalpino ha una portata simbolica, per non dire storica visto che i soldati francesi erano presenti in Senegal dal 1960. In effetti da oggi non ci sarà più un solo soldato tricolore in tutta l’Africa centro-occidentale. Un territorio immenso che per decenni è rimasto fortemente legato a Parigi alla quale ha anche dato molto, dall’uranio ai metalli preziosi, nonché un’area di influenza di estrema importanza strategica.Il divorzio definitivo tra Dakar e Parigi è stato deciso dal neo presidente senegalese, Bassirou Diomaye Faye, eletto lo scorso anno. Fin dall’inizio del mandato, le sue intenzioni sono apparse estremamente chiare visto che ha dichiarato che «il Senegal è un Paese indipendente e sovrano» e che «la sovranità non si accorda con la presenza di basi militari» straniere sul proprio territorio. Il presidente senegalese aveva smentito la volontà di arrivare ad una «rottura», parlando invece di un «partenariato rinnovato». Tuttavia, aveva annunciato che la presenza militare straniera nel suo Paese sarebbe finita nel 2025. Inoltre, una volta entrato in carica si era mosso per accelerare l’adozione, da parte del suo Paese, dell’Eco al posto del Franco Cfa, la moneta imposta da Parigi a varie sue ex colonie africane.E così ieri, alla presenza del capo di Stato maggiore dell’esercito di Dakar, il generale Mbaye Cissé e del generale francese Pascal Ianni, capo dell’Esercito di Parigi in Africa, sono stati restituiti al Senegal il Camp Geille e lo scalo dell’aeronautica militare francese. Due strutture che ospitavano fino a ieri il contingente militare di Parigi.Ormai, la Francia è presente in soli due Paesi africani, Gibuti e il Gabon ma, considerata la storia dell’ultimo decennio, è difficile dire ancora per quanto. Intanto Brice Clotaire Oligui Nguema, l’uomo che ha abbattuto il regime dei Bongo con un colpo di Stato e si è fatto eleggere presidente, ha già comunicato a Parigi che vuole ridiscutere la loro presenza in Gabon.Come detto, la cacciata di Parigi dal Senegal è soltanto l’ultimo atto di una storia che vedeva i francesi certi di potersi muovere come padroni incontrastati di una fetta importante del continente africano. Parigi per decenni si è crogiolata nella sicurezza di un rapporto politico, economico e storico, senza realmente comprendere come i paesi africani stessero cambiando e soprattutto senza accorgersi dell’arrivo di un nutrito ed agguerrito gruppo di nuovi concorrenti. La Françafrique era una preda troppo ambita per non finire nel mirino dei cosiddetti «emerging powers» come Cina, Russia e Turchia che avevano compreso le enormi potenzialità sul tavolo. La prima nazione ad uscire dall’orbita francese era stata la Repubblica Centrafricana del 2016, ma Parigi non aveva dato troppa importanza ad uno stato marginale, senza sbocco sul mare e con potenzialità economiche limitate. Si trattava invece delle avvisaglie di ciò che sarebbe poi accaduto molto rapidamente. Mosca, infatti, aveva puntato con forza al ventre molle dei rapporti franco-africani, abbattendo presidenti e primi ministri impopolari e totalmente dipendenti dalle voglie transalpine. Fra il 2021 e il 2023 l’Africa occidentale è stata crivellata di colpi di stato, tutti orchestrati dalla Russia che ha puntato al controllo economico e politico del Sahel. Parigi, che aveva impegnato uomini e mezzi per combattere il terrorismo islamico, aveva già iniziato a ritirare il contingente della fallimentare operazione Barkhane creato per combattere i network di al Qaeda e dello Stato Islamico, intenti a creare un califfato nel cuore del Sahel. Accusato dai suoi ormai ex alleati africani di aver fallito nel difenderli dal pericolo jihadista la Francia aveva dovuto accettare di non essere più a capo di un impero coloniale, passando dalle minacce a tentare di blandire le nazioni che si sfilavano una dopo l’altra e arrivando a cercare di influenzare le elezioni presidenziali proprio in quel Senegal che sancisce la fine della sua storia africana. A Dakar il governo di Macron ha dato il peggio di sé prima convincendo il presidente in carica Macky Sall a cercare di rinviare le elezioni, poi spingendo la magistratura compiacente con il governo filofrancese a sciogliere il partito di opposizione e ad arrestarne il leader. Non soddisfatti, avevano finanziato e appoggiato il debole e manovrabile candidato governativo Amadou Ba, che era stato travolto dal voto popolare. Una vittoria schiacciante aveva Incoronato l’attuale presidente che non ha dimenticato quello che Parigi aveva fatto contro di lui e soprattutto contro le scelte del popolo senegalese.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/soldati-francesi-lasciano-africa-macron-2673356516.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-cittadini-fanno-la-festa-a-bayrou-per-il-78-non-e-un-premier-adatto" data-post-id="2673356516" data-published-at="1752833080" data-use-pagination="False"> I cittadini fanno «la festa» a Bayrou. Per il 78% non è un premier adatto Le misure annunciate dal premier francese François Bayrou, per cercare di mettere una pezza al debito pubblico da 43,8 miliardi di euro, continuano ad alimentare le polemiche al di là delle Alpi.Uno dei principali punti di attrito è la proposta fatta dal premier parigino di abolire due giorni festivi: il lunedì di Pasquetta e l’anniversario della vittoria alleata l’8 maggio 1945 che, dal 1920, è anche festa nazionale di Giovanna d’Arco e del patriottismo. La proposta non piace nemmeno tra i ranghi di En Marche, il partito fondato da Emmanuel Macron, tanto che i giovani del movimento hanno avuto l’ideona: teniamoci il lunedì dell’Angelo ma aboliamo la festività del 15 di agosto! In un Paese con radici cristiane e con un minimo di conoscenza della propria storia millenaria, l’uscita dei virgulti macronisti sarebbe stata bollata come una boutade. Questo perché, in Francia, il Ferragosto è festivo dal 1638, ovvero da quando re Luigi XIII ha deciso di tenere fede ad un voto fatto alla Vergine Maria, alla quale aveva chiesto l’intercessione per la nascita di un erede. In questo modo il 15 di agosto è diventato non solo una festa religiosa ma anche una festa nazionale. Peccato che tutto ciò sia stato dimenticato dai giovani rampanti, ispirati da Monsieur le président e cresciuti in uno Stato per il quale la laicità è quasi un sinonimo di ateismo. E infatti, ieri su X, il movimento ha scritto che «l’8 maggio incarna la memoria nazionale, la vittoria sulla barbarie (nazifascista) e i valori repubblicani. La sua portata è universale e laica, al contrario del 15 agosto».In ogni caso, l’ipotesi di cancellare dal calendario due giorni festivi non piace ai francesi, come ha confermato un sondaggio pubblicato ieri da Le Figaro e realizzato da Odoxa-Backbone Consulting. I risultati parlano chiaro: solo il 26% degli intervistati è favorevole all’abolizione delle due giornate di vacanza. Invece la stragrande maggioranza, dei partecipanti al sondaggio ha dato il proprio semaforo verde all’ipotesi di creare un «contributo di solidarietà» a carico dei francesi più abbienti, nonché all’idea di congelare la spesa (e magari anche gli sprechi) dei ministeri del governo di Parigi. La prima ipotesi, che però è già stata esclusa dal governo, ha ottenuto il plauso del 79% dei sondati, mentre la seconda dell’80%. Più in generale, l’87% dei transalpini prevede che le misure di budget proposte da Bayrou, porteranno ad un calo del potere d’acquisto. È quindi facile capire come mai una percentuale «bulgara» di intervistati (78%) ritenga che il premier non sia «l’uomo della situazione».Il sondaggio non promette niente di buono per Bayrou che però, stando a fonti anonime ministeriali contattate da La Verità, sarebbe pronto a vendere cara la pelle. Nel senso che potrebbe riuscire ad evitare delle censure parlamentari, negoziando con i vari partiti delle concessioni sui temi cari ai loro elettori. La strada pare comunque molto in salita. Come scritto ieri su questo giornale, l’idea del premier è già stata evocata dal Rassemblement national di Marine Le Pen e da esponenti di estrema sinistra. Il Partito socialista (Ps) sembra essere più cauto ma non esclude che si arrivi ad una nuova crisi di governo e parlamentare. In questo senso, secondo il quotidiano di sinistra Libération, il Ps starebbe lavorando ad un «piano scioglimento», in modo da poter presentare i propri candidati in tutti i 577 collegi elettorali. Il segretario Ps, Olivier Faure preferisce essere pronto ad ogni evenienza perché, ha ricordato, «dal 7 luglio il presidente della Repubblica può nuovamente sciogliere l’Assemblea nazionale» e «conoscendo il suo cinismo, dobbiamo tenerci pronti».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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