2024-07-11
Se non è di sinistra, è estremismo
Dopo aver occupato tutti i gangli del potere, i progressisti bollano come «fascismo» qualsiasi opinione non allineata al pensiero dominante. Anche se di buonsenso. In un suo famoso scritto del 1920 Vladimir Il’ič Ul’ianov, detto Lenin, definiva l’estremismo come «malattia infantile del comunismo». L’opera era diretta, nell’essenziale, a confutare la posizione di quanti rifiutavano «a priori», in nome della purezza e dell’intransigenza rivoluzionarie, ogni e qualsiasi compromesso con le istituzioni «borghesi», non rendendosi conto - sosteneva l’autore - che in situazioni diverse da quelle che, in Russia, avevano consentito, con la rivoluzione, l’acquisizione del potere da parte dei bolscevichi, la via degli apparenti «compromessi» sarebbe stata l’unica possibile per raggiungere, in altro modo, lo stesso scopo.La lezione fu poi, com’è noto, sostanzialmente recepita da Antonio Gramsci e dai suoi successori alla guida del Partito comunista italiano, con il risultato che quest’ultimo, nonostante non sia mai stato maggioritario, è riuscito a influenzare e condizionare pesantemente, anche nelle sue successive metamorfosi fino ai giorni nostri, la legislazione, il costume e gli assetti di potere del nostro Paese, mediante la sistematica, progressiva occupazione di gangli vitali della società, ivi compresi, da ultimo, anche quelli dell’economia e della finanza. Ma l’aver compreso che l’estremismo non solo non giova alla conquista del potere, quando non vi siano le condizioni per una rivoluzione violenta, ma costituisce, anzi, un ostacolo, ha portato con sé anche la scoperta che esso può, invece, essere vantaggiosamente utilizzato, una volta occupati gli spazi del potere, per combattere l’avversario che voglia, a sua volta, occuparli, facendolo appunto apparire, pur quando non lo sia effettivamente, come un «estremista». È, infatti, nozione di comune esperienza quella che, nei regimi democratici basati sul suffragio universale (quali si riscontrano in tutto il cosiddetto «Occidente»), le elezioni non si vincono se non conquistando il consenso di quella gran parte dell’elettorato definibile, grosso modo, «di centro», la quale, essendo priva, in genere, di radicati convincimenti politico-ideologici, oscilla tra le varie indicazioni che, di volta in volta, le vengono suggerite dall’una o dall’altra forza politica, alla sola condizione che non comportino, almeno nell’immediato, radicali e, quindi, pericolosi sconvolgimenti dello status quo; quello stesso al quale essa, pur senza esserne del tutto soddisfatta, ha comunque fatto, in qualche modo, l’abitudine. Di qui l’ovvia conseguenza che chi si presenta, o viene etichettato dai suoi avversari, come «estremista» è pressoché automaticamente destinato alla sconfitta nelle urne. Ed ecco, quindi, la ragione per la quale, essendosi ormai stabilizzato in gran parte dell’Europa un assetto di potere politico, culturale e finanziario che, anche quando non si definisca «di sinistra», condivide, di fatto, gran parte dell’apparato ideologico della sinistra limitandosi soltanto a smussarne, quando appare opportuno, alcune asperità, i partiti e i movimenti che comunque mettano in discussione, anche in parte, tale apparato si vedono automaticamente attribuita, nella «narrazione» dominante, la definizione di «estremisti di destra». In realtà, il loro preteso «estremismo» non ha nulla di oggettivamente eversivo. Esso, infatti, in altro non consiste, normalmente, se non nel proposito di porre dei limiti efficaci all’immigrazione illegale, consentendo quella legale, con tutte le possibili garanzie per la salvaguardia dei diritti umani; difendere la famiglia tradizionale senza per questo togliere diritti di sorta a chi non ne condivida i valori; favorire la natalità lasciando tuttavia persistere il diritto all’aborto, quale attualmente previsto dalle leggi vigenti; venire incontro alle legittime esigenze di sicurezza dei cittadini a fronte dei pericoli e dei disagi creati dalla diffusione della criminalità e del disordine, sempre nel rispetto dei diritti di libertà garantiti dalla Costituzione; proteggere l’ambiente, ma non a scapito delle esigenze vitali dell’economia e del lavoro, dalle quali dipende la sopravvivenza dei comuni cittadini.Eppure basta l’enunciazione di tali propositi perché, senza che neppure ci si degni di esaminare in dettaglio come gli stessi dovrebbero essere realizzati, la forza politica che li sostiene si trovi a essere unanimemente definita di «estrema destra»; il che equivale a dire razzista, xenofoba, omofoba, maschilista, negazionista e, in ultima analisi (ovviamente) «fascista», come, infatti, è avvenuto, ultimamente, anche in Francia, con le conseguenze che si sono viste in danno del partito di Marine Le Pen. Curiosamente, non è, invece, ritenuto «estremismo» quello della gran parte dei politici e degli «opinion makers» di tutta Europa che, con riguardo alla guerra in atto tra la Russia e l’Ucraina, proclamano la necessità della sconfitta militare della Russia - costi quel che costi in termini di vite umane e di pericolo di estensione del conflitto - come unica possibilità (peraltro assai remota) perché la pace possa essere ristabilita.Ma ciò si spiega considerando che questa è la posizione ufficiale dell’«establishment»; e qualsiasi «establishment», autolegittimandosi, per sua natura, come la miglior sintesi possibile dei pubblici interessi in gioco, pur quando attribuisca valore preminente o anche assoluto a taluno di essi, non può mai riconoscersi come «estremista». Invano, dunque, si cercherà di ribaltare sui sostenitori dell’«establishment» l’accusa di «estremismo», pur quando la stessa possa apparire oggettivamente fondata (come, ad esempio, sempre in Francia, nel caso del partito di Jean-Luc Mélenchon), quando non si sia in grado, per altra via, di creare un nuovo e diverso «establishment» che a quell’accusa possa fornire la legittimazione e, conseguentemente, la necessaria efficacia. E per il conseguimento di un tale obiettivo non può essere sufficiente l’eventuale, occasionale vittoria in una tornata elettorale, da cui derivi la sola occupazione «pro tempore» delle più importanti cariche pubbliche.Occorrerebbe, invece, che, traendo profitto dall’insegnamento di Lenin e di Gramsci, anche la destra riuscisse a realizzare quella stessa sistematica occupazione dei gangli vitali della società civile che così bene è riuscita alla sinistra, in Italia come pure buona parte del resto d’Europa. Il che, però, difficilmente potrà avvenire. E allora, dato per scontato che all’accusa di «estremismo» la destra, se per tale si presenta, non potrebbe comunque sfuggire, tanto varrebbe che almeno trovasse il coraggio di rifiutare in blocco, puramente e semplicemente, piuttosto che cercare di stemperarli, quelli che l’«establishment» sinistroide ha imposto ormai da tempo come dogmi di fede, nelle materie che più gli stanno a cuore.Una tale condotta sarebbe ovviamente, bollata come blasfema. Ma, piaccia o non piaccia, sono proprio le bestemmie, più delle argomentazioni critiche, quelle che, a lungo andare, scuotono, talvolta, l’apparentemente incrollabile fede di chi le ascolta.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)