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2020-05-24
Se non voti dem, non sei nero. Parola di Joe Biden
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Joe Biden (Ansa)
L'ex vicepresidente era intervenuto al programma radiofonico The Breakfast Club e, verso la conclusione della trasmissione, il conduttore afroamericano, Charlamagne tha God, gli ha chiesto di tornare, affermando: «Abbiamo altre domande». Biden ha quindi replicato: «Hai altre domande? Beh, ti dico una cosa, se hai problemi a capire se sei per me o Trump, allora non sei nero».
Quella che (forse) voleva essere una battuta, ha scatenato una serie di critiche serrate. Il senatore repubblicano del South Carolina, l'afroamericano Tim Scott, è andato all'attacco dell'ex vicepresidente. «Questo è il commento più altezzoso e arrogante che ho sentito in tanto tempo». E su Twitter ha scritto: «1,3 milioni di neri americani hanno già votato per Trump nel 2016. Questa mattina, Joe Biden ha detto a ognuno di noi che non siamo neri. Direi che sono sorpreso, ma è purtroppo normale per i democratici dare per scontato l'appoggio della comunità nera». La dura posizione di Scott è stata prontamente ripresa dallo stesso Donald Trump. Tutto questo, mentre Biden si è successivamente scusato, dichiarando: «Non avrei dovuto essere così sprezzante».
L'episodio avrebbe in sé stesso in un'importanza relativa, se non fosse in realtà rivelativo di una forma mentis abbastanza diffusa in larga parte della sinistra americana. Una forma mentis, secondo cui alcune categorie elettorali risulterebbero moralmente obbligate a votare per i democratici, indipendentemente dal valore e dalle idee dei candidati da loro espressi. Casi come quello di Biden sono svariati. Era, per esempio, il febbraio del 2016, quando l'ex segretario di Stato americano, Madeleine Albright, facendo campagna elettorale per Hillary Clinton alle primarie democratiche di allora, disse: «Le giovani donne devono sostenere Hillary Clinton. La storia non è finita! […] Vorranno respingerci. […] Hillary Clinton sarà sempre lì per voi. E ricordatevi, c'è un posto speciale all'inferno per le donne che non si aiutano a vicenda». Le sostenitrici di Bernie Sanders (che erano in gran parte donne giovani) non presero affatto bene la tesi della Albright: tanto che la stessa Hillary si ritrovò di fatto costretta a prendere le distanze.
Del resto, è sempre restando al 2016 che si riscontrano ulteriori esempi significativi. Alle presidenziali di quell'anno, Trump riuscì innanzitutto a strappare ai democratici il sostegno degli operai bianchi impoveriti della Rust Belt: quegli operai che avevano invece in gran parte votato per Barack Obama nel 2008 e nel 2012. Non bisogna poi dimenticare le minoranze etniche che, ormai da molto tempo, i democratici ritengono un proprio esclusivo bacino elettorale. Anche qui il 2016 risulta particolarmente istruttivo. Secondo gli exit poll, quell'anno Trump ottenne, tra neri e ispanici, risultati migliori di quelli conseguiti nel 2012 dall'allora candidato repubblicano, Mitt Romney. Di contro, Hillary Clinton - rispetto a Obama - perse cinque punti tra gli afroamericani e sei punti tra gli ispanici. E, questo, anche perché l'ex first lady aveva (colpevolmente) considerato scontato il totale appoggio delle minoranze etniche nei proprio confronti.
Le affermazioni di Biden si inseriscono quindi in una mentalità abbastanza diffusa tra gli esponenti del Partito democratico americano. Una mentalità che, al di là di una certa arroganza, rischia di essere controproducente anche dal punto di vista politico. È infatti palese che questo tipo di ostentata sicumera si ritorca puntualmente contro i candidati che la mostrano: e, nuovamente, il caso della Clinton è assolutamente evidente. Non sarà del resto un caso che, tra gli elettori di Bernie Sanders, molti non abbiano granché apprezzato le dichiarazioni di Biden a The Breakfast Club. La questione non è di poco conto, vista la fatica che l'ex vicepresidente sta incontrando nel cercare di tenere unito il partito.
Ma il problema va oltre le sole dinamiche interne all'asinello. E investe anche, a ben vedere, una certa tendenza al doppiopesismo largamente diffusa tra i democratici. Nelle scorse ore, una delle consigliere di Biden, Symone Sanders, ha cercato di derubricare le affermazioni dell'ex vicepresidente a semplice "scherzo". Sarà magari stata una battuta (malriuscita): ma ci immaginiamo che cosa sarebbe accaduto se a farla fosse stato Trump? Ci immaginiamo quale sarebbe stata la reazione dei democratici (a partire dallo stesso Biden)? Ma soprattutto, a proposito di doppio standard, è forse lecito chiedersi che fine abbia fatto Kamala Harris. La senatrice democratica (afroamericana) della California che, nel 2019, non solo tacciò Biden di pregressa collusione con il segregazionismo razziale ma disse anche di credere a quelle donne che lo avevano accusato di molestie sessuali. Ebbene, quella stessa Kamala Harris non soltanto non ha ancora detto una parola sulle affermazioni di Biden dedicate al voto degli afroamericani ma, quando è stata recentemente interpellata sulle accuse di aggressione sessuale mosse all'ex vicepresidente da Tara Reade, ha replicato: «Parlo solo del Joe Biden che conosco». È forse maligno ritenere che il silenzio e l'evasività della Harris (n tempo invece tanto battagliera) siano dettati dal fatto che la senatrice sia attualmente una papabile candidata alla vicepresidenza a fianco dello stesso Biden? Ecco: è esattamente questo doppiopesismo che potrebbe rivelarsi deleterio per i democratici il prossimo novembre. E non è affatto detto che i diretti interessati se ne siano accorti.
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Gli afroamericani devono necessariamente votare per i democratici. È questa la bizzarra tesi che Joe Biden ha espresso venerdì scorso, attirandosi per questo non poche critiche.L'ex vicepresidente era intervenuto al programma radiofonico The Breakfast Club e, verso la conclusione della trasmissione, il conduttore afroamericano, Charlamagne tha God, gli ha chiesto di tornare, affermando: «Abbiamo altre domande». Biden ha quindi replicato: «Hai altre domande? Beh, ti dico una cosa, se hai problemi a capire se sei per me o Trump, allora non sei nero».Quella che (forse) voleva essere una battuta, ha scatenato una serie di critiche serrate. Il senatore repubblicano del South Carolina, l'afroamericano Tim Scott, è andato all'attacco dell'ex vicepresidente. «Questo è il commento più altezzoso e arrogante che ho sentito in tanto tempo». E su Twitter ha scritto: «1,3 milioni di neri americani hanno già votato per Trump nel 2016. Questa mattina, Joe Biden ha detto a ognuno di noi che non siamo neri. Direi che sono sorpreso, ma è purtroppo normale per i democratici dare per scontato l'appoggio della comunità nera». La dura posizione di Scott è stata prontamente ripresa dallo stesso Donald Trump. Tutto questo, mentre Biden si è successivamente scusato, dichiarando: «Non avrei dovuto essere così sprezzante».L'episodio avrebbe in sé stesso in un'importanza relativa, se non fosse in realtà rivelativo di una forma mentis abbastanza diffusa in larga parte della sinistra americana. Una forma mentis, secondo cui alcune categorie elettorali risulterebbero moralmente obbligate a votare per i democratici, indipendentemente dal valore e dalle idee dei candidati da loro espressi. Casi come quello di Biden sono svariati. Era, per esempio, il febbraio del 2016, quando l'ex segretario di Stato americano, Madeleine Albright, facendo campagna elettorale per Hillary Clinton alle primarie democratiche di allora, disse: «Le giovani donne devono sostenere Hillary Clinton. La storia non è finita! […] Vorranno respingerci. […] Hillary Clinton sarà sempre lì per voi. E ricordatevi, c'è un posto speciale all'inferno per le donne che non si aiutano a vicenda». Le sostenitrici di Bernie Sanders (che erano in gran parte donne giovani) non presero affatto bene la tesi della Albright: tanto che la stessa Hillary si ritrovò di fatto costretta a prendere le distanze.Del resto, è sempre restando al 2016 che si riscontrano ulteriori esempi significativi. Alle presidenziali di quell'anno, Trump riuscì innanzitutto a strappare ai democratici il sostegno degli operai bianchi impoveriti della Rust Belt: quegli operai che avevano invece in gran parte votato per Barack Obama nel 2008 e nel 2012. Non bisogna poi dimenticare le minoranze etniche che, ormai da molto tempo, i democratici ritengono un proprio esclusivo bacino elettorale. Anche qui il 2016 risulta particolarmente istruttivo. Secondo gli exit poll, quell'anno Trump ottenne, tra neri e ispanici, risultati migliori di quelli conseguiti nel 2012 dall'allora candidato repubblicano, Mitt Romney. Di contro, Hillary Clinton - rispetto a Obama - perse cinque punti tra gli afroamericani e sei punti tra gli ispanici. E, questo, anche perché l'ex first lady aveva (colpevolmente) considerato scontato il totale appoggio delle minoranze etniche nei proprio confronti.Le affermazioni di Biden si inseriscono quindi in una mentalità abbastanza diffusa tra gli esponenti del Partito democratico americano. Una mentalità che, al di là di una certa arroganza, rischia di essere controproducente anche dal punto di vista politico. È infatti palese che questo tipo di ostentata sicumera si ritorca puntualmente contro i candidati che la mostrano: e, nuovamente, il caso della Clinton è assolutamente evidente. Non sarà del resto un caso che, tra gli elettori di Bernie Sanders, molti non abbiano granché apprezzato le dichiarazioni di Biden a The Breakfast Club. La questione non è di poco conto, vista la fatica che l'ex vicepresidente sta incontrando nel cercare di tenere unito il partito. Ma il problema va oltre le sole dinamiche interne all'asinello. E investe anche, a ben vedere, una certa tendenza al doppiopesismo largamente diffusa tra i democratici. Nelle scorse ore, una delle consigliere di Biden, Symone Sanders, ha cercato di derubricare le affermazioni dell'ex vicepresidente a semplice "scherzo". Sarà magari stata una battuta (malriuscita): ma ci immaginiamo che cosa sarebbe accaduto se a farla fosse stato Trump? Ci immaginiamo quale sarebbe stata la reazione dei democratici (a partire dallo stesso Biden)? Ma soprattutto, a proposito di doppio standard, è forse lecito chiedersi che fine abbia fatto Kamala Harris. La senatrice democratica (afroamericana) della California che, nel 2019, non solo tacciò Biden di pregressa collusione con il segregazionismo razziale ma disse anche di credere a quelle donne che lo avevano accusato di molestie sessuali. Ebbene, quella stessa Kamala Harris non soltanto non ha ancora detto una parola sulle affermazioni di Biden dedicate al voto degli afroamericani ma, quando è stata recentemente interpellata sulle accuse di aggressione sessuale mosse all'ex vicepresidente da Tara Reade, ha replicato: «Parlo solo del Joe Biden che conosco». È forse maligno ritenere che il silenzio e l'evasività della Harris (n tempo invece tanto battagliera) siano dettati dal fatto che la senatrice sia attualmente una papabile candidata alla vicepresidenza a fianco dello stesso Biden? Ecco: è esattamente questo doppiopesismo che potrebbe rivelarsi deleterio per i democratici il prossimo novembre. E non è affatto detto che i diretti interessati se ne siano accorti.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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