
Il leader politico si ritrova stritolato fra i ricatti del Rottamatore, alleato impresentabile alla base, e la lotta con Beppe Grillo che ormai brama il potere. Per salvare sé stesso e il Movimento deve strappare, o sarà l'oblio. Giancarlo Giorgetti aveva ben consigliato a Matteo Salvini di tenere sul comodino la foto di Matteo Renzi, che assomiglia sempre di più all'orrida Idra di Lerna capace di risorgere dalle sue nove fameliche e mefitiche teste. Ora qualcuno dovrebbe suggerire a Luigi Di Maio di avere come memento mori un ritratto di Angelino Alfano. L'immagine suggestiva è suggerita dall'ottimo Giuseppe Palma di Scenari economici, che constata come anche Alfano passò da ministro degli Esteri a quidam de populo nel volgere di un paio di settimane. Questa è la sorte che spetta al titolare della Farnesina, perché se l'Italia di Matteo Renzi è «viva» lui rischia di essere (politicamente) morto. Il sostanziarsi dei renziani come azionisti indispensabili per la vita del governo marginalizza ipso facto il M5s. Perciò Luigi Di Maio ha una sola chance: aprire la crisi di governo per evitare di restare tra l'incudine di Conte-Zingaretti e il martello di Rignano che ha una nuova ambizione di rottamazione, mandare al macero il Movimento 5 Stelle. Scrivemmo qualche tempo fa che Sergio Mattarella non si era, a nostro giudizio, comportato da arbitro nella crisi risolta con il Conte bis - che non è un Conte bifronte anche se l'avvocato aspira ad essere venerato come l'uomo del nuovo inizio - e tutt'oggi conferma che non intende minimamente restituire agli italiani - come parrebbe imporre la Costituzione - la potestà di decidere attraverso le elezioni. Dal Quirinale hanno fatto sapere che la nascita di Italia viva non prefigura l'esistenza di una nuova maggioranza. E dunque alla via così. Tutti sanno che la posta in gioco è la scadenza del 31 gennaio 2022, quando si eleggerà il nuovo inquilino del Colle e fino a quel momento sarà impossibile tornare a votare. Quello è il massimo orizzonte che si è dato Matteo Renzi che oggi si mette alla testa degli apparatnik della Repubblica - grand comis, alti burocrati, brasseurs d'affaires che brigano col pubblico e con l'Europa, quella pletora di manutengoli che prosperano all'ombra del sottopotere come funghi saprofiti delle tasse degli italiani e non a caso Italia viva nasce in concomitanza con le nuove nomine pubbliche - e che per questo viene blandito. Lui si ostina a dire che è il nuovo e che la Leopolda lo dimostrerà. Ci sarà modo e tempo per smentirlo, ma di certo il suo disegno è tenere insieme i buoni sentimenti di una certa sinistra e il cinismo dell'ordoliberismo più sfrenato, in una pangenetica società di questua e di governo. Non è mistero che la linea politica di Matteo Renzi sia ispirata da Jovanotti: costruire una «grande chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa». Perciò bisogna svuotare i pentastellati. Non a caso Renzi - un tempo paladino del maggioritario - oggi si schiera col proporzionale duro e puro, apparentemente in funzione anti Salvini, ma con l'obbiettivo di fare il bis di Ghino di Tacco. Già oggi con un manipolo di parlamentari è in grado di aprire e chiudere i rubinetti del governo. E poi parlavano male di Bettino Craxi. A mettere sabbia negli ingranaggi di questa infernale macchina che stritola la volontà popolare potrebbe essere solo Di Maio, per salvare sé stesso e il suo Movimento. La nascita formale della banda Renzi oggi lo pone di fronte a un obbligo esiziale: spiegare ai suoi che tratta con la Boschi e il partito di Banca Etruria, che fa intese con chi mai voterà la riduzione dei parlamentari (e infatti prima di traslocare dal Pd il rignanese ha fatto cancellare dall'agenda parlamentare il voto decisivo sulla riforma), che sta con chi ha voluto le trivelle, il jobs act, ha abolito le garanzie sul lavoro e via maledicendo se nel Movimento 5 stelle è rimasta una briciola di coerenza. Anche se Mattarella dice che il quadro non è mutato la realtà dei fatti è anche Giuseppe Conte che si è lamentato con Luca Zingaretti: dovevi dirmi che stava per uscire Renzi, avrei riconsiderato l'incarico, dicono che non è così. La diaspora renziana pone oggi un serio problema anche al Movimento 5 stelle, dove la frattura tra Beppe Grillo - che fa intese con l'ex arcinemico di Rignano, spostando l'asse della sua accolita verso i comodi lidi dell'affarismo di Stato - e gli uomini del M5s originario è palpabile. Tra Grillo e Di Maio oggi c'è la stessa distanza che esiste tra Renzi e Bersani. Perciò il ministro degli Esteri dovrebbe lui aprire la crisi. Se continua a vivacchiare in questo governo trasformerà il Movimento 5 stelle - come peraltro evidenzia lo schema di Enrico Franceschini per le regionali, dove i candidati sono di fatto indicati dal Pd perché la società civile è l'antico collateralismo della sinistra cattocomunista e i voti sono quelli pentastellati - in una corrente minoritaria del Pd offrendo ai più scaltri tra i suoi la possibilità di salire sul carro renziano, dove le slot machine del potere regalano ricchi premi e cotillons. I motivi per aprire la crisi li ha tutti: oggi deve trattare con chi fino a ieri, almeno formalmente, non era un suo interlocutore, oggi deve mediare con chi fino a ieri per disciplina del Pd non avrebbe dovuto far contare idee e progetti diametralmente opposti al Movimento 5 stelle. Basterebbe citare la scomoda ratifica del Ceta. I pentastellati da sempre sono contrari all'accordo con il Canada, ma la ministra dell'Agricoltura, Teresa Bellanova, appena insediata s'è orientata: quell'accordo va ratificato in fretta. Fino a ieri la Bellanova doveva concertare in seno al Consiglio dei ministri le sue proposizioni e azioni, oggi no: oggi la Bellanova è capodelegazione renziana al governo e la sua è la volontà di un azionista del governo medesimo, opporvisi vuol dire mettere in discussione il Gabinetto. Ecco perché Luigi Di Maio - se vuole salvare sé stesso e quel che resta del Movimento superando anche il complesso edipico dei pentastellati verso Beppe Grillo - deve aprire la crisi adesso. Avrebbe anche il merito di farci misurare se Sergio Mattarella è davvero un presidente di garanzia - una crisi adesso non potrebbe avere altre conseguenze se non il voto - ponendo anche un tema istituzionale che è il convitato di pietra della nostra politica: il presidenzialismo. Altrimenti scatterà per Luigi Di Maio il lodo, anzi pardon, la fine alla Alfano.
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