
Ma se l'Enea «profugo turco» ci insegna ad aprire le porte agli immigrati, la storia di Romolo e Remo ci deve indurre a depenalizzare il fratricidio? Il quesito viene spontaneo e la battuta ci sta, dopo che per mesi una certa intellighenzia non ha esitato ad attingere persino all'Eneide (senza peraltro leggerla) al fine di perorare la causa dell'invasione.
Il fatto è che la mitologia è materia rovente, tirarla per la giacca è sempre operazione a rischio. E, soprattutto, non è mai materia «neutra», buona per tutte le stagioni e per tutte le cause.
Prova ne sia Il primo re, il film in uscita in tutte le sale, diretto da Matteo Rovere e interpretato da Alessandro Borghi e Alessio Lapice. Una pellicola ambiziosa, dedicata appunto agli eventi leggendari che precedono la fondazione di Roma, con dialoghi in latino arcaico e ambientazioni che riportano a una sana violenza primitiva.
Già solo per aver pensato un film del genere, in effetti, il regista andrebbe premiato. Finalmente una pellicola che sovverte i canoni del cinema italiano e che fuoriesce da quelli che sembravano essere gli unici modelli possibili: il polpettone esistenzialistico sui quarantenni in crisi di identità, il romanzone civile per dire ai sessantottini che la loro ribellione giovanile non è stata inutile, il gangster movie di borgata ammantato da film di denuncia ma che in realtà vuole solo fare cassa con tanto piombo, tante donne seminude e tanti Clint Eastwood dialettali.
Il riferimento obbligato, qui, è piuttosto Mel Gibson, quello più politicamente scorretto, quello che ha messo sulla pellicola il cristianesimo tragico e sanguinante di The Passion, quello che ha fatto a pezzi il mito del buon selvaggio in Apocalypto. La produzione del film è sembrata peraltro sin da subito ben consapevole di questo aspetto dirompente, rispetto agli stilemi italiani, tanto da giocarci anche un po' su, come quando è stato diffuso il video del regista che, all'inizio, delle riprese, dice alla troupe: «Fino al 20 di agosto potete decidere di andarvene, di scappare. I posti sono difficili, pioverà sempre, gireremo con la pioggia, gireremo col fango. Il film l'avete letto, ha tanto difficoltà dentro. Non lo nascondo, ve lo dico sinceramente». Il tutto mentre i protagonisti tirano di boxe e scolpiscono fisici in palestra. Quanto ci sia di artificioso in questa aura di leggenda costruita attorno alla pellicola non conta: nessuno si chiede se davvero Stanley Kubrick maltrattasse gli attori per avere reazioni più drammatiche sul set, il cinema è mito sia davanti che dietro la macchina da presa, e va bene così.
Di questi tempi, poi, rende quasi stupefatti quel rigore filologico basico che dovrebbe essere il minimo sindacale, ma che invece oggi è merce rara e quasi sovversiva: ma come, un film sulle origini di Roma senza neanche un attore africano? Dopo l'Achille nero di Troy: fall of a city, dopo il governatore romano della Britannia dalla pelle scura nel cartone della Bbc del 2014, dopo il Lancillotto scuro della serie C'era una volta e la Ginevra della Guyana di Merlin, aver scampato il blackwashing non è cosa da poco. Perché un po' ce lo aspettavamo, un Romolo del Maghreb sponsorizzato dagli immancabili studiosi in vena di dimostrare l'indimostrabile pur di fare a pezzi la nostra identità. E invece così non è stato.
Sulla verosimiglianza storica, sull'attenzione alle fonti, sulla concordanza con la lettera e con lo spirito della leggenda di fondazione, gli esperti si accapiglieranno il giusto. E certo suona un po' blasfema una certa attenzione, più volte ribadita in fase di promozione, alle ragioni di Remo, il fratello ribelle, nonché alla sua rivolta contro i numi e il destino. Moderno, troppo moderno è questo pathos per la sfida titanica al divino, per l'affermazione di una libertà individualistica. Nella leggenda originaria, i due fratelli, in effetti, incarnano due progetti di civiltà differenti. Romolo voleva fondare la nuova città sul Palatino e chiamarla Roma. Remo voleva invece far crescere il suo insediamento sul colle Aventino e chiamarlo Remoria. Remo voleva quindi fondare la città su un luogo rurale, fuori dal centro abitato, nel luogo dove si svolgeva il noviziato degli iniziandi. Remo è il non-iniziato, colui che non è divenuto adulto, cittadino.
Egli, dice Andrea Carandini, è un «eterno iniziando che non si integra nella comunità».
Remo, continua, «non riesce a superare la marginalità che l'iniziazione comporta – per la sua selvatica esemplarità e che non arriva a integrarsi nella comunità degli adulti». È per questo che la sua città è una contro-città, una città invertita. La sua colpa, alla fine, è simbolizzata dall'attraversamento rituale di una frontiera, dalla violazione di un confine.
E l'ordine, la civiltà, la bellezza sono concepibili solo a patto che venga preservato quel confine. Questa è la leggenda del primo re. E non c'è interpretazione moderna che possa attenuare la portata dirompente di questo messaggio.





