2022-08-18
Se la donna è di destra è un po’ meno donna
Natlia Aspesi (Marco Piraccini\Mondadori Portfolio\Mondadori via Getty Images)
Dopo averci detto per anni che la soluzione di tutti i mali era aumentare la presenza femminile nella società, ora la sinistra fa retromarcia: guai a votare Giorgia Meloni solo per il «fattore D». Siccome lei è la leader di Fdi, va considerata come un maschio.In ogni circostanza si può sempre imparare qualcosa di utile. Il punto è che poi bisognerebbe tenere a mente la lezione per il futuro, e regolarsi di conseguenza in tutte le successive occasioni. La sinistra italiana, ad esempio, ha scoperto nelle ultime settimane che le donne non possiedono un valore aggiunto in quanto donne. Il concetto lo ha perfettamente sintetizzato ieri Natalia Aspesi su Repubblica: «Non credo che essere donna sia più importante della visione ideologica personale e dei compagni che, per quanto maschi, la dividono con noi». Il ragionamento non fa una piega e sbriciola in poche righe decenni di plumbea retorica femminista. Forse sarebbe ora di iniziare a condividere una potente verità, e cioè che il sesso, il genere, l’orientamento sessuale ma anche il colore della pelle, il peso corporeo e più in generale le caratteristiche biologiche possono senz’altro influire sulle convinzioni politiche ma non sono, in sé, dati politici. O comunque non sono di sicuro i dati politici più caratterizzanti e dominanti, anche se - sull’onda della identity politics americana - da tempo anche i partiti nostrani si sono adeguati alla moda delle figurine e delle quote. L’appartenenza a una comunità è certamente più rilevante del sesso, le condizioni economiche influiscono più di ciò che si fa a letto, la religione (o l’assenza di essa) è più caratterizzante del colore, e via dicendo. Qui però appare un duplice problema. Da una parte, infatti, i progressisti di casa nostra accettano questi presupposti soltanto nel momento in cui alcuni gruppi femministi pensano di votare Giorgia Meloni. Di fronte a tale eventualità, tutto il racconto sul «fattore donna» che ci è stato propinato in questi anni crolla, e una come la Aspesi può serenamente ammettere di «detestare» la Meloni (cosa che rientra pienamente nei suoi diritti). Di più: Repubblica e altri giornali si concedono con gioia di infierire sulla nemica, diffondendo video di lei ragazzina, o pubblicando commenti che, a parti invertite, sarebbero ritenuti impresentabili. Ovviamente, il fronte sinistrorso offre una giustificare ideologica a tale evidente ipocrisia. La scusa è: poiché la Meloni è in realtà maschilista e supporta il patriarcato, allora le possiamo levare lo status protetto di donna e possiamo allegramente infamarla. A ben vedere, questo atteggiamento non è emblematico di un rifiuto della logica delle piccole identità, bensì è la sua patetica estremizzazione. Il dato biologico, sostiene la sinistra, è preponderante, e ad esso devono per forza essere associate una serie di posizioni che non si possono contestare, pena la retrocessione in una classe biologica diversa. Per capirsi: se sei donna ma non ti ergi a paladina dei diritti contro l’oppressione patriarcale, beh, allora sei un po’ meno donna. Ed è qui che emerge preponderante la seconda parte del problema. Sembra che i progressisti ritengano l’essere di destra un dato biologico. Più precisamente, essi pensano che l’elettore di destra diventi tale solo in virtù di qualche problema mentale o fisico che gli impedisce di aderire appieno al ruolo che l’evoluzione ha stabilito per lui. Ad esempio, un maschio è tendenzialmente di destra, ma grazie a una difficoltosa rieducazione e un costante addestramento può vincere le sue pulsioni primordiali e diventare femminista, dunque elettore del Pd. Nel caso del maschio nero, il pigmento è dominante, dunque produce un elettore di sinistra. Ma se per caso quel nero vota a destra, ecco che lo si fa ripiombare allo stato di natura più belluino.Quanto alla donna bianca, tendenzialmente dovrebbe stare con i progressisti, ma se qualche trauma infantile l’ha colpita ecco che può ritrovarsi a destra, in qualche modo corrotta, dedonnizzata. Se le femministe continuano a vedere in costei prima di tutto una donna, si illudono, come dice la Aspesi. Non si rendono conto che il dato biologico è stato deturpato, avvelenato da un morbo antico e terribile. Una orribile malattia da cui, manco a dirlo, sono risparmiate le donne «democratiche», persino quando ottengono posti in lista grazie all’influenza esercitata dai loro potenti compagni o coniugi (vedi il caso Franceschini). Non importa che il Pd sia guidato da un uomo e diviso in bande comandate da altri uomini: le donne iscritte sono di sinistra e dunque «pienamente donne», mentre i maschi sono stati opportunamente rieducati in modo da correggere l’iniziale vizio biologico, il che rende tutto il partito biologicamente femmina. Un Calenda, invece, avendo tradito il Pd, non è certo femmina ma nemmeno maschio: è stato ridotto a sottouomo che va svillaneggiato (e che lo meriti o no è indifferente). Non ci capite più nulla in tutti questi contorcimenti? Fate bene, perché si tratta in effetti di smisurate masturbazioni mentali utili a nascondere il feroce disprezzo progressista per le opinioni diverse e la solita vecchia superiorità morale che, in fin dei conti, altro non è se non razzismo. Un razzismo che da qualche settimana si sta scatenando bestialmente contro la Meloni, e soprattutto contro tutti coloro che vorrebbero liberamente votare a destra, i quali si vedono costantemente dipinti come inferiori. Ma chissà, forse questo permanere dell’odio sinistrorso contro Giorgia una spiegazione ce l’ha: dev’essere un caso particolarmente grave di invidia del pene.
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)