2024-02-11
Scoperto covo di Hamas sotto la sede Onu
L’Idf ha trovato una centrale spionistica dei terroristi nei sotterranei dell’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Washington in pressione su Benjamin Netanyahu: «La reazione di Israele è stata esagerata». Berlino: «Rischio di catastrofe umanitaria».I ribelli Huthi promettono rappresaglie per la missione Ue nel Mar Rosso guidata da Roma.Lo speciale contiene due articoli.Il Times of Israel ha rivelato che l’esercito israeliano ha scoperto ieri una centrale di intelligence appartenente ad Hamas nei sotterranei di una sede dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, situata nel quartiere Rimal di Gaza City. Il data center sotterraneo era completo di sala elettrica, batterie industriali e alloggi per i terroristi di Hamas che gestivano i server dei computer. Il colonnello dell’Idf Benny Aharon ha rivelato ai giornalisti di Times of Israel che «l’Unrwa fornisce copertura ad Hamas, sa esattamente cosa succede nei suoi sotterranei e usa il suo budget per finanziare alcune delle capacità militari di Hamas, questo è certo». Un raid dell’Idf nel Sud del Libano, invece, che aveva come obiettivo l’eliminazione di un funzionario di Hamas, Basel Saleh, ritenuto responsabile dell’arruolamento di nuovi miliziani, è fallito visto che quest’ultimo sarebbe rimasto soltanto ferito. Sul piano diplomatico, le parole con cui Joe Biden, nella serata di venerdì, ha ammonito Benjamin Netanyahu, accusato di aver avuto una condotta esagerata nella reazione militare a Gaza, a quanto pare sono cadute nel vuoto. Il presidente americano sperava, in cuor suo, di convincere l’omologo israeliano ad avvicinarsi sulla strada della diplomazia e di un cessate il fuoco, temporaneo o permanente che sia. E invece Bibi dimostra di non volersi fermare e di continuare dritto sulla via della guerra. Il tanto temuto assedio a Rafah ha già causato diverse vittime nelle ultime 48 ore: nel raid aereo di ieri condotto dall’Idf, stando a quanto comunicato dal capo della municipalità della città a Sud della Striscia e a ridosso del confine egiziano, sono morte 44 persone, tra cui almeno 14 bambini. Secondo i vertici dell’Idf, nell’attacco hanno perso la vita anche Ahmed al-Yaakobi, numero uno dell’intelligence della polizia di Hamas, il suo vice Iman a-Rantisi e Ibrahim Shatat, delegato della polizia di Hamas per la distribuzione degli aiuti.Questo scenario, oltre ad aprire un tema internazionale che riguarda la forza e la credibilità dell’attuale inquilino della Casa Bianca nei confronti dell’alleato, rischia di accendere la miccia che può provocare l’allargamento del conflitto in Medio Oriente. Proprio l’Egitto, che in questi giorni ha schierato i carri armati sulla linea di frontiera, ha avvertito Israele di essere pronto a stracciare il trattato di pace che i due Paesi firmarono nel 1979 nel caso in cui si verificasse uno spostamento di massa in territorio egiziano dell’oltre un milione di sfollati palestinesi che vivono rifugiati a Rafah. Ieri sul tema è intervenuto il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry: «C’è uno spazio limitato e un grande rischio nel sottoporre Rafah a un’ulteriore escalation militare a causa del crescente numero di palestinesi. Ciò avrebbe conseguenze terribili». L’esercito israeliano ritiene la città di confine l’ultima vera roccaforte di Hamas, motivo per cui ha sollecitato i civili a evacuare prima di sferrare l’attacco decisivo via terra per smantellare i quattro battaglioni dei miliziani ancora attivi nell’area. Netanyahu ha fatto sapere che l’offensiva dovrà essere portata a termine entro l’inizio del Ramadan, fissato per domenica 10 marzo, a dimostrazione del fatto che la pressione sul suo governo è forte, sia sul fronte interno che esterno. Ieri, in diverse città dello Stato ebraico ci sono state proteste e manifestazioni contro la gestione del premier. In particolare ad Haifa dove, secondo quanto riportato da Haaretz, c’erano circa 3.000 persone in piazza a chiedere il rilascio degli ostaggi e le elezioni anticipate. Dall’Europa, è la Germania a tentare la carta della pressione diplomatica sul governo israeliano. Il ministro degli Esteri Annalena Baerbock ha annunciato che la prossima settimana volerà in visita in Israele per presentare una proposta di cessate il fuoco e scongiurare quella che può essere una «catastrofe umanitaria annunciata». La politica tedesca, in un messaggio su X, ha spiegato: «La popolazione di Gaza non può scomparire nel nulla. Israele deve difendersi dal terrore di Hamas, ma allo stesso tempo alleviare il più possibile le sofferenze della popolazione civile. Per questo abbiamo bisogno di un altro cessate il fuoco, anche per poter liberare gli ostaggi». Anche l’Arabia Saudita ha fatto sapere che l’attacco a Rafah può avere «ripercussioni estremamente pericolose», condannando quella che ritiene una «deportazione forzata» della popolazione palestinese: «Questa continua violazione del diritto internazionale e del diritto umanitario conferma la necessità di convocare urgentemente il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per impedire a Israele di causare un’imminente catastrofe umanitaria di cui sono responsabili tutti coloro che sostengono l’aggressione». L’appello saudita di un intervento dell’Onu fa il paio con quello chiesto da Hamas. Il gruppo terrorista che dal 2006 governa la Striscia di Gaza vuole la convocazione immediata di una riunione straordinaria al Palazzo di vetro, affinché possa «obbligare l’occupazione israeliana a fermare la guerra genocida che sta commettendo contro i palestinesi a Gaza».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/scoperto-covo-hamas-sede-onu-2667236775.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="gli-huthi-minacciano-le-navi-italiane-tajani-non-ci-faremo-intimidire" data-post-id="2667236775" data-published-at="1707619255" data-use-pagination="False"> Gli Huthi minacciano le navi italiane. Tajani: «Non ci faremo intimidire» L’Italia ha assunto il comando di Aspides, la neonata missione navale Ue che ha l’obiettivo strategico di proteggere i convogli europei nel Mar Rosso. La cosa, però, non è affatto piaciuta agli Huthi, che ormai da mesi stanno ostacolando il commercio marittimo che transita tra il canale di Suez e lo stretto di Bab al-Mandab. Alcuni giorni fa, in un’intervista a Repubblica, uno dei membri di spicco dei ribelli yemeniti aveva affermato che «l’Italia sarà un bersaglio se parteciperà all’aggressione contro lo Yemen» Simili minacce sono state ribadite anche ieri da Nasr al-Din Amer, vicecapo dell’Autorità per i media degli Ansar Allah («partigiani di Dio»), altro nome con cui è nota l’organizzazione militare degli Huthi. Assumendo il comando di Aspides, ha dichiarato all’Adnkronos, l’Italia «mette a repentaglio la sicurezza delle sue navi militari e commerciali». Amer, che è anche presidente del Consiglio di amministrazione dell’agenzia di stampa Saba, ha poi spiegato in maniera perentoria «che colpiremo le navi che aggrediscono il nostro Paese o che ostacolano la decisione di impedire alle navi israeliane di attraversare il Mar Rosso. Questo deve essere chiaro». Secondo Amer, la decisione di guidare Aspides è «pericolosa» per l’Italia e «la conduce allo scontro diretto con il nostro Paese», anche perché la missione ha lo scopo di «intercettare i missili yemeniti» diretti contro le navi israeliane o comunque i convogli che navigano verso lo Stato ebraico. Pertanto, ha proseguito Amer, «non consigliamo assolutamente all’Italia di impegnarsi in questa missione, perché è basata su informazioni false ed errate, secondo cui esisterebbe un pericolo per la navigazione». Al contrario, a detta dell’esponente degli Huthi, «non esiste alcuna minaccia per la navigazione in generale, ma solo per le navi israeliane, americane e britanniche che transitano attraverso il Mar Rosso, Bab al-Mandab, il Mar Arabico e il Golfo di Aden, a causa della loro aggressione contro lo Yemen». Per scoraggiare l’Italia a guidare Aspides, Amer cita il caso dell’operazione Prosperity Guardian, la missione lanciata dagli Stati Uniti lo scorso dicembre per contrastare gli attacchi degli Huthi nel Mar Rosso. Gli americani, sostiene Amer, volevano proteggere le rotte commerciali, ma non hanno ottenuto gli effetti sperati: «Il numero di navi che attraversano il Mar Rosso è diminuito», spiega l’esponente dei partigiani di Dio, e «gli Stati Uniti non sono stati in grado di garantire alcuna protezione alle navi israeliane. Anzi, insieme alla Gran Bretagna, hanno messo a repentaglio la sicurezza delle loro navi. Di conseguenza, non consigliamo all’Italia di fare altrettanto». Anche perché, minaccia ancora Amer, se non cesserà «l’aggressione israeliana a Gaza», ci sarà un’ulteriore escalation del conflitto. «Non possiamo rivelare il tipo di questa escalation», ha proseguito l’esponente degli Huthi, «ma certamente se l’aggressione contro Gaza non si ferma, amplieremo le nostre operazioni in un modo che sorprenderà tutti». Pronta è stata la risposta di Antonio Tajani. Il ministro degli Esteri ha assicurato che, per evitare che i porti di Trieste, Taranto, Brindisi, Gioia Tauro e Genova «soffrano a causa delle violenze degli Huthi, l’Italia è stata protagonista nell’inviare una missione militare europea a difesa del traffico marittimo nell’area del Mar Rosso. Proteggeremo le nostre navi e non ci faremo intimidire». Inoltre, ha proseguito Tajani, «ci auguriamo si possa presto arrivare a una soluzione positiva in quell’area, che si possa arrivare alla pace, anche se non è facile, quindi disinnescare pure ciò che sta accadendo nello Yemen con i ribelli Huthi, che attaccano i mercantili che passano nel Mar Rosso». In ogni caso, ha concluso il ministro degli Esteri, «la nostra Marina militare difenderà le nostre navi mercantili perché siamo un Paese che ha il 40% del proprio Pil che dipende dalle esportazioni e non possiamo permetterci che l’impossibilità di esportare in quell’area provochi danni ai nostri porti e alle nostre imprese».
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Giorgetti ha poi escluso la possibilità di una manovra correttiva: «Non c'è bisogno di correggere una rotta che già gli arbitri ci dicono essere quella rotta giusta» e sottolinea l'obiettivo di tutelare e andare incontro alle famiglie e ai lavoratori con uno sguardo alle famiglie numerose». Per quanto riguarda l'ipotesi di un intervento in manovra sulle banche ha detto: «Io penso che chiunque faccia l'amministratore pubblico debba valutare con attenzione ogni euro speso dalla pubblica amministrazione. Però queste sono valutazioni politiche, ribadisco che saranno fatte solo quando il quadro di priorità sarà definito e basta aspettare due settimane».
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Il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il direttore de La Verità Maurizio Belpietro
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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Da sinistra, Leonardo Meoli (Group Head of Sustainability Business Integration), Marzia Ravanelli (direttrice Quality & Sustainability) di Bonifiche Feraresi, Giuliano Zulin (La Verità) e Nicola Perizzolo (project engineer)
Al panel su Made in Italy e sostenibilità, moderato da Giuliano Zulin, vicedirettore de La Verità, tre grandi realtà italiane si sono confrontate sul tema della transizione sostenibile: Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, Barilla, colosso del food, e Generali, tra i principali gruppi assicurativi europei. Tre prospettive diverse – la terra, l’industria alimentare e la finanza – che hanno mostrato come la sostenibilità, oggi, sia al centro delle strategie di sviluppo e soprattutto della valorizzazione del Made in Italy. «Non sono d’accordo che l’agricoltura sia sempre sostenibile – ha esordito Marzia Ravanelli, direttrice del Gruppo Quality & Sustainability di Bonifiche Ferraresi –. Per sfamare il pianeta servono produzioni consistenti, e per questo il tema della sostenibilità è diventato cruciale. Noi siamo partiti dalla terra, che è la nostra anima e la nostra base, e abbiamo cercato di portare avanti un modello di valorizzazione del Made in Italy e del prodotto agricolo, per poi arrivare anche al prodotto trasformato. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di farlo nel modo più sostenibile possibile».
Per Bf, quotata in Borsa e con oltre 11.000 ettari coltivati, la sostenibilità passa soprattutto dall’innovazione. «Attraverso l’agricoltura 4.0 – ha spiegato Ravanelli – siamo in grado di dare al terreno solo quello di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno. Così riduciamo al minimo l’uso delle risorse: dall’acqua ai fitofarmaci. Questo approccio è un grande punto di svolta: per anni è stato sottovalutato, oggi è diventato centrale». Ma non si tratta solo di coltivare. L’azienda sta lavorando anche sull’energia: «Abbiamo dotato i nostri stabilimenti di impianti fotovoltaici e stiamo realizzando un impianto di biometano a Jolanda di Savoia, proprio dove si trova la maggior parte delle nostre superfici agricole. L’agricoltura, oltre a produrre cibo, può produrre energia, riducendo i costi e aumentando l’autonomia. È questa la sfida del futuro». Dall’agricoltura si passa all’industria alimentare.
Nicola Perizzolo, project engineer di Barilla, ha sottolineato come la sostenibilità non sia una moda, ma un percorso strutturale, con obiettivi chiari e risorse ingenti. «La proprietà, anni fa, ha preso una posizione netta: vogliamo essere un’azienda di un certo tipo e fare business in un certo modo. Oggi questo significa avere un board Esg che definisce la strategia e un piano concreto che ci porterà al 2030, con un investimento da 168 milioni di euro».Non è un impegno “di facciata”. Perizzolo ha raccontato un esempio pratico: «Quando valutiamo un investimento, per esempio l’acquisto di un nuovo forno per i biscotti, inseriamo nei costi anche il valore della CO₂ che verrà emessa. Questo cambia le scelte: non prendiamo più il forno standard, ma pretendiamo soluzioni innovative dai fornitori, anche se più complicate da gestire. Il risultato è che consumiamo meno energia, pur garantendo al consumatore lo stesso prodotto. È stato uno stimolo enorme, altrimenti avremmo continuato a fare quello che si è sempre fatto».
Secondo Perizzolo, la sostenibilità è anche una leva reputazionale e sociale: «Barilla è disposta ad accettare tempi di ritorno più lunghi sugli investimenti legati alla sostenibilità. Lo facciamo perché crediamo che ci siano benefici indiretti: la reputazione, l’attrattività verso i giovani, la fiducia dei consumatori. Gli ingegneri che partecipano alle selezioni ci chiedono se quello che dichiariamo è vero. Una volta entrati, verificano con mano che lo è davvero. Questo fa la differenza».
Se agricoltura e industria alimentare sono chiamate a garantire filiere più pulite e trasparenti, la finanza deve fare la sua parte nel sostenerle. Leonardo Meoli, Group Head of Sustainability Business Integration di Generali, ha ricordato come la compagnia assicurativa lavori da anni per integrare la sostenibilità nei modelli di business: «Ogni nostra attività viene valutata sia dal punto di vista economico, sia in termini di impatto ambientale e sociale. Abbiamo stanziato 12 miliardi di euro in tre anni per investimenti legati alla transizione energetica, e siamo molto focalizzati sul supporto alle imprese e agli individui nella resilienza e nella protezione dai rischi climatici». Il mercato, ha osservato Meoli, risponde positivamente: «Vediamo che i volumi dei prodotti assicurativi con caratteristiche ESG crescono, soprattutto in Europa e in Asia. Ma è chiaro che non basta dire che un prodotto è sostenibile: deve anche garantire un ritorno economico competitivo. Quando riusciamo a unire le due cose, il cliente risponde bene».
Dalle parole dei tre manager emerge una convinzione condivisa: la sostenibilità non è un costo da sopportare, ma un investimento che rafforza la competitività del Made in Italy. «Non si tratta solo di rispettare regole o rincorrere mode – ha sintetizzato Ravanelli –. Si tratta di creare un modello di sviluppo che tenga insieme produzione, ambiente e società. Solo così possiamo guardare al futuro».In questo incrocio tra agricoltura, industria e finanza, il Made in Italy trova la sua forza. Il marchio non è più soltanto sinonimo di qualità e tradizione, ma sempre di più di innovazione e responsabilità. Dalle campagne di Jolanda di Savoia ai forni di Mulino Bianco, fino alle grandi scelte di investimento globale, la transizione passa per la capacità delle imprese italiane di essere sostenibili senza smettere di essere competitive. È la sfida del presente, ma soprattutto del futuro.
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