La decisione della Pfizer di ridurre il personale
La Pfizer in Italia ha deciso di ridurre i dipendenti dello stabilimento di Catania. A inizio febbraio aveva annunciato il licenziamento di 200 persone, ma alla fine ha raggiunto un accordo con il sindacato per incentivare l’esodo di chi è prossimo alla pensione e il trasferimento di una parte dei cosiddetti esuberi ad Ascoli Piceno, dove la multinazionale ha un secondo sito produttivo.
Fin qui nulla da dire: succede che le aziende abbiamo bisogno di adeguare la forza lavoro sulla base di nuove esigenze e capita anche che i gruppi internazionali non vadano troppo per il sottile. Essendo abituati a un sistema di regole molto più elastico di quello che vige in Italia non apprezzano le liturgie sindacali, con lunghe trattative, tavoli al ministero del lavoro, cassa integrazione, mobilità e quant’altro nel nostro Paese si è inventato per ingessare il mercato del lavoro. Tuttavia, a stupirmi non è la decisione della Pfizer di ridurre il personale, quanto che, grazie al vaccino anti Covid, il 2021 sia stato per la casa farmaceutica americana il miglior anno di sempre. Nel 2019, prima della pandemia, la multinazionale guidata da Albert Bourla aveva fatturato 51,7 miliardi di dollari. Lo scorso anno, quando ha messo in commercio il farmaco contro la pandemia, i suoi ricavi sono cresciuti fino a 81 miliardi, 37 dei quali ricavati proprio grazie al vaccino. Parlando agli analisti e agli investitori, il manager greco che è a capo del gruppo ha lasciato intendere che il 2022 sarà migliore, con un fatturato previsto fra i 98 e i 102 miliardi: un record. Se poi si guarda al profitto netto, dai 9,1 del 2020 si è passati ai 22 dello scorso anno e anche questo è un risultato mai visto.
Certo, le riorganizzazioni all’interno di una fabbrica a volte sono necessarie anche se si fanno tanti utili, perché il compito dei vertici aziendali è guardare all’efficienza di un’azienda e avere una visione di lungo periodo. E però qualche perplessità viene quando si dà uno sguardo anche al ceo pay ratio, ovvero al rapporto fra la remunerazione dell’amministratore delegato con quella della media degli altri dipendenti. Nel 2019, Bourla ha percepito un compenso pari a poco meno di 18 milioni di dollari che, approssimativamente, è pari a 181 volte lo stipendio della media degli impiegati del gruppo, per i quali la remunerazione era di poco inferiore ai 100 mila dollari l’anno. Insomma, il manager greco, già prima della pandemia percepiva un compenso con i fiocchi, che lo collocava tra i meglio retribuiti fra i ceo. Che cos’è successo invece nel 2021, cioè dopo il Covid? La remunerazione è aumentata di circa 6 milioni e mezzo, raggiungendo quota 24 milioni e 353 mila dollari, con un incremento del 35,83 per cento.
Mica male, no? E quella dei dipendenti del gruppo? Beh, purtroppo lo stipendio dei lavoratori si è assottigliato, scendendo a una media inferiore ai 93 mila dollari, con una flessione del 6,04 per cento. E il ceo pay ratio? Quello è passato da 181 a 262, ovvero Bourla percepisce 262 volte ciò che incassa mediamente un suo dipendente. Certo, bisogna premiare chi fa buoni risultati e quelli del ceo Pfizer sono ottimi, forse però anche a scapito di chi lavora al suo fianco. Il motto del gruppo è: «Traduciamo la scienza in vita». Sì, una traduzione oltre che in vita anche in soldi. Soprattutto per il suo amministratore delegato.
Non c’è solo il mondo al contrario raccontato dal generale Roberto Vannacci, c’è anche quello delle nostre istituzioni. La storia che stiamo per raccontarvi lo dimostra. Ieri Lettera43, sito di informazione finanziaria fondato da Paolo Madron, ha annunciato che Francesco De Dominicis, responsabile della comunicazione del più importante sindacato dei bancari, la Fabi, è stato costretto al passo indietro. La sua colpa? Essere sospettato di aver passato a questo giornale la chiacchierata senza freni, in un ristorante romano, del consigliere per la Difesa di Sergio Mattarella. Ricordate la vicenda? Francesco Saverio Garofani, segretario del Consiglio supremo di Difesa, in una cena di romanisti s’era lasciato andare, parlando del governo e dell’opposizione, di provvidenziali scossoni che cambiassero gli scenari politici e di quanto fossero inconsistenti gli attuali vertici dell’opposizione.
Il senso era chiaro: se non si fa qualche cosa per fermarla, Giorgia Meloni ce la ritroviamo anche alla prossima legislatura. Peccato che il presidente del Consiglio, insieme con quello della Repubblica, e in compagnia dei principali ministri che compongono l’attuale governo, sieda proprio a fianco del consigliere chiacchierone e impiccione. E dunque, appena La Verità ha pubblicato la notizia della cena e soprattutto riportato le improvvide frasi, ne è nato un caso politico. Come può un consigliere del capo dello Stato parlare in pubblico di cose del genere? Come si può accettare che un funzionario del Quirinale, che deve garantire la terzietà fra le forze politiche e che siede in un organismo che definisce indirizzi e coordina la politica militare e di sicurezza nazionale, si esprima come se fosse un parlamentare del Pd? Francesco Saverio Garofani non è un militare né un tecnico esperto di Difesa, ma un ex giornalista cresciuto nelle testate della Dc e un ex deputato di lungo corso del Partito democratico. Ma questo non lo autorizza a coltivare strategie politiche mentre occupa una posizione importante sul Colle.
La polemica ha generato forti tensioni fra il Quirinale e la maggioranza e anche con Palazzo Chigi, soprattutto perché, invece di smentire le frasi, il consigliere di Mattarella le ha sostanzialmente confermate con un’intervista al Corriere della Sera, in cui si è difeso dicendo che quelle riportate erano «quattro chiacchiere fra amici». Il buon senso, ma anche il senso delle istituzioni, avrebbe consigliato un passo indietro. Aver messo in imbarazzo il presidente della Repubblica e aver creato una frizione con il governo, in altri tempi, cioè quando le istituzioni non avevano porte girevoli a disposizione della politica, avrebbe comportato un’assunzione di responsabilità. Ma Francesco Saverio Garofani se n’è stato tranquillo al suo posto senza fare nemmeno un plissé e – c’è da scommetterci – siederà a fianco di Mattarella, ma anche di Giorgia Meloni e dei vertici delle Forze armate, al prossimo Consiglio supremo di Difesa. Chi invece sarebbe stato sollevato dall’incarico (o comunque in procinto di esserlo, magari con un accordo consensuale) sarebbe secondo Lettera43 il capo della comunicazione della Fabi, perché accusato di essere la talpa che ha passato la notizia al nostro giornale. In pratica, a pagare per le frasi di Garofani non sarebbe lo stesso Garofani, ma un altro. La cui colpa è di essersi trovato, con una ventina di altre persone, a una cena (non di lavoro ma di tifosi) in un ristorante romano. Cioè si caccerebbe chi è sospettato di aver raccontato le surreali frasi di Garofani e non l’autore delle frasi.
Se «l’allontanamento» di De Dominicis fosse vero (la Fabi ieri sera ha smentito le dimissioni) si dimostrerebbe non solo che il mondo è davvero al contrario, come dice Vannacci, ma che esiste una Casta di intoccabili che si crede al di sopra di tutto e di tutti, che non risponde all’opinione pubblica, ma che copre le proprie piccole e grandi marachelle inaugurando una caccia alle streghe. Più che una Repubblica la nostra sembra una monarchia…
- Il segretario della Cgil urla al regime e sostiene di parlare a nome del Paese reale. Ma non aderiscono allo sciopero generale neppure gli iscritti al sindacato: hanno capito che combatte una battaglia personale. Stavolta in pericolo c’è la sua poltrona.
- Landini straparla di regime e agita lo sciopero infinito: «Fanno bene ad avere paura, non ci fermeremo». E dopo i silenzi sui tagli Stellantis, va contro Elkann per «Rep».
Lo speciale contiene due articoli.
Nessun sindacalista lo ammetterà mai, ma c’è un dato che più di ogni altro fa da spartiacque tra uno sciopero riuscito e un flop. Una percentuale minima al di sotto della quale è davvero difficile cantare vittoria: l’adesione almeno degli iscritti. Insomma, se sostieni, come fa ripetutamente Maurizio Landini di essere il portavoce di un sedicente malcontento montante che sarebbe addirittura maggioranza nel Paese e ti intesti una battaglia in solitaria lasciando alle spalle Cisl e Uil e poi non ti seguono neanche i tuoi, c’è un problema.
E il problema, numeri alla mano, esiste. Ed è pure grosso. Basta vedere le percentuali dei lavoratori che hanno deciso di spalleggiare l’ennesima rivolta politica e tutta improntata ad attaccare il governo Meloni del leader della Cgil. Innanzitutto nel pubblico impiego. Tra gli statali (scuola, sanità, dipendenti di ministeri, enti locali ecc.) ci sono circa 2,7 milioni di dipendenti contrattualizzati. E tra questi il 12% ha in tasca la tessera della Cgil. Bene, a fine giornata i dati ufficiali parlavano di circa il 4,4% complessivo di adesione all’ennesimo logoro show di Landini. Messa in soldoni: ormai anche la Cgil si è stancata del suo segretario che combatte una battaglia personale e quasi sempre sulle spalle dei lavoratori.
Che in corso d’Italia monti il malcontento, La Verità lo evidenzia da un po’ di tempo, ma il dato degli impiegati dello Stato è particolarmente significativo. Perché è intorno agli statali che l’ex leader della Fiom ha combattuto e poi perso la sua battaglia più significativa. Per mesi e mesi, infatti, spalleggiato dalla Uil e dall’ex alleato Pierpaolo Bombardieri, Landini ha bloccato il rinnovo dei contratti della Pa.
Circa 20 miliardi, già stanziati dal governo, fermi. E aumenti tra i 150 e i 170 euro lordi al mese, con istituti di favore come la settimana cortissima e il ticket anche in smart working, preclusi ai lavoratori per l’opposizione a prescindere del compagno Maurizio. Certo, lui l’ha spiegata come una lotta di giustizia sociale che aveva l’obiettivo di recuperare tutta l’inflazione del periodo (2022-2024). Ma si trattava di un bluff. Perché la Cgil con governi di un colore diverso ha rinnovato contratti decisamente meno convenienti e che comunque non coprivano il carovita.
Insomma, quella sugli accordi della pubblica amministrazione è diventata l’ultima frontiera dell’opposizione a prescindere. E su quella battaglia Landini si è schiantato. Prima nel merito, perché alla fine la Uil l’ha mollato e i contratti sono stati firmati. E poi sul campo: perché se almeno la metà degli iscritti diserta sciopero (e siamo benevoli), vuol dire che i tuoi stanno bocciando una linea che porta nelle piazza, sulle barricate e sui giornali, ma lascia i lavoratori con le tasche sempre più vuote.
«Il dato», spiega alla Verità il ministro della Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo, «certifica l’ennesimo flop degli scioperi generali, un fallimento che finisce tutto sulle spalle della Cgil che nel pubblico impiego può contare su circa 300.000 iscritti. Pur ammettendo che tutti gli aderenti siano tesserati di Landini e che le proiezioni del pomeriggio vengano confermate, la bocciatura interna per la linea del segretario sarebbe evidente. E, del resto, questo disagio era palese anche sul tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto. È arrivato il momento che anche all’interno del sindacato si apra una riflessione sincera».
E se tra gli statali la sconfitta è stata cocente, non meglio è andata nel privato. Dove, però, i dati sono più frammentati. Secondo le rilevazioni degli altri sindacati, ci sono alcune situazioni clamorose e altri meno, ma sempre di batoste si tratta.
Appartengono al primo caso le adesioni ferme a quota 1% nei cantieri delle grandi opere: dal Brennero fino al Terzo valico e alla Tav. Si risale al 5% negli stabilimenti di produzione e lavorazione di cemento, legno e laterizi, ma in generale la partecipazione nell’edilizia è stata bassissima.
Come nell’agroalimentare, dove, se si fa eccezioni per la rossa Emilia-Romagna (ai reparti produttivi della Granarolo si è arrivati a sfiorare il 50%), i risultati nelle piccole e medie imprese sono quasi tutti sotto il 5%. La media tra le aziende elettriche è del 5%, nelle Poste siamo fermi al 2,5% e nelle banche si sfiora l’1%. Leggermente meglio nel terziario e nel commercio (dove viene toccato il 10%), così come si contano sulle punte delle dita i siti delle realtà industriali in doppia cifra (Ex Ilva a Novi, Marcegaglia di Dusino San Michele in Piemonte e alcuni siti di Leonardo).
Insomma, al balletto delle cifre nelle manifestazioni siamo abituati e che ci siano delle enormi differenze numeriche tra promotori dello sciopero e controparte sta nelle regole del gioco, eppure si fa davvero fatica a capire da dove il sindacato rosso abbia tirato fuori il dato del 68% delle adesioni. Se 7 lavoratori su 10 si fermano, l’Italia si blocca. Non solo i trasporti, ma tutto il sistema finisce in una sorta di pericoloso stand by collettivo. Nulla a che vedere con quello che è successo sul territorio che ieri ha subito qualche prevedibile disagio da effetto-annuncio, ma poco più. Ma, del resto, nel Paese immaginario che sta raccontando Landini può succedere questo e altro.
Landini straparla di regime e agita lo sciopero infinito
«Fanno bene ad avere qualche timore, avere qualche paura, perché non ci fermano. Non so come dirlo, non ci fermano e, siccome siamo convinti di rappresentare la maggioranza del Paese, andremo avanti fino a quando questa battaglia l’abbiamo vinta». È stato questo il grido di battaglia, ieri, del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, a Firenze dove ha partecipato al corteo nel giorno dello sciopero generale contro la legge di bilancio, salari bassi, precarietà e caro-vita.
Una protesta «per cambiare la manovra 2026, considerata del tutto inadeguata a risolvere i problemi del Paese, malgrado le modifiche appena approvate, per sostenere investimenti in sanità, istruzione, servizi pubblici e politiche industriali, per fermare l’innalzamento dell’età pensionabile, per contrastare la precarietà». Insomma, i temi sul tavolo di ogni governo degli ultimi 30 anni, basti pensare alla sanità da sempre gestita dalla sinistra da Rosy Bondi in poi, ma che, per Landini e sinistra, sembrano esplosi con l’arrivo del governo Meloni. E, ignorando totalmente i dati dell’occupazione che cresce in maniera costante, arriva a sostenere che «La precarietà non è un problema dei giovani: se vogliamo combattere e contrastare la precarietà, sono quelli che non sono precari che, innanzitutto, si devono battere e scioperare per cancellare la precarietà. Questa è la solidarietà, questo è il sindacato».
«Quando ho lavorato», ha ricordato Landini, «io la precarietà non l’ho conosciuta. E vorrei che fosse chiaro, non è merito mio, eh, io non avevo fatto niente, ero andato semplicemente a lavorare. Ma mi sono trovato dei diritti, perché quelli prima di me, che quei diritti lì non ce ne avevano, si erano battuti per ottenerli. Non per loro, ma per tutti. Tre mesi dopo che ero assunto come apprendista, ho potuto operare e partecipare a una manifestazione senza essere licenziato. Non m’hanno fatto prove del carrello», ha detto riferendosi ai tre lavoratori della catena Pam allontanati dopo un controllo a sorpresa che ha simulato un furto. «Dobbiamo far parlare il Paese reale, perché dobbiamo raccontare quel che succede: qui siamo, ormai, a un regime, ci raccontano un Paese che non c’è, ci raccontano una quantità di balle, che tutto va bene, tutto sta funzionando. Non è così».
Il leader della Cgil ha, poi, sottolineato che oggi c’è «un obiettivo esplicito della politica e del governo: mettere in discussione l’esistenza stessa del sindacato confederale come soggetto che ha diritto di negoziare alla pari col governo». Al segretario che un anno fa voleva «rivoltare il Paese come un guanto», lo sciopero politico di ieri gli è comunque costato la mancata unità sindacale con Cisl, Uil e Ugl ormai fuori sintonia. Landini ha chiarito che «il diritto di sciopero è un diritto costituzionale e non accetteremo alcun tentativo di metterlo in discussione o di limitarlo. Oggi siamo in piazza non contro altri lavoratori o altri sindacati, ma per estendere questi diritti a tutti. Quando un governo prova a delegittimare chi protesta o a ridurre gli spazi di partecipazione democratica, significa che non vuole ascoltare il disagio reale che attraversa il Paese. Lo sciopero è per cambiare politiche sbagliate. E la grande partecipazione che vediamo oggi dimostra che c’è un Paese che chiede un cambio di rotta».
«Il Paese non è più disponibile a un’altra legge di bilancio di austerità e di tagli», ha affermato il leader di Avs, Nicola Fratoianni, presente alla manifestazione con Angelo Bonelli. Sul palco in piazza del Carmine ha trovato posto anche la protesta dei giornalisti de La Stampa e Repubblica, in sciopero dopo l’annuncio di Exor della cessione del gruppo editoriale Gedi al magnate greco Theodore Kyriakou. Mai così in prima fila nella solidarietà ad altre crisi di giornali meno «amici», Landini ha spiegato il perché: «Pensiamo che quello che sta succedendo sia un tentativo esplicito di mettere in discussione la libertà di stampa e la possibilità concreta di proseguire e di fare serie politiche industriali. Mi sembra evidente quello che sta succedendo: abbiamo imprese e imprenditori che, dopo aver fatto i profitti, chiudono le imprese, se ne vogliono andare dal nostro Paese per usare i soldi e quella ricchezza che è stata prodotta da chi lavora, da altre parti. Ecco, quelli che fanno i patrioti dove sono? Stanno difendendo chi? Difendono quelli che pagano le tasse che tengono in piedi questo Paese o difendono quelli che chiudono le aziende che investono da un’altra parte?». C’è voluta la vendita di Repubblica perché Landini attaccasse Elkann visto che dalla nascita di Stellantis, nel gennaio 2021, l’azienda ha licenziato solo in Italia attraverso esodi incentivati 7.500 lavoratori. Del restom lo ha detto chiaramente Carlo Calenda di Azione: «Da quando la Repubblica è stata comprata da Elkann, Fiom e Cgil hanno smesso di dare battaglia che prima facevano con Sergio Marchionne quando la produzione aumentava, adesso che è crollata non li senti più dire nulla».
Intanto ieri Landini non ha nascosto la sua soddisfazione per la risposta allo sciopero, «le piazze si sono riempite e le fabbriche svuotate», rinfocolando la polemica a distanza con il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, che aveva definito «irresponsabile» bloccare il Paese. «Noi stiamo facendo il nostro mestiere, quello che non fa Salvini», la replica del segretario della Cgil. Il vicepremier leghista ieri ha visitato la centrale operativa delle Ferrovie dello Stato per verificare le ricadute dello sciopero, ed ha definito «incoraggianti» i dati sull’adesione, «con disagi limitati» dovuti soprattutto all’effetto «annuncio».
Resta per il momento aggrovigliato il processo di pace in Ucraina. Donald Trump si è mostrato disponibile verso delle garanzie di sicurezza nei confronti di Kiev ma ha al contempo ammesso che un accordo tra i belligeranti sia più lontano del previsto. «Daremmo una mano con la sicurezza perché è, credo, un fattore necessario», ha dichiarato il presidente americano, per poi aggiungere: «Pensavo che fossimo molto vicini a un accordo con la Russia. Pensavo che fossimo molto vicini a un accordo con l’Ucraina. In realtà, a parte il presidente Zelensky, la gente ha apprezzato l’idea dell’accordo».
L’inquilino della Casa Bianca non ha infine del tutto escluso la partecipazione statunitense all’incontro in programma oggi a Parigi sulla crisi ucraina. «Vedremo se partecipare o meno all’incontro», ha detto Trump. «Parteciperemo all’incontro di sabato in Europa se pensiamo che ci siano buone probabilità. E non vogliamo perdere troppo tempo se pensiamo che sia negativo», ha proseguito.
«Il nostro obiettivo è avere una base comune solida per i negoziati. Questo terreno comune deve unire ucraini, americani ed europei», ha affermato, sempre ieri, un funzionario francese. «Ciò dovrebbe consentirci, insieme, di fare un’offerta negoziale, un’offerta di pace solida e duratura che rispetti il diritto internazionale e gli interessi sovrani dell’Ucraina, un’offerta che i negoziatori americani sono disposti a presentare ai russi», ha continuato. Nel frattempo, il governo tedesco ha confermato che Volodymyr Zelensky prenderà parte a un vertice sull’Ucraina che si terrà lunedì a Berlino: un vertice a cui è attesa anche Giorgia Meloni.
In questo quadro, il presidente ucraino ha diffuso un proprio video, registrato nella città di Kupiansk. «Oggi è estremamente importante ottenere risultati in prima linea affinché l’Ucraina possa ottenere risultati nella diplomazia», ha affermato. Dall’altra parte, secondo il Financial Times, il piano di pace attualmente in discussione tra americani e ucraini prevedrebbe un’adesione di Kiev all’Ue entro gennaio 2027. In tutto questo, il primo ministro ucraino, Yulia Svyrydenko, ha reso noto che, ieri, la delegazione di Kiev e quella di Washington hanno tenuto una nuova tornata di colloqui dedicati alla ricostruzione dell’Ucraina.
Sta frattanto trapelando un certo irrigidimento da parte di Mosca. «Non abbiamo visto le versioni riviste delle bozze americane. Quando le vedremo, potremmo non apprezzare molte cose: questa è la mia sensazione», ha affermato il consigliere presidenziale russo, Yuri Ushakov. «Un cessate il fuoco potrà avvenire solo dopo il ritiro delle truppe ucraine», ha continuato, riferendosi al Donbass. «Se non attraverso negoziati, allora con mezzi militari, questo territorio passerà sotto il pieno controllo della Federazione russa. Tutto il resto dipenderà interamente da questo», ha altresì specificato. Ushakov ha anche respinto la proposta, avanzata da Zelensky, di tenere un referendum sul futuro del Donbass. «Il Donbass è russo. Tutto il Donbass è russo», ha detto. Nel frattempo, ieri Vladimir Putin si è incontrato ad Ashgabat con Recep Tayyip Erdogan. Nell’occasione, il presidente turco ha proposto «l’attuazione di un cessate il fuoco limitato, mirato principalmente agli impianti energetici e ai porti». Il sultano ha anche precisato che Ankara sta «seguendo i processi negoziali volti a porre fine alla guerra» e che è «pronta a ospitare colloqui in tutti i formati all’interno di questo quadro».
In tutto questo, sempre ieri, il Washington Post ha rivelato che, in occasione del suo soggiorno negli Stati Uniti per i colloqui diplomatici, il capo delegazione ucraino, Rustem Umerov, ha avuto degli incontri con il direttore dell’Fbi, Kash Patel, e con il suo vice, Dan Bongino. «Alcuni ritengono che Umerov e altri funzionari ucraini abbiano contattato Patel e Bongino nella speranza di ottenere un’amnistia da eventuali accuse di corruzione», ha riferito il quotidiano americano, che ha poi aggiunto: «Altri temono che il canale appena istituito possa essere usato per esercitare pressioni sul governo Zelensky affinché accetti un accordo di pace, proposto dall’amministrazione Trump, che prevede ampie concessioni territoriali per Kiev». Vale a tal proposito la pena di sottolineare come sia Patel che Bongino abbiano manifestato scetticismo, in passato, verso il sostegno statunitense all’Ucraina.
In questo quadro, Guido Crosetto ha espresso delusione sul debole ruolo europeo nei negoziati. «Sono molto deluso dal fatto che siano gli Usa che intervengano per trattare una pace nel cuore dell’Europa. Se domani gli Stati europei dicessero che c’è una persona a rappresentare tutto il negoziato, né Trump né la Russia potrebbero dire di no», ha detto il ministro della Difesa. «Il principio non può essere muovere guerra per fare la pace: è paradossale. Appare insensata la pace evocata da parte di chi, muovendo guerra, pretende in realtà di imporre le proprie condizioni», ha inoltre affermato, riferendosi alla Russia, Sergio Mattarella, che ha anche auspicato che l’Ucraina sia coinvolta nel processo d’integrazione Ue. «L’Europa e l’Italia restano saldamente al fianco dell’Ucraina e del suo popolo», ha altresì detto il capo dello Stato. Si registrano frattanto tensioni tra Roma e Mosca. «Le relazioni fra Italia e Russia stanno attraversando la crisi peggiore dalla fine della Seconda guerra mondiale», ha dichiarato la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, secondo cui l’Italia sarebbe «oggetto di pressioni da parte della Nato e del mondo anglosassone».





