2024-07-09
Schwazer ha finito la marcia della penitenza
Alex Schwazer (Getty Images)
Il campione di Pechino 2008 Alex Schwazer ha scontato gli 8 anni di squalifica per doping: cancellato dal mondo sportivo che lo osannò, nonostante un giudice abbia riconosciuto la manipolazione del test. L’ultima gara sarà ad Arco di Trento il 19 luglio, poi il ritiro. Quello definitivo. Si è alzato e ha ricominciato a correre. Fra gli abeti secolari, con un sorriso amaro sul volto, davanti ai pochi abitanti di Calice; gente di malga che parla poco e sa quanto sia importante per lui, da ieri, accompagnare i figli Ida e Noah in piscina o a una gara campestre senza correre il rischio di un’altra squalifica. In Val di Glovo, a pochi chilometri da Vipiteno, si celebra una piccola resurrezione alla vita dopo otto anni di reclusione fra i reietti: è quella di Alex Schwazer, il marciatore Duracell senza pile. «Grazie ai pochi che mi sono stati vicini in questo inferno», ha detto. Poi ha accelerato, inseguitelo voi.Otto anni non sono i venti dei moschettieri di Alexandre Dumas ma sono uno in più dei sette di Heinrich Harrer (meglio Brad Pitt) in Tibet. E molto più noiosi, visto che per renderli passabili il condannato ha dovuto dividersi fra Pechino Express e Il Grande Fratello, nel trionfo dello sciocchezzaio televisivo con il quale nulla aveva a che spartire. Una lunga traversata del deserto per chi fu campione olimpico di marcia nel 2008 e, con la testa inclinata su una spalla, portò l’oro all’Italia nella 50 km di Pechino. Per chi ricevette la medaglia di commendatore al Quirinale da Giorgio Napolitano. Per chi fu squalificato per doping quattro anni dopo (eritropoietina, reo confesso). Per chi, al termine del purgatorio imposto giustamente dalla pena, tornò a marciare con un unico scopo nella vita: vincere i Giochi di Rio de Janeiro nel 2016. Ma fu appiedato di nuovo, con ignominia e definitivamente, questa volta per testosterone nelle urine, accusa arrivata come un colpo di mazza da baseball sulle rotule. E rispedita al mittente un minuto dopo. Accusa alla base di una battaglia giudiziaria lunga, estenuante; una gara mondiale di marcia ma senza borracce d’acqua, senza tifosi sui marciapiedi, senza appigli, forse senza pietà da parte delle istituzioni sportive. Perché Schwazer (che aveva barato e pagato) questa volta si è sempre dichiarato innocente. E mentre il processo penale gli ha dato ragione, i tribunali sportivi - soprattutto la Wada (World Antidoping Agency) in versione Torquemada - sono sempre stati affetti da sordità nei suoi confronti. Otto anni di squalifica sono un’eternità. Oggi da uomo di sport di nuovo libero, a 39 anni suonati, dice: «Mi auguro che a nessun atleta venga mai riservato il trattamento che ho dovuto subire in tutti questi anni per difendere e tutelare il mio onore e la mia dignità, per provare la mia innocenza, per cercare di ottenere giustizia e per dimostrare la verità».Lo ha ripetuto sino allo sfinimento mentre si allenava nei boschi dell’Alto Adige da solo con i suoi fantasmi. Nel 2016 aveva scelto l’allenatore più antidoping del pianeta (Sandro Donati) per rientrare a testa alta, era pronto a schiantare tutti a Rio e invece hanno schiantato lui. «Quella provetta era alterata, mi hanno fregato», diceva in lacrime. Lo ha ripetuto per otto anni. Lo ha sentito dire anche dai giudici del tribunale ordinario di Bolzano che lo hanno assolto «per non aver commesso il fatto». Con una motivazione granitica: «Si ritiene accertato con alto grado di credibilità razionale che i campioni di urina siano stati alterati allo scopo di farli risultare positivi e, dunque, di ottenere la squalifica e il discredito dell’atleta come pure del suo allenatore».Invece di prendere atto, di riaprire il caso, di lasciare che dallo spiraglio entrasse un filo di luce, la Wada si è chiusa a riccio. Niente da fare, nessun ripensamento, nessun atto di clemenza: anche per la Federazione internazionale di atletica Schwazer era un reprobo. E quando mostrò l’intenzione di fare l’allenatore gli ricordarono che le regole antidoping internazionali prevedono che «i tesserati per una qualsiasi federazione sportiva non possono essere allenati da soggetti squalificati per doping». Doveva pagare e ha pagato fino all’ultimo giorno. Probabilmente ha continuato a risarcire il sistema ancora per la prima scivolata, quella dell’epo nella stagione dei furbetti; quella del controllo evitato con la complicità dell’allora fidanzata Carolina Kostner («In casa non c’è»); quella della sospensione dal servizio come carabiniere con riconsegna della pistola d’ordinanza e della divisa; quella della fuga della Ferrero come sponsor. «Traditi da un bravo ragazzo», dicevano al Coni e poi glissavano con passo curiale. Lui è sceso nell’abisso, lo ha conosciuto da vicino (racconta tutto nel libro autobiografico Dopo il traguardo), ma ha avuto la forza di aggrapparsi alla speranza e alla famiglia. Ha incontrato Kathryn Freund, titolare di un salone di bellezza a Vipiteno, l’ha sposata, ha visto nascere Ida e Noah, ha ritrovato la serenità. Allora ha cominciato a cancellare i giorni sul calendario e il 7 luglio ha messo l’ultimo tratto di penna. Nel frattempo non ha perso la gamba, anzi nel suo paniere c’è il tempo minimo per andare ai Giochi di Parigi. Il cronometro ha detto che a 39 anni il vecchio guerriero tornato dalle tenebre vale le olimpiadi. Poiché quel tempo non è stato ottenuto in una prova ufficiale (gli squalificati non possono ovviamente gareggiare), di fatto non esiste. Se anche partecipasse la prossima settimana a una gara Fidal, sarebbe tutto inutile: il termine per qualificarsi è scaduto il 30 giugno.Lui ha capito, non si lamenta neppure più, sembra a sua volta un abete. Gareggerà per l’ultima volta il 19 luglio nella 20 km ad Arco di Trento. Poi il ritiro. Ha scritto una lettera aperta e deve bastare: «Ringrazio tutti quelli (pochi) che mi sono stati vicini in questo doloroso (ed infernale) percorso, quelli che non mi hanno mai abbandonato quando sarebbe stato facile farlo, quelli che hanno lottato con me e sofferto assieme a me per l’ingiustizia che dovevo sopportare e per il trattamento che mi veniva riservato. Ringrazio infine quelli (molti) che dopo aver compreso la mia innocenza ed estraneità ai fatti di cui ero stato accusato, mi hanno fatto sentire (seppur a distanza) il loro affetto e vicinanza. Il buio e le tenebre per l’ingiustizia subìta faranno ora posto alla luce di un nuovo giorno nel quale potrò accompagnare i mei figli a gareggiare in una piscina o in una pista di atletica senza per questo incorrere in squalifiche». Poi si è alzato e ha ricominciato a correre. Lontano dalla ferocia dei giusti.
Jose Mourinho (Getty Images)