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2023-12-13
Schiaffi a Zelensky negli Usa. E l’Ucraina confessa: «La controffensiva è fallita»
Volodymyr Zelensky (Ansa)
Maglione nero, pantalone verde. Il presidente ucraino è volato negli Usa con la solita tenuta marziale. E, soprattutto, con il cappello in mano, per chiedere altre armi e altri soldi. Quelli che la pattuglia trumpiana, forte abbastanza da bloccare il Parlamento, continua a negargli. Nelle stesse ore in cui il «nuovo Churchill» riceveva porte in faccia a Washington, i russi annunciavano un’avanzata a Zaporizhzhia; un attacco hacker mandava in tilt rete mobile, Internet e Monobank, uno dei principali istituti di credito della nazione invasa; e il segretario del Consiglio per la sicurezza di Kiev, Oleksii Danilov, con la Bbc ammetteva il fiasco della controffensiva: «C’erano delle speranze, ma non si sono avverate».
Qualche mese fa, la missione statunitense di Volodymyr Zelensky sarebbe stata una passerella. Ieri, la terza trasferta dall’inizio della guerra si è rivelata un tentativo a perdere. Iniziato con l’accoglienza tra gli applausi al Congresso e i colloqui privati con deputati e senatori, al fianco del numero uno al Senato dei dem, Chuck Schumer, e di quello dei repubblicani, Mitch McConnell. Il quale ha però ribadito l’orientamento del suo partito: sì ai finanziamenti (un pacchetto da 61 miliardi di dollari) solo quando l’amministrazione americana sigillerà il confine meridionale. Conclusione: «È praticamente impossibile» autorizzare i trasferimenti di risorse «prima di Natale».
Subito dopo, Zelensky ha visto lo Speaker, Mike Johnson, uomo vicino a Donald Trump. Anche lui non si è granché ammorbidito: ha confermato che ci vuole trasparenza su come sono spesi i denari dei contribuenti e che bisogna intervenire per fermare l’immigrazione illegale. Altrimenti, niente aiuti agli alleati. Infine, il presidente ucraino si è recato nello Studio Ovale, per il vertice con Joe Biden.
La conferenza stampa dei due omologhi era programmata per la tarda serata italiana, dopo che La Verità era andata in stampa. In ogni caso, senza un compromesso al Congresso, l’inquilino della Casa Bianca non poteva andare molto oltre la promessa di qualche giorno fa: una manciata di razzi. E nessun nuovo assegno. Quanto rimane in cassa basta a stento fino a fine mese.
Anche i rapporti di Kiev con il Vecchio continente si avvicinano a un binario morto. La Commissione ha concordato un iter per destinare alla resistenza i profitti generati dagli asset russi congelati. Il neopremier polacco, Donald Tusk, si è spinto a invocare la «mobilitazione totale» in favore degli aggrediti. Nondimeno, gli ambasciatori Ue non hanno trovato la quadra sul dodicesimo round di sanzioni a Mosca. E le trattative sulla procedura accelerata per l’ingresso nell’Unione dell’Ucraina, oltre che della Moldavia, si sono arenate: al veto di Ungheria e Slovacchia si è aggiunto quello dell’Austria. Il cancelliere, Karl Nehammer, ritiene che, per il Paese in guerra, «non dovrebbe esserci alcun trattamento preferenziale». Alle attuali condizioni, non ci sono margini d’intesa. Il leader di Budapest, Viktor Orbán, ha ribadito le sue ragioni in un tweet: «I numeri sono chiari: i burocrati a Bruxelles non rappresentano il popolo europeo! Il 71%» dei cittadini, stando almeno a un sondaggio della conservatrice Szádzavég Foundation, «vuole che la guerra finisca subito, mentre il 73% concorda sul fatto che Russia e Ucraina debbano essere obbligate a condurre negoziati di pace». Alla faccia del sostegno a oltranza ai buoni, alla faccia dello spauracchio del Lebensraum di Vladimir Putin, il quale, incassata la vittoria nel Donbass, sarebbe intenzionato - giurano gli analisti occidentali - a riprovare la presa della capitale e poi a proseguire la marcia verso Ovest. Di sicuro, con l’inerzia del conflitto dalla sua parte, lo zar non è propenso a trattare. Nemmeno se sono vere le stime dell’intelligence statunitense: il Cremlino avrebbe perso quasi il 90% delle truppe di cui disponeva prima dell’«operazione speciale».
Gli Stati europei riluttanti devono avere ben presente l’entità del conto da pagare per l’entrata dell’Ucraina nell’Ue, sia in termini militari sia in termini economici. Quanto al primo punto, anche in assenza di un’adesione alla Nato, i membri del club dovrebbero impegnarsi nella difesa dell’alleato, come prescrivono i trattati; quanto al secondo, le sovvenzioni e i costi della ricostruzione si aggiungerebbero al prezzo della crisi energetica e del disaccoppiamento da Mosca. Ne sa qualcosa la Germania.
La Süddeutsche Zeitung ha segnalato che diverse aziende tedesche stanno inoltrando domanda di risarcimento al governo federale, per la perdita dei giri d’affari con la Russia. Tra esse, Wintershall Dea, società di gas e petrolio, Siemens Mobility e Volkswagen Bank. Già a metà novembre, a Berlino erano arrivati 16 faldoni, per un totale di 2,8 miliardi di euro, relativi a investimenti coperti da garanzie pubbliche. Tutto ciò avviene proprio nel momento in cui, al Bundestag, si è fatto serrato il confronto sulla manovra, strascico del pasticcio sui fondi extra bilancio.
Stando così le cose, non è strano che, tra i titubanti verso l’Ucraina, figuri pure Berlino, nonostante le rassicurazioni del cancelliere, Olaf Scholz. Con questa guerra per procura, gli americani puntavano, sì, a intrappolare Putin, ma altresì a picconare l’egemonia continentale tedesca, alimentata dalle economiche forniture energetiche di Mosca. Un modello imploso - sabotato - insieme ai tubi del gasdotto baltico. La leadership teutonica era un fardello, ma la sua crisi trascina con sé la filiera produttiva che era agganciata alla locomotiva, a cominciare dalla manifattura del Nord Est d’Italia. Vale l’antico principio: se Atene piange, Sparta non ride.
Bibi ammette dissidi con l’America. Biden: «Perdete sostegno ovunque»
Ieri, l’esercito israeliano ha iniziato a pompare acqua di mare nei tunnel di Hamas a Gaza. Ma nessuno sa cosa succederà, una volta che il conflitto nella Striscia di Gaza sarà concluso. Non tutti la pensano allo stesso modo. Neanche Israele e Stati Uniti. Persino il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, lo ha riconosciuto, continuando tuttavia a ringraziare Washington per il sostegno dato e assicurando che non verrà ripetuto «l’errore di Oslo», che portò alla collaborazione con i palestinesi. «Non può essere che, dopo l’enorme sacrificio dei nostri combattenti, lasceremo entrare a Gaza coloro che insegnano, sostengono e finanziano il terrorismo». «Gaza non sarà Hamas-stan nè Fatah-stan», ha assicurato Netanyahu, che nei giorni scorsi è stato criticato per aver paragonato il massiccio attacco di Hamas in Israele il 7 ottobre agli Accordi di Oslo.Parlando al ricevimento alla Casa Bianca per la festa ebraica di Hanukkah, il presidente americano, Joe Biden, ha ricordato la sua relazione decennale con Netanyahu, raccontando di aver fatto un’annotazione su una vecchia fotografia di loro due, usando il soprannome per il leader israeliano. «Ci ho scritto sopra: “Bibi, ti voglio bene ma non sono d’accordo con un accidenti di ciò che hai da dire”. E oggi è più o meno la stessa cosa», ha detto Biden tra applausi sparsi di un pubblico in gran parte ebraico, aggiungendo che Israele è in una «posizione difficile». Ha concluso però ribadendo ancora una volta la sua vicinanza al popolo ebraico e alla sua causa: «Non bisogna essere ebrei per essere sionisti, io sono sionista. Continuiamo a fornire aiuti militari a Israele per difendersi da Hamas ma bisogna stare attenti, devono stare attenti: l’opinione pubblica può cambiare da un giorno all’altro». Ha spiegato poi che Israele sta «cominciando a perdere sostegno in tutto il mondo» a causa dei bombardamenti indiscriminati. Ad ogni modo, il segretario alla Difesa americano, Lloyd Austin, dovrebbe visitare Israele la prossima settimana. Il segretario di Stato, Antony Blinken, è stato nel Paese la settimana scorsa e il consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, lo visiterà alla fine della settimana. Mentre si pensa al futuro, nel presente, l’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Josep Borrell, continua ad attaccare Israele con sempre più veemenza. «La situazione a Gaza peggiora. L’Onu ci dice che non ci sono rifugi possibili e sta per smettere di lavorare nell’area per mancanza di risorse e sicurezza. Al G7 avevamo richiesto che le attività militari di Israele a Gaza Sud non seguissero lo stesso schema di Gaza Nord ma il livello di distruzione resta senza precedenti. È peggio di Dresda, Colonia è simile a quello che è successo ad Amburgo. Tale orrore non può essere giustificato con l’orrore del 7 ottobre».
Intanto, l’assemblea generale dell’Onu si è riunita ancora una volta per discutere una nuova risoluzione per il cessate il fuoco, simile a quella bloccata dal veto degli Stati Uniti la settimana scorsa. Il ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas, ha riferito che fin qui i morti nella Striscia sarebbero 18.412. Numeri su cui ancora una volta è impossibile effettuare una verifica indipendente.
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Il leader di Kiev al Congresso e alla Casa Bianca, ma i trumpiani non sbloccano gli aiuti Sanzioni boomerang su Berlino: le imprese chiedono risarcimenti per gli affari sfumati. Josep Borrell accusa: «Gaza peggio di Dresda». Israele inizia ad allagare i tunnel di Hamas.Lo speciale contiene due articoli.Maglione nero, pantalone verde. Il presidente ucraino è volato negli Usa con la solita tenuta marziale. E, soprattutto, con il cappello in mano, per chiedere altre armi e altri soldi. Quelli che la pattuglia trumpiana, forte abbastanza da bloccare il Parlamento, continua a negargli. Nelle stesse ore in cui il «nuovo Churchill» riceveva porte in faccia a Washington, i russi annunciavano un’avanzata a Zaporizhzhia; un attacco hacker mandava in tilt rete mobile, Internet e Monobank, uno dei principali istituti di credito della nazione invasa; e il segretario del Consiglio per la sicurezza di Kiev, Oleksii Danilov, con la Bbc ammetteva il fiasco della controffensiva: «C’erano delle speranze, ma non si sono avverate». Qualche mese fa, la missione statunitense di Volodymyr Zelensky sarebbe stata una passerella. Ieri, la terza trasferta dall’inizio della guerra si è rivelata un tentativo a perdere. Iniziato con l’accoglienza tra gli applausi al Congresso e i colloqui privati con deputati e senatori, al fianco del numero uno al Senato dei dem, Chuck Schumer, e di quello dei repubblicani, Mitch McConnell. Il quale ha però ribadito l’orientamento del suo partito: sì ai finanziamenti (un pacchetto da 61 miliardi di dollari) solo quando l’amministrazione americana sigillerà il confine meridionale. Conclusione: «È praticamente impossibile» autorizzare i trasferimenti di risorse «prima di Natale». Subito dopo, Zelensky ha visto lo Speaker, Mike Johnson, uomo vicino a Donald Trump. Anche lui non si è granché ammorbidito: ha confermato che ci vuole trasparenza su come sono spesi i denari dei contribuenti e che bisogna intervenire per fermare l’immigrazione illegale. Altrimenti, niente aiuti agli alleati. Infine, il presidente ucraino si è recato nello Studio Ovale, per il vertice con Joe Biden.La conferenza stampa dei due omologhi era programmata per la tarda serata italiana, dopo che La Verità era andata in stampa. In ogni caso, senza un compromesso al Congresso, l’inquilino della Casa Bianca non poteva andare molto oltre la promessa di qualche giorno fa: una manciata di razzi. E nessun nuovo assegno. Quanto rimane in cassa basta a stento fino a fine mese. Anche i rapporti di Kiev con il Vecchio continente si avvicinano a un binario morto. La Commissione ha concordato un iter per destinare alla resistenza i profitti generati dagli asset russi congelati. Il neopremier polacco, Donald Tusk, si è spinto a invocare la «mobilitazione totale» in favore degli aggrediti. Nondimeno, gli ambasciatori Ue non hanno trovato la quadra sul dodicesimo round di sanzioni a Mosca. E le trattative sulla procedura accelerata per l’ingresso nell’Unione dell’Ucraina, oltre che della Moldavia, si sono arenate: al veto di Ungheria e Slovacchia si è aggiunto quello dell’Austria. Il cancelliere, Karl Nehammer, ritiene che, per il Paese in guerra, «non dovrebbe esserci alcun trattamento preferenziale». Alle attuali condizioni, non ci sono margini d’intesa. Il leader di Budapest, Viktor Orbán, ha ribadito le sue ragioni in un tweet: «I numeri sono chiari: i burocrati a Bruxelles non rappresentano il popolo europeo! Il 71%» dei cittadini, stando almeno a un sondaggio della conservatrice Szádzavég Foundation, «vuole che la guerra finisca subito, mentre il 73% concorda sul fatto che Russia e Ucraina debbano essere obbligate a condurre negoziati di pace». Alla faccia del sostegno a oltranza ai buoni, alla faccia dello spauracchio del Lebensraum di Vladimir Putin, il quale, incassata la vittoria nel Donbass, sarebbe intenzionato - giurano gli analisti occidentali - a riprovare la presa della capitale e poi a proseguire la marcia verso Ovest. Di sicuro, con l’inerzia del conflitto dalla sua parte, lo zar non è propenso a trattare. Nemmeno se sono vere le stime dell’intelligence statunitense: il Cremlino avrebbe perso quasi il 90% delle truppe di cui disponeva prima dell’«operazione speciale».Gli Stati europei riluttanti devono avere ben presente l’entità del conto da pagare per l’entrata dell’Ucraina nell’Ue, sia in termini militari sia in termini economici. Quanto al primo punto, anche in assenza di un’adesione alla Nato, i membri del club dovrebbero impegnarsi nella difesa dell’alleato, come prescrivono i trattati; quanto al secondo, le sovvenzioni e i costi della ricostruzione si aggiungerebbero al prezzo della crisi energetica e del disaccoppiamento da Mosca. Ne sa qualcosa la Germania. La Süddeutsche Zeitung ha segnalato che diverse aziende tedesche stanno inoltrando domanda di risarcimento al governo federale, per la perdita dei giri d’affari con la Russia. Tra esse, Wintershall Dea, società di gas e petrolio, Siemens Mobility e Volkswagen Bank. Già a metà novembre, a Berlino erano arrivati 16 faldoni, per un totale di 2,8 miliardi di euro, relativi a investimenti coperti da garanzie pubbliche. Tutto ciò avviene proprio nel momento in cui, al Bundestag, si è fatto serrato il confronto sulla manovra, strascico del pasticcio sui fondi extra bilancio. Stando così le cose, non è strano che, tra i titubanti verso l’Ucraina, figuri pure Berlino, nonostante le rassicurazioni del cancelliere, Olaf Scholz. Con questa guerra per procura, gli americani puntavano, sì, a intrappolare Putin, ma altresì a picconare l’egemonia continentale tedesca, alimentata dalle economiche forniture energetiche di Mosca. Un modello imploso - sabotato - insieme ai tubi del gasdotto baltico. La leadership teutonica era un fardello, ma la sua crisi trascina con sé la filiera produttiva che era agganciata alla locomotiva, a cominciare dalla manifattura del Nord Est d’Italia. Vale l’antico principio: se Atene piange, Sparta non ride.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/schiaffi-a-zelensky-negli-usa-2666575594.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="bibi-ammette-dissidi-con-lamerica-biden-perdete-sostegno-ovunque" data-post-id="2666575594" data-published-at="1702461560" data-use-pagination="False"> Bibi ammette dissidi con l’America. Biden: «Perdete sostegno ovunque» Ieri, l’esercito israeliano ha iniziato a pompare acqua di mare nei tunnel di Hamas a Gaza. Ma nessuno sa cosa succederà, una volta che il conflitto nella Striscia di Gaza sarà concluso. Non tutti la pensano allo stesso modo. Neanche Israele e Stati Uniti. Persino il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, lo ha riconosciuto, continuando tuttavia a ringraziare Washington per il sostegno dato e assicurando che non verrà ripetuto «l’errore di Oslo», che portò alla collaborazione con i palestinesi. «Non può essere che, dopo l’enorme sacrificio dei nostri combattenti, lasceremo entrare a Gaza coloro che insegnano, sostengono e finanziano il terrorismo». «Gaza non sarà Hamas-stan nè Fatah-stan», ha assicurato Netanyahu, che nei giorni scorsi è stato criticato per aver paragonato il massiccio attacco di Hamas in Israele il 7 ottobre agli Accordi di Oslo.Parlando al ricevimento alla Casa Bianca per la festa ebraica di Hanukkah, il presidente americano, Joe Biden, ha ricordato la sua relazione decennale con Netanyahu, raccontando di aver fatto un’annotazione su una vecchia fotografia di loro due, usando il soprannome per il leader israeliano. «Ci ho scritto sopra: “Bibi, ti voglio bene ma non sono d’accordo con un accidenti di ciò che hai da dire”. E oggi è più o meno la stessa cosa», ha detto Biden tra applausi sparsi di un pubblico in gran parte ebraico, aggiungendo che Israele è in una «posizione difficile». Ha concluso però ribadendo ancora una volta la sua vicinanza al popolo ebraico e alla sua causa: «Non bisogna essere ebrei per essere sionisti, io sono sionista. Continuiamo a fornire aiuti militari a Israele per difendersi da Hamas ma bisogna stare attenti, devono stare attenti: l’opinione pubblica può cambiare da un giorno all’altro». Ha spiegato poi che Israele sta «cominciando a perdere sostegno in tutto il mondo» a causa dei bombardamenti indiscriminati. Ad ogni modo, il segretario alla Difesa americano, Lloyd Austin, dovrebbe visitare Israele la prossima settimana. Il segretario di Stato, Antony Blinken, è stato nel Paese la settimana scorsa e il consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, lo visiterà alla fine della settimana. Mentre si pensa al futuro, nel presente, l’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Josep Borrell, continua ad attaccare Israele con sempre più veemenza. «La situazione a Gaza peggiora. L’Onu ci dice che non ci sono rifugi possibili e sta per smettere di lavorare nell’area per mancanza di risorse e sicurezza. Al G7 avevamo richiesto che le attività militari di Israele a Gaza Sud non seguissero lo stesso schema di Gaza Nord ma il livello di distruzione resta senza precedenti. È peggio di Dresda, Colonia è simile a quello che è successo ad Amburgo. Tale orrore non può essere giustificato con l’orrore del 7 ottobre». Intanto, l’assemblea generale dell’Onu si è riunita ancora una volta per discutere una nuova risoluzione per il cessate il fuoco, simile a quella bloccata dal veto degli Stati Uniti la settimana scorsa. Il ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas, ha riferito che fin qui i morti nella Striscia sarebbero 18.412. Numeri su cui ancora una volta è impossibile effettuare una verifica indipendente.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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