2018-04-22
Sana voleva sposare un italiano: uccisa dal padre e dal fratello
Aggiornato al 23/04 ore 17:30: Secondo alcuni amici della ragazza, Sana Cheema non sarebbe stata uccisa ma sarebbe deceduta in seguito a un malore, probabilmente un infarto. Nonostante ciò, il padre e lo zio di Sana «non possono lasciare il territorio del Pakistan e la zona dove è stata sepolta la ragazza è sotto sequestro». A spiegarlo è stato Raza Asif, segretario nazionale della comunità pakistana in Italia intervenuto sul caso della 25enne. A oggi restano infatti ancora molti lati da chiare sulla morte della giovane sul cui cadavere, come ha spiegato Asif, «sarà eseguita l'autopsia dopo la riesumazione».Aveva 25 anni e viveva a Brescia, ma è stata sgozzata in Pakistan dai famigliari perché aveva rifiutato il matrimonio combinato. Una connazionale ha svelato l'orrore, i due sono stati arrestati nel Gujrat.Il caso di Hina e le altre vittime del fanatismo islamico. La ventenne uccisa nel 2006 e sepolta con la testa rivolta alla Mecca. Ma il massacro si estende ben oltre la provincia bresciana.Lo speciale contiene due articoli.Sembra quasi che dorma, prigioniera di un sonno profondo. Nelle immagini del funerale islamico che hanno cominciato a circolare sul Web, il viso di Sana Cheema è incorniciato da un drappo candido. I suoi grandi occhi orientali e la bocca sottile sono chiusi, attorno alle guance le hanno deposto dei fiori color porpora. Sembra che stia sognando, ma il suo corpo è già gelido. E l'ovale del viso che sbuca dal sudario è una tragica finzione. Non vediamo al di sotto del mento, non vediamo il collo sottile. Perché è lì che si sono accaniti il padre e suo fratello. In Pakistan - il Paese che a Sana ha dato i natali e soprattutto la morte - ogni anno centinaia di ragazze fanno la stessa fine. Alcune vengono arse vive. Altre sgozzate come capretti. A Sana hanno aperto la gola perché si era rifiutata di seguire gli ordini della famiglia. Non voleva sposarsi con l'uomo, più vecchio di lei, a cui avevano deciso di darla in moglie. Lei rifiutava la tradizione, il padre e il fratello hanno voluto seguirla, ammazzandola.Lo chiamano «delitto d'onore», e fino al 2016 era sostanzialmente depenalizzato. I parenti che uccidevano una donna potevano evitare condanne, a patto che venissero perdonati dagli altri famigliari. Poi, un paio d'anni fa, il Parlamento ha approvato una legge che vieta la pratica. Di fatto, però, l'usanza tribale di massacrare la femmina riottosa non è stata sradicata, e a farne le spese è stata questa ragazza di 25 anni che adesso giace da qualche parte nella regione del Gujrat. Sana Cheema era nata in Pakistan ma era cresciuta in Italia, a Brescia. Era arrivata da bambina assieme ai genitori. Aveva frequentato le scuole in città, aveva trovato lavoro in un'autoscuola di via Bevilacqua. Si era costruita una vita, insomma. «Ha fatto la scuola a Verolanuova. Ha abitato a Verolanuova. Con i suoi familiari», ha scritto sui social network chi conosceva questa fanciulla con i capelli lunghi e lo sguardo profondo. I suoi genitori avevano anche ottenuto la cittadinanza, ma qualche tempo fa hanno deciso di spostarsi ancora, e si sono trasferiti in Germania. Sana era rimasta qui, e a quanto pare non aveva nessuna intenzione di trasferirsi altrove. Sembra che avesse conosciuto qualcuno, un ragazzo italiano, forse era intenzionata a sposarlo, o magari voleva semplicemente frequentarlo per un po' e vedere se le cose potevano funzionare. Non gliel'hanno permesso. I suoi genitori e suo fratello avevano altri piani in mente per lei. Volevano che sposasse un suo connazionale, probabilmente un quarantenne o comunque un uomo più grande, che lei forse nemmeno conosceva. Questa è l'usanza del Paese islamico, e rimane appiccicata anche a chi si trasferisce in Europa. Quando Sana si è opposta, l'hanno fatta tacere con una lama. Hanno aspettato che tornasse in patria. La giovane si trovava lì da un paio di mesi, per quella che doveva essere una vacanza come tante altre: un soggiorno per salutare i famigliari rimasti all'estero. Ma l'ultima tappa del viaggio è stato il lago di sangue. Esattamente come avvenne, nel 2006, a Hina Saleem, dolce mora di appena 19 anni. Anche Hina viveva in provincia di Brescia, a Ponte Zanano. Suo padre l'ha ammazzata perforandola venti volte con un coltello da cucina e l'ha sepolta nel giardino di casa, con la testa rivolta alla Mecca, macabro omaggio a una cultura di violenza. Pure in quel caso i famigliari approvavano. Il motivo del massacro lo chiarì sua madre Bushra, appena dieci giorni dopo l'omicidio: «Mia figlia non si comportava come una buona musulmana». Per questo i suoi parenti l'hanno smembrata come belve: portava abiti occidentali, aveva un fidanzato italiano, non voleva starsene rinchiusa in casa o tornare in Pakistan, per finire incastrata in un matrimonio combinato. Questa normalità le è costata la vita. Nel 2016, dieci anni dopo lo scempio, la madre di Hina ha detto ai giornali di aver perdonato il marito.La voce della madre di Sana, invece, non l'abbiamo ancora sentita. A farsi viva, però, è stata un'amica della ragazza: è stata lei a contattare Anna Della Moretta, firma del Giornale di Brescia che ha raccontato i primi dettagli dell'assassinio. La giovane pakistana che si è rivolta alla cronista ha ovviamente scelto di restare anonima, ma non voleva che la memoria di Sana venisse tumulata assieme al corpo. Anche questa ragazza conosce la violenza, ha sperimentato sul suo corpo la brutalità dei parenti per cui le donne valgono meno dei capi di bestiame. E ha avuto il fegato di raccontare. Molte altre, invece, non parlano. Perché non sanno come farlo o perché sono paralizzate dal terrore. Sono sepolte da vive in una comunità che è presente nel nostro Paese da parecchio tempo, ma che è ben lungi dall'essere «integrata», come si usa dire. In Italia vivono circa 108.200 pakistani, di questi 37.771 sono in Lombardia e 12.551 (dati 2017) nella sola Provincia di Brescia. Nel Bresciano, precisamente in Val Sabbia, si trova Odolo, il Comune con più abitanti di fede islamica di tutta la regione. Questa terra industrializzata, ricca di lavoro, ha sempre attratto immigrati, e per lungo tempo ha potuto assorbirli, dando loro lavoro, assistenza sanitaria, tutele e stipendi. Con gli stranieri, sono arrivate anche le loro religioni e le loro usanze, comprese quelle più terrificanti. La zona è stata un terreno fertile per imam radicali e giovani pronti a partire per combattere in Siria tra i miliziani in nero dello Stato islamico. Ma assieme a queste storie estreme ce ne sono altre, intrise di una violenza più spaventosa perché ordinaria. Normale come la vita di Sana, fatta di foto sorridenti sul Web (dove seguiva il profilo di Chiara Ferragni), di un lavoro tranquillo, di qualche emozione semplice, come quella volta in cui vinse 264 euro giocando a bingo e condivise la soddisfazione sui social. Alla lotteria della sorte, purtroppo, Sana non ha avuto la stessa fortuna. Suo padre e suo fratello sono stati arrestati dalle autorità pakistane. Lei giace morta, spezzata come i fiori purpurei che le incoronavano il viso nel giorno triste del funerale. Francesco Borgonovo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sana-voleva-sposare-un-italiano-uccisa-dal-fanatismo-islamico-2562077835.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="hina-e-le-altre-ragazze-vittime-del-fanatismo-islamico" data-post-id="2562077835" data-published-at="1757501591" data-use-pagination="False"> Hina e le altre ragazze vittime del fanatismo islamico Non è un caso che l'ultima vittima innocente della sharia, la legge sacra islamica, vivesse a Brescia, la città dei foreign fighters, dove nelle ultime settimane sono stati segnalati dai servizi segreti almeno 18 islamisti da tenere sotto controllo. Sana Cheema, pakistana, è stata uccisa in patria dal padre e dal fratello perché voleva sposare un italiano. Il copione è sempre lo stesso. Leggendo la storia di Sana il primo nome che torna in mente è quello di Hina Saleem, ventenne, pakistana anche lei, uccisa dal padre l'11 agosto 2006 a Sarezzo, nel bresciano, perché sognava una vita occidentale. E invece anche dopo la morte Hina porta con sé il marchio di una cultura che voleva lasciarsi alle spalle: ora è sepolta, con la testa rivolta alla Mecca, nel cimitero monumentale di Brescia, riquadro islamici adulti, fila sei, nascosta dall'erba troppo alta, con dei sassi a segnare il perimetro di una piccola lapide senza foto. Nella sentenza, Hina viene riconosciuta vittima del «possesso-dominio» del padre che non accettava il suo stile di vita troppo occidentale. La cronaca locale bresciana è zeppa di notizie su accoltellamenti, violenze, percosse, soprusi. Le vittime sono sempre ragazze giovanissime. A volte perché non volevano portare il velo, altre volte perché hanno scelto un uomo italiano. È viva, ma ha dovuto subire un altro tipo di violenza Jamila, una pakistana di 19 anni che nel 2011 per alcuni giorni è stata segregata a casa dai familiari perché «troppo bella». La giovane fu riaccompagnata a scuola, un istituto professionale di Brescia nel quale frequentava il primo anno, dal console pachistano di Milano. E poi c'è il fenomeno, ancora troppo diffuso, dei matrimoni combinati. L'allarme è stato lanciato neanche un anno fa proprio da chi ha il polso della situazione, ovvero Emma Avezzù, procuratore capo del tribunale per i minorenni di Brescia: «Le vicende si sviluppano soprattutto nella Bassa bresciana, dove maggiore è la concentrazione di comunità indiane, pakistane e bengalesi, in cui è diffusa questa pratica. Fascia d'età: tra i 14 e 16 anni. Si tratta di ragazzine che nascono, crescono e studiano in Italia e che sentono stretti i panni identitari della loro cultura. Imposizioni, mortificazioni e violenze fisiche o psicologiche sono all'ordine del giorno. Unica arma in mano alla Procura è l'allontanamento delle famiglie. Perché c'è un vuoto legislativo. Spiega ancora il magistrato: «In Inghilterra esiste il reato di costrizione al matrimonio. In Italia, invece, ci muoviamo nell'ambito della violenza privata». A Modena, nel 2010, un pakistano lapida sua moglie Begm Shnez in giardino, perché difendeva la figlia Nosheen che non voleva coprirsi il capo con il velo e rifiutava un matrimonio combinato. Ma anche le storie di ragazze picchiate o torturate perché non volevano indossare il velo sono tante in Italia. Esattamente un anno fa, nel giro di dieci giorni, vennero segnalati tre casi. Due nello stesso giorno: a Bassano del Grappa, in Veneto, e a Sant'Anastasia, in provincia di Napoli. Luoghi diversi del Paese per due storie identiche. Nel Vicentino, il padre picchiò la figlia che tentava di uscire di casa senza velo. In Campania la violenza integralista colpì una ventottenne che rifiutava il burqua. E solo pochi giorni prima una quattordicenne a Bologna fu allontanata dalla famiglia dalla Procura perché era stata rasata a zero dalla madre che la puniva perché sembrava troppo occidentale. Quando non si fa in tempo a intervenire, però, queste storie si trasformano in tragedie. Ne è piena la cronaca italiana. Il caso più recente è quello di Azkaa Riaz, 19 anni, era pakistana anche lei. È stata investita e uccisa dal padre padrone meno di due mesi fa a Macerata con la sua auto. Pochi giorni dopo avrebbe dovuto testimoniare contro il papà in un processo per maltrattamenti in famiglia. I fratellini di Azkaa hanno confermato le accuse in aula. E i magistrati sospettano anche che Azkaa sia stata vittima di violenza sessuale. Altra vittima: Sanaa Dafani, 18 anni, marocchina, è stata sgozzata nel 2009 dal padre mentre era in auto con il fidanzato a Pordenone. Gli investigatori descrissero il movente come «culturale» e «religioso». Vittima del «movente culturale» anche la povera Kaur Balwinde, indiana di 27 anni strangolata dal marito e buttata nel Po nel 2012. Subcultura assassina anche per Fahima Rabie Katri, 27 anni, uccisa dal marito egiziano a Milano perché le piaceva fare shopping e non metteva più il chador. Tutti femminicidi, ma con un comune denominatore: l'integralismo religioso. Fabio Amendolara