2021-11-05
Salvini detta la linea alla Lega: mai nel Ppe
Giancarlo Giorgetti e Matteo Salvini (Ansa)
Lungo Consiglio federale del partito a Roma. Il segretario riprende le redini, ribadisce di essere alternativo alla sinistra e di non voler rincorrere prospettive centriste. «Parliamo di tasse e pensioni, non di problemi interni». E Giancarlo Giorgetti si adegua.Cinquanta minuti per rimettere la chiesa sovranista al centro del villaggio. È lunga l'arringa di Matteo Salvini mentre Giancarlo Giorgetti ascolta in silenzio dopo essersi scusato per le frasi «cinematografiche» dell'intervista. Il leader della Lega chiede lealtà sulla linea politica («Basta mettere in discussione la nostra compattezza»), vuole tornare a parlare di tasse da abbassare e lavoro da garantire, sottolinea di non «inseguire la sinistra sennò perdiamo». E spiega il concetto con una battuta indirizzata al suo vice: «Se prendiamo gli applausi di Calenda, Di Maio o Carfagna dovremmo farci qualche domanda». Sull'emendamento Bud Spencer specifica: «Sono amareggiato, non arrabbiato». Attorno al tavolo del consiglio federale ci sono i tre vice (oltre a Giorgetti, Andrea Crippa e Lorenzo Fontana), i governatori (Massimiliano Fedriga, Attilio Fontana, Christian Solinas, Donatella Tesei, Luca Zaia), i capigruppo di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, e i commissari regionali. A loro il segretario scandisce anche la linea europea: «Avanti per un grande gruppo identitario, conservatore, alternativo ai socialisti con i quali il Ppe governa da anni». Tutto qui, assenso totale. Anche Giorgetti gli rinnova la fiducia. Il resto è dentro una giornata lunga e assurda, cominciata con il titolo spaghetti-western «La resa dei conti». Convocato a bruciapelo come tutti gli altri per le 18, Giorgetti annulla gli impegni precedenti e mette in secondo piano il Consiglio dei ministri che prevede all'ordine del giorno la legge sulla concorrenza, firmata da lui. Il partito chiama, tutta colpa di quel libro di Bruno Vespa e delle sue parole in libertà. «Vecchie e decontestualizzate», spiega ancora il vice di Salvini. Ma ormai conta poco, come a poker si va a vedere le carte. Quando entra alla Camera per il question time, Giorgetti minimizza aggrappandosi al calendario: «Non so cosa succederà, per me oggi è solo San Carlo, il mio santo patrono».Salvini invece lo sa e lo spiega un minuto prima dell'incontro: «Penso che esprimeremo un ok unanime alla Lega come alternativa alla sinistra, in Italia e in Europa. Da parte mia ascolto tutti, poi decido. Il governo di unità nazionale è per superare la pandemia. Noi abbiamo in testa un governo liberale di centrodestra, fondato su alcuni valori come il taglio delle tasse, la difesa della famiglia e la libertà». In mattinata segretario federale e vice si sono sentiti, c'è chi ha ipotizzato parole ruvide di Salvini («Se vuoi mi faccio da parte»), ma non c'è conferma. Tutti scettici sulle tempeste di carta: «I media sono al 90% di sinistra, un bel terremoto in casa nostra per loro è una manna», spiega un senatore di vecchia data.Salvini e Giorgetti hanno due idee (sovranista il primo, europeista il secondo), due linee politiche (movimentista-governista) e due caratteri così diversi da essere complementari. Fino a sei mesi fa lo sono stati; capopolo e frontale il primo, felpato e andreottiano il secondo. Il formidabile cacciatore di voti e il diplomatico cardinale da cda (Umberto Bossi direbbe: «Sta diventando un vescovone») avevano svolto il ruolo di dioscuri alla perfezione. Poi è arrivato Mario Draghi, il presunto Salvatore della patria, e qualcosa si è rotto. Giorgetti crede ciecamente nella missione del premier, lo seguirebbe in capo al mondo al grido di «Draghi u Akbar». Salvini no, soprattutto dopo aver ricevuto schiaffi su green pass per lavorare, delega fiscale e rinnovo del reddito di cittadinanza.Da prima dell'estate i parlamentari salviniani si pongono una domanda cruciale: «Cosa ci ha portato il nostro stare al governo?». Guardano i sondaggi e scuotono il capo: la Lega è sotto il 20% con tendenza a scendere. Per questo il leader ritiene che la stagione delle svolte centriste chieste da Giorgetti debba concludersi. E non ha nessuna intenzione di far entrare il partito nel Ppe. Più volte ha ripetuto: «La patente democratica l'abbiamo da 30 anni, governiamo regioni e città grandi e piccole. Il Ppe è un club del bridge sempre più schiacciato sulle mode progressiste». Per contro i distinguo del ministro sono soprattutto strategici. Vede spazio più al centro, vede entrare nella Lega gli scontenti da Forza Italia, vede le concrete istanze del Nord produttivo e si agita perché lì vorrebbe andare. «Di questo passo regaleremo il Paese alla sinistra, non so se il messaggio arriva» va dicendo da tempo, «perché Matteo è come una rockstar, sempre in tournée». Poi l'analisi politica: «Questa fase governista è decisiva e noi dobbiamo tornare in sintonia con il Paese per intercettare il voto di chi si è rifugiato nell'astensionismo». In teoria si guarda avanti, in pratica i temi divisivi rimangono sul tavolo fino al 12 dicembre, quando nella storia della Lega avverrà un inedito: l'Assemblea programmatica con tutti i rappresentanti del partito, dai sindaci ai ministri. Di fatto un congresso con un altro nome.