2021-05-24
Rinchiuso da 49 giorni, i carcerieri lo minacciano: «Finirai come Regeni»
Chiesti 700.000 euro per liberarlo. Surreale l’ambasciata: «Sensibilizziamo le autorità»Marco, quarantaseienne veneziano, ha due colpe gravissime. Primo: è un imprenditore e non un attivista. Secondo: è andato in Sudan per motivi di business e non per fare la «vispa Teresa». Forse, se fosse stato il cooperante di una Ong, con poche idee, confuse, ma sicuramente tutte antioccidentali, in suo favore si sarebbero già mobilitati i Vip, gli intellò, le televisioni, mentre i grandi giornali gli avrebbero dedicato almeno un titolo per ciascuno dei 49 giorni di prigionia che finora ha scontato, in un fetido stanzone di un commissariato a Khartoum. In condizioni igieniche indegne e sotto la minaccia di feroci carcerieri. A tutti gli effetti, un detenuto in attesa di giudizio, in uno Stato arabo africano preda di violenza e corruzione.Ma cos’ha fatto davvero Marco per meritarsi questo? Ufficialmente, l’accusa che pende su di lui è di frode. Molti dettagli della disavventura, però, non tornano. Nei mesi scorsi, la sua azienda, specializzata nella produzione di materiale elettrico, ha venduto una partita di trasformatori a un distributore sudanese, Ayman Gallabi, che doveva destinarli alla società elettrica nazionale. Il cliente, però, avrebbe fatto testare i prodotti da un’azienda locale, concorrente di quella veneziana. Risultato della dubbia perizia: i trasformatori non sono a norma. Per risolvere la situazione, Marco è volato direttamente in Sudan, ma si è di fatto consegnato nelle mani della polizia, che lo ha arrestato su richiesta di Gallabi. Il quale, intanto, l’aveva denunciato per frode. Piantonato in un albergo, l’imprenditore veneto, il primo aprile, sembrava aver convinto il mediatore a ritirare le accuse in cambio di 400.000 euro. Tuttavia, in aeroporto, ricevuta un’altra denuncia, Marco è stato nuovamente fermato e condotto in commissariato. La famiglia sospetta che, dietro l’intrigo, ci sia Abdallah Ahamed, miliziano vicino al generale Mohamed Hamdan Dagalo, protagonista del golpe del 2009 e accusato di stupri e massacri perpetrati nel 2004 ad Adwa, nel Darfur meridionale. Ahamed, infatti, è ritenuto il principale finanziatore della ditta di Gallabi e, a quanto pare, sarebbe intenzionato a spillare almeno altri 700.000 euro al malcapitato. Ma il padre, disperato, al Corriere del Veneto, ieri, ha assicurato: «Mio figlio tutti quei soldi non li ha».Ecco perché Marco, da 49 giorni, è costretto a dormire sul pavimento, ammassato con altre 30 persone, in un bugigattolo in cui le temperature raggiungono anche i 46 gradi e con le guardie che lo minacciano: «Ricorda cosa è successo a Giulio Regeni». A questa storiaccia, intanto, s’è aggiunto un altro giallo: proprio Gallabi, nuotatore esperto, venerdì pomeriggio è stato ritrovato «annegato nel Nilo azzurro». A Khartum si vocifera di una «vendetta dei miliziani».Ma l’Italia cosa sta facendo? La stampa veneta ha parlato di un colloquio di Luigi Di Maio con la sua omologa sudanese, che però la Farnesina, sentita dalla Verità, smentisce. L’ambasciata ha diramato una scarna nota, assicurando che il personale diplomatico ha visitato Marco 58 volte, che gli ha fornito «generi alimentari, indumenti, biancheria, libri e altri beni necessari» e che ha «sensibilizzato ufficialmente tutte le possibili istanze politiche e istituzionali, richiedendo il rispetto dei diritti» del nostro compatriota. Appunto. Marco non è nelle mani dei terroristi, bensì delle autorità di uno Stato dilaniato. Dunque, non c’è un riscatto da pagare sottobanco, come si è detto sia successo nei casi di certe connazionali rapite mentre facevano le eroine umanitarie: le due Simona, Parri e Torretta, nel 2004, in Iraq; Vanessa Marzullo e Greta Ramelli nel 2014, in Siria; Silvia «Aisha» Romano nel 2020, in Kenya. Sull’imprenditore veneziano, i media nazionali glissano e la diplomazia si limita a «sensibilizzare» i sensibilissimi sudanesi. La Fernesina, poi, non è molto ottimista: «Marco può usare il cellulare e ricevere le visite del nostro personale, ma la situazione si è complicata, perché a suo carico ora ci sono quattro denunce». E pensare che, a differenza delle tante «vispe Terese», lui, scarcerato, forse non ringrazierebbe i suoi aguzzini.