
Nel 1992, il responsabile per l’accoglienza, monsignor Giovanni Cheli, criticava la politica dei flussi aperti perché fallimentare. Ora si sente la mancanza di una Cei vicina al messaggio di Cristo, ma lontana dalle Ong.La Cei non è sempre stata quella che conosciamo adesso, grazie ai messaggi che si sono scambiati Casarini e compagni. Mentre ora i vescovi fanno a gara nel donare alle Ong che battono il Mediterraneo in cerca di migranti i soldi versati dai fedeli, un tempo la Conferenza episcopale, sul tema degli extracomunitari era assai più critica. L’ho raccontato mesi fa in un editoriale, dopo aver sfogliato un vecchio numero dell’Indipendente, quotidiano che Vittorio Feltri diresse trent’anni fa e di cui io fui vicedirettore. All’epoca, a capo dei presuli non c’era Matteo Zuppi e di Erio Castellucci, il pastore che guida la diocesi di Modena e Nonantola e che in un articolo pubblicato dall’Unità ha rivendicato il diritto a finanziare Casarini, nessuno aveva mai sentito parlare. A novembre del 1992 fu invece monsignor Giovanni Cheli, cardinale a capo del Pontificio consiglio della Pastorale per i migranti e gli itineranti, a prendere la parola. E il suo discorso fu agli antipodi di quello che si sente ora, a seguito dell’infornata di pastori «progressisti». Cheli, commentando l’applicazione della legge Martelli, ossia del primo intervento per regolare i flussi migratori, sentenziò che la norma si era rivelata un fallimento, perché aveva aperto le porte agli stranieri più di quanto fosse consentito fare. Altro che accoglienza senza se e senza ma. Per l’allora responsabile vaticano per il fenomeno dei migranti, l’Italia con la politica delle porte aperte stava sbagliando tutto. Vi sembra strano? Il contrario di quello che avevate sentito in questi ultimi anni? Beh, allora leggete padre Bruno Mioli, che della Cei era il responsabile dell’Ufficio per l’immigrazione, dunque competente in materia. Missionario della congregazione religiosa fondata dal beato Giovanni Battista Scalabrini (il cui motto è l’invito evangelico «Ero straniero e mi avete aperto»), padre Mioli, commentando un incendio in cui rischiarono di morire decine di clandestini che si erano rifugiati in un edificio occupato, disse che queste persone erano «immigrati senza futuro», che sarebbe stato «meglio rimandare indietro», visto che il nostro Paese «non era in grado di offrire loro una degna accoglienza».Certo, a rileggere oggi queste frasi, sembra di parlare di un’altra Chiesa con altri insegnamenti. Eppure è la stessa Chiesa di Cristo, i cui pastori applicano lo stesso Vangelo. Ma mentre il cardinale Cheli e padre Mioli giungevano alla conclusione che si dovesse fermare l’immigrazione, perché le persone giunte nel nostro Paese non avevano alcuna possibilità di essere integrate e accolte con dignità, la Chiesa di oggi, o meglio alcuni vescovi, ritengono che si debbano spalancare le porte a chiunque, anche a rischio di condannare queste persone a una vita ai margini e alleandosi perfino con Casarini e compagni, che di certo fino a ieri non potevano essere portati a esempio della dottrina cristiana. Le conseguenze del nuovo corso inaugurato dalla Cei sono sotto gli occhi di tutti e alla fine, anche chi non vede, è costretto ad aprire gli occhi. Mi riferisco al Corriere della Sera che ieri ha scoperto i senzatetto della capitale economica italiana. Da tempo, in pieno centro, fra gli eleganti negozi di corso Vittorio Emanuele e il Duomo, si scorgono accampamenti di homeless. E lo stesso si può vedere intorno alla stazione centrale e in tanti altri angoli di Milano. Fra chi dorme per strada ci sono degli italiani, come è sempre accaduto, ma la maggior parte delle persone che si riparano dal freddo con vecchi cartoni, stracci e qualche sacco a pelo sono stranieri. Immigrati che non hanno trovato posto in centri di accoglienza e nemmeno in edifici abbandonati. E dunque si rassegnano a dormire all’aperto, riscaldandosi con qualche liquore a basso costo. Ecco, questo è il rovescio della medaglia dell’accoglienza senza se e senza ma che tanto piace ad alcuni alti prelati. I quali danno soldi a Casarini, assurto a paladino dei migranti, senza rendersi conto di quali siano le conseguenze di una politica delle porte aperte che non tiene conto della realtà. Lo confesso, da cattolico, ho molta nostalgia di missionari come padre Mioli o di cardinali come monsignor Cheli. Le loro parole non erano dettate dall’ideologia, ma dalla concretezza. Non pagavano le Ong e i loro comunicati non venivano pubblicati dall’Unità. Ma erano assai più vicini al messaggio di Cristo. È assai più sensibili ai sentimenti dei fedeli. Da ultimo, a me viene da chiedermi il perché della svolta della Cei: diversa sensibilità culturale o protezione di un sistema?
Luca Marinelli (Ansa)
L’antica arte partenopea del piagnisteo strategico ha in Italia interpreti di alto livello: frignano, inteneriscono e incassano.
Venghino, siori, venghino, qui si narrano le gesta di una sempiterna compagnia di ventura.
L’inossidabile categoria dei cultori del piagnisteo.
Che fa del vittimismo una posa.
Per una buona causa: la loro.
Ecco #DimmiLaVerità del 6 novembre 2025. L'ex ministro Vincenzo Spadafora ci parla del suo movimento Primavera e della situazione nel centrosinistra.
Antonio Filosa (Stellantis)
La batteria elettrica è difettosa. La casa automobilistica consiglia addirittura di parcheggiare le auto lontano dalle case.
Mentre infuria la battaglia mondiale dell’automobile, con la Cina rampante all’attacco delle posizioni delle case occidentali e l’Europa impegnata a suicidarsi industrialmente, per Stellantis le magagne non finiscono mai. La casa automobilistica franco-olandese-americana (difficile ormai definirla italiana) ha dovuto infatti diramare un avviso di richiamo di ben 375.000 automobili ibride plug-in a causa dei ripetuti guasti alle batterie. Si tratta dei Suv ibridi plug-in Jeep Wrangler e Grand Cherokee in tutto il mondo (circa 320.000 nei soli Stati Uniti, secondo l’agenzia Reuters), costruiti tra il 2020 e il 2025. Il richiamo nasce dopo che si sono verificati 19 casi di incendi della batteria, che su quei veicoli è fornita dalla assai nota produttrice coreana Samsung (uno dei colossi del settore).
Lucetta Scaraffia (Ansa)
In questo clima di violenza a cui la sinistra si ispira, le studiose Concia e Scaraffia scrivono un libro ostile al pensiero dominante. Nel paradosso woke, il movimento, nato per difendere i diritti delle donne finisce per teorizzare la scomparsa delle medesime.
A uno sguardo superficiale, viene da pensare che il bilancio non sia positivo, anzi. Le lotte femministe per la dignità e l’eguaglianza tramontano nei patetici casi delle attiviste da social pronte a ribadire luoghi comuni in video salvo poi dedicarsi a offendere e minacciare a telecamere spente. Si spengono, queste lotte antiche, nella sottomissione all’ideologia trans, con riviste patinate che sbattono in copertina maschi biologici appellandoli «donne dell’anno». Il femminismo sembra divenuto una caricatura, nella migliore delle ipotesi, o una forma di intolleranza particolarmente violenta nella peggiore. Ecco perché sul tema era necessaria una riflessione profonda come quella portata avanti nel volume Quel che resta del femminismo, curato per Liberilibri da Anna Paola Concia e Lucetta Scaraffia. È un libro ostile alla corrente e al pensiero dominante, che scardina i concetti preconfezionati e procede tetragono, armato del coraggio della verità. Che cosa resta, oggi, delle lotte femministe?






