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2021-08-08
Rabbia degli Stati e migranti infetti. Biden sulla stretta si gioca il midterm
Joe Biden (Ansa)
Le polemiche sul green pass non riguardano solo l'Italia. Forti malumori crescenti si registrano anche negli Stati Uniti, dove Joe Biden è costretto a barcamenarsi su più fronti. A fine luglio, l'inquilino della Casa Bianca ha imposto ai dipendenti federali l'attestazione dell'avvenuta vaccinazione o - in alternativa - dei test a cadenza regolare, auspicando che anche scuole, governi locali e aziende si adeguino a questa linea (una linea che è stata prontamente adottata da alcune grandi società private, come Walt Disney e Walmart). Eppure i problemi non mancano.
In primis, questa situazione ha creato delle fibrillazioni tra vari sindacati del settore pubblico, che hanno espresso contrarietà alla misura o invocato una sua preventiva negoziazione. Forti perplessità sono state per esempio manifestate da sigle come Federal law enforcement officers association, National treasury employees union ed American postal workers union. In tal senso, The Hill ha lasciato intendere che la misura sugli obblighi vaccinali andrà probabilmente incontro a una valanga di ricorsi legali. Senza poi trascurare il lato politico della faccenda. L'anno scorso, gran parte del mondo sindacale americano si era schierato con Biden alle elezioni presidenziali. Il fatto che ampi settori di quello stesso mondo inizino adesso a nutrire delle antipatie per il presidente costituisce un campanello d'allarme per il Partito democratico, soprattutto in vista delle elezioni di metà mandato che si terranno a novembre del 2022 e delle voci sempre più insistenti che Donald Trump correrà alle presidenziali del 2024.
E proprio la politica costituisce il secondo fronte di scontro che sta impegnando Biden. La linea dell'obbligo vaccinale de facto ha infatti innescato una decisa levata di scudi da parte di alcuni Stati a guida repubblicana. A fine luglio, il governatore del Texas, Greg Abbott, ha firmato un ordine esecutivo per vietare alle agenzie statali di imporre l'obbligo di vaccinazione. Una posizione simile è stata sposata dal governatore della Florida, Ron DeSantis. Costui ha infatti vietato l'obbligo delle mascherine negli istituti scolastici e ha firmato già a maggio un provvedimento contro i passaporti vaccinali. Inoltre, appena l'altro ieri, la Florida ha approvato una direttiva che consente ai genitori di cambiare scuola ai propri figli, nel caso l'istituto imponesse obblighi in materia di mascherine e test.
Eppure attenzione: sbaglierebbe chi ritenesse Abbott e DeSantis dei no vax. In realtà, entrambi si sono vaccinati contro il Covid ed entrambi hanno esortato a luglio i cittadini dei propri Stati a seguire il loro esempio. Tra l'altro, è senza dubbio vero che ultimamente sia Florida che Texas abbiano registrato un notevole aumento dei contagi. Ma è altrettanto vero che, secondo i dati della Cnn, entrambi gli Stati abbiano rispettivamente il 49% e il 44% della propria popolazione completamente vaccinata: il che li colloca sostanzialmente a metà classifica nel processo di vaccinazione all'interno dell'Unione.
La contrarietà dei governatori all'obbligo dei sieri affonda semmai le proprie radici in due ragioni. La prima è di principio e si rifà alla volontà di limitare il potere dell'autorità pubblica sulle scelte dei singoli: un tema, questo, storicamente molto caro ad alcuni settori del mondo conservatore americano. La seconda ragione è di ordine pratico e chiama in causa lo spinoso dossier dell'immigrazione clandestina. «Perché non fai il tuo lavoro? Perché non metti in sicurezza questa frontiera? Finché non lo farai, non voglio sentire niente sul Covid da te», ha in tal senso tuonato DeSantis, rivolgendosi a Biden.
Secondo alcuni, il governatore starebbe soltanto cercando di distogliere l'attenzione dalla situazione sanitaria della Florida. Eppure ieri Nbc News ha rivelato che il 18% delle famiglie che hanno attraversato la frontiera illegalmente nelle ultime due settimane fosse affetta da Covid. Del resto, lo stesso Biden pochi giorni fa ha confermato le politiche del predecessore sulle espulsioni rapide per i migranti contagiati. Non solo: il Washington Examiner ha riportato mercoledì che, nella città texana di McAllen, sono stati rilasciati - nel giro di una sola settimana - 1.500 migranti positivi. Lo stesso sito Politifact, pur criticando DeSantis, ha ammesso che l'«immigrazione illegale può essere un fattore che contribuisce al diffondersi del coronavirus». Insomma, pretendere una sorta di lasciapassare dai cittadini americani quando alla frontiera si registrano simili rischi sanitari stride un po' con il buonsenso.
Infine, sulla questione, si registra anche una spaccatura tra gli americani. Un recente sondaggio della Quinnipiac University ha rilevato che la maggioranza dei cittadini sia contraria all'obbligo vaccinale per i dipendenti del settore privato, oltre che per accedere ai ristoranti. Insomma, tra elettori spaccati, malumori sindacali e scontri politici, il «green pass» americano si preannuncia un grattacapo rilevante per Biden.
Ma in Australia ti schedano per espatriare
L'anno scorso era stata una delle prime nazioni a bloccare i voli dall'Italia, ma di mese in mese l'Australia, vaccino o non vaccino, è arrivata a isolare sempre più i propri cittadini. Migliaia di famiglie sono separate dalle severe norme anti contagio, con cittadini che non riescono a tornare in patria neppure per i funerali di un genitore e gente che si vede respingere anche sei volte in tre mesi un'istanza di ricongiungimento. Così aumentano le proteste, sia di chi vorrebbe lasciare il paese, sia di chi vorrebbe rientrare. Intanto a Wuhan, in Cina, dove tutto è cominciato, torna il lockdown e parte una campagna obbligatoria di tamponi molecolari su tutta la popolazione.
L'11 marzo del 2020, quando gli italiani erano da poche ore in lockdown, l'Australia si era già distinta per la rapidità con la quale aveva reagito ai primi allarmi Covid19. Il governo guidato dal premier Scott Morrison vietò immediatamente l'ingresso ai residenti non australiani in arrivo dall'Italia, dalla Cina, dalla Corea del Sud e dall'Iran. Mentre agli australiani potevano cavarsela con 14 giorni di quarantena. Al momento del bando, in Australia c'erano stati tre morti da Coronavirus su un centinaio abbondanti di casi. A oggi, i dati ufficiali parlano di 945 morti in tutto, con sei decessi nelle ultime 24 ore. Insomma, con i parametri europei, non esattamente un'ecatombe.
Eppure, dal marzo del 2020 l'Australia è rimasta l'unica nazione a vietare l'ingresso ai propri cittadini, ai titolari di un visto temporaneo, ai residenti fissi e a coloro che hanno la doppia cittadinanza. Ed è stato vietato il lavoro all'estero. Non solo, ma a più riprese il governo ha minacciato i propri cittadini con la prigione e multe salatissime nel caso provino a tornare da paesi come l'India. Con il risultato che diversi australiani sono anche morti di Covid in India.
Gli ultimi dati parlano di 35.000 australiani in giro per il mondo che provano a tornare a casa e le cui istanze vengono respinte. Non solo, ma anche quando ci si vede accettare la richiesta per gravi motivi, l'ingresso può essere dilazionato sine die per mancanza di spazio nei cosiddetti «quarantine hotel».
E negli ultimi giorni, con la scusa della variante Delta, gli australiani che hanno provato a lasciare il paese per andare a lavorare fuori sono stati in buona parte bloccati negli aeroporti perché non sono riusciti a dimostrare «motivi di viaggio davvero impellenti». In teoria, per ragioni gravi di natura familiare o lavorativa si può ottenere di entrare o uscire dall'Australia, ma la discrezionalità in mano alle autorità sanitarie e di polizia è altissima. E il fatto che oltre 8 milioni di cittadini su 25 milioni siano vaccinati non ha impietosito il governo.
E così, dopo 17 mesi di blocco delle frontiere, anche i media cominciano a raccontare storie da film. Il Sidney Morning Herald cita il caso di un signore di 35 anni, James Turbitt, che recentemente è tornato in Australia dal Belgio per provare a dare l'ultimo saluto alla madre, gravemente malata. Le autorità gli hanno detto di affittarsi un aereo privato, se voleva uscire anzi tempo dall'hotel dove era stato rinchiuso. Nel frattempo, la madre è morta e lui ora sta mettendo a posto le ultime faccende burocratiche prima di tornarsene in Belgio. Se e quando lo faranno ripartire. Ai giornalisti, il signor Turbitt ha parlato di «norme controproducenti e barbare». La Cnn ha invece mandato in onda, tra le altre, la testimonianza di Kateryna Dmytriyeva, trentenne con una figlia piccola, che non vede la madre da marzo 2020. La mamma ha tentato di tornare in Australia per rinnovare il visto, ma è stata respinta alla frontiera, nonostante comprovati motivi di salute. Allora Kateryna ha provato a partire, nonostante le regole prevedano di dover viaggiare da soli e per almeno tre mesi (misura che di fatto taglia fuori chiunque abbia un lavoro dipendente o bambini piccoli), ma la sua domanda è stata respinta sei volte.
Non fanno invece quasi più notizia le prigionie in patria dei cittadini cinesi. Da giovedì scorso a Wuhan, tutti i residenti sono sottoposti a tappeto a test molecolari. La misura è stata presa perché le autorità sanitarie hanno registrato una ripresa dei contagi legati alla variante Delta. E per non correre rischi, è tornato il lockdown stretto in larga parte della città. A luglio, in Cina sono stati segnalati 328 nuovi casi: pochissimi in valore assoluto, ma quasi pari al numero registrato da febbraio a giugno. Ma tanto qui la colpa, come sempre, è del virus «venuto da fuori» che però il sta rendendo difficilmente distinguibili le democrazie dalle dittature.
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Da Texas e Florida muove la protesta contro gli obblighi dei certificati per le attività, tra cui i ristoranti. Sono un caso i contagi attraverso le frontiere. Il presidente teme per le prossime elezioni di metà mandato.In Australia con meno di 1.000 morti, rigidi paletti per chi va all'estero per lavoro. Continua la deriva in stile cinese.Lo speciale contiene due articoli.Le polemiche sul green pass non riguardano solo l'Italia. Forti malumori crescenti si registrano anche negli Stati Uniti, dove Joe Biden è costretto a barcamenarsi su più fronti. A fine luglio, l'inquilino della Casa Bianca ha imposto ai dipendenti federali l'attestazione dell'avvenuta vaccinazione o - in alternativa - dei test a cadenza regolare, auspicando che anche scuole, governi locali e aziende si adeguino a questa linea (una linea che è stata prontamente adottata da alcune grandi società private, come Walt Disney e Walmart). Eppure i problemi non mancano. In primis, questa situazione ha creato delle fibrillazioni tra vari sindacati del settore pubblico, che hanno espresso contrarietà alla misura o invocato una sua preventiva negoziazione. Forti perplessità sono state per esempio manifestate da sigle come Federal law enforcement officers association, National treasury employees union ed American postal workers union. In tal senso, The Hill ha lasciato intendere che la misura sugli obblighi vaccinali andrà probabilmente incontro a una valanga di ricorsi legali. Senza poi trascurare il lato politico della faccenda. L'anno scorso, gran parte del mondo sindacale americano si era schierato con Biden alle elezioni presidenziali. Il fatto che ampi settori di quello stesso mondo inizino adesso a nutrire delle antipatie per il presidente costituisce un campanello d'allarme per il Partito democratico, soprattutto in vista delle elezioni di metà mandato che si terranno a novembre del 2022 e delle voci sempre più insistenti che Donald Trump correrà alle presidenziali del 2024. E proprio la politica costituisce il secondo fronte di scontro che sta impegnando Biden. La linea dell'obbligo vaccinale de facto ha infatti innescato una decisa levata di scudi da parte di alcuni Stati a guida repubblicana. A fine luglio, il governatore del Texas, Greg Abbott, ha firmato un ordine esecutivo per vietare alle agenzie statali di imporre l'obbligo di vaccinazione. Una posizione simile è stata sposata dal governatore della Florida, Ron DeSantis. Costui ha infatti vietato l'obbligo delle mascherine negli istituti scolastici e ha firmato già a maggio un provvedimento contro i passaporti vaccinali. Inoltre, appena l'altro ieri, la Florida ha approvato una direttiva che consente ai genitori di cambiare scuola ai propri figli, nel caso l'istituto imponesse obblighi in materia di mascherine e test. Eppure attenzione: sbaglierebbe chi ritenesse Abbott e DeSantis dei no vax. In realtà, entrambi si sono vaccinati contro il Covid ed entrambi hanno esortato a luglio i cittadini dei propri Stati a seguire il loro esempio. Tra l'altro, è senza dubbio vero che ultimamente sia Florida che Texas abbiano registrato un notevole aumento dei contagi. Ma è altrettanto vero che, secondo i dati della Cnn, entrambi gli Stati abbiano rispettivamente il 49% e il 44% della propria popolazione completamente vaccinata: il che li colloca sostanzialmente a metà classifica nel processo di vaccinazione all'interno dell'Unione. La contrarietà dei governatori all'obbligo dei sieri affonda semmai le proprie radici in due ragioni. La prima è di principio e si rifà alla volontà di limitare il potere dell'autorità pubblica sulle scelte dei singoli: un tema, questo, storicamente molto caro ad alcuni settori del mondo conservatore americano. La seconda ragione è di ordine pratico e chiama in causa lo spinoso dossier dell'immigrazione clandestina. «Perché non fai il tuo lavoro? Perché non metti in sicurezza questa frontiera? Finché non lo farai, non voglio sentire niente sul Covid da te», ha in tal senso tuonato DeSantis, rivolgendosi a Biden. Secondo alcuni, il governatore starebbe soltanto cercando di distogliere l'attenzione dalla situazione sanitaria della Florida. Eppure ieri Nbc News ha rivelato che il 18% delle famiglie che hanno attraversato la frontiera illegalmente nelle ultime due settimane fosse affetta da Covid. Del resto, lo stesso Biden pochi giorni fa ha confermato le politiche del predecessore sulle espulsioni rapide per i migranti contagiati. Non solo: il Washington Examiner ha riportato mercoledì che, nella città texana di McAllen, sono stati rilasciati - nel giro di una sola settimana - 1.500 migranti positivi. Lo stesso sito Politifact, pur criticando DeSantis, ha ammesso che l'«immigrazione illegale può essere un fattore che contribuisce al diffondersi del coronavirus». Insomma, pretendere una sorta di lasciapassare dai cittadini americani quando alla frontiera si registrano simili rischi sanitari stride un po' con il buonsenso. Infine, sulla questione, si registra anche una spaccatura tra gli americani. Un recente sondaggio della Quinnipiac University ha rilevato che la maggioranza dei cittadini sia contraria all'obbligo vaccinale per i dipendenti del settore privato, oltre che per accedere ai ristoranti. Insomma, tra elettori spaccati, malumori sindacali e scontri politici, il «green pass» americano si preannuncia un grattacapo rilevante per Biden. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/rabbia-stati-migranti-biden-midterm-2654565451.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ma-in-australia-ti-schedano-per-espatriare" data-post-id="2654565451" data-published-at="1628375297" data-use-pagination="False"> Ma in Australia ti schedano per espatriare L'anno scorso era stata una delle prime nazioni a bloccare i voli dall'Italia, ma di mese in mese l'Australia, vaccino o non vaccino, è arrivata a isolare sempre più i propri cittadini. Migliaia di famiglie sono separate dalle severe norme anti contagio, con cittadini che non riescono a tornare in patria neppure per i funerali di un genitore e gente che si vede respingere anche sei volte in tre mesi un'istanza di ricongiungimento. Così aumentano le proteste, sia di chi vorrebbe lasciare il paese, sia di chi vorrebbe rientrare. Intanto a Wuhan, in Cina, dove tutto è cominciato, torna il lockdown e parte una campagna obbligatoria di tamponi molecolari su tutta la popolazione. L'11 marzo del 2020, quando gli italiani erano da poche ore in lockdown, l'Australia si era già distinta per la rapidità con la quale aveva reagito ai primi allarmi Covid19. Il governo guidato dal premier Scott Morrison vietò immediatamente l'ingresso ai residenti non australiani in arrivo dall'Italia, dalla Cina, dalla Corea del Sud e dall'Iran. Mentre agli australiani potevano cavarsela con 14 giorni di quarantena. Al momento del bando, in Australia c'erano stati tre morti da Coronavirus su un centinaio abbondanti di casi. A oggi, i dati ufficiali parlano di 945 morti in tutto, con sei decessi nelle ultime 24 ore. Insomma, con i parametri europei, non esattamente un'ecatombe. Eppure, dal marzo del 2020 l'Australia è rimasta l'unica nazione a vietare l'ingresso ai propri cittadini, ai titolari di un visto temporaneo, ai residenti fissi e a coloro che hanno la doppia cittadinanza. Ed è stato vietato il lavoro all'estero. Non solo, ma a più riprese il governo ha minacciato i propri cittadini con la prigione e multe salatissime nel caso provino a tornare da paesi come l'India. Con il risultato che diversi australiani sono anche morti di Covid in India. Gli ultimi dati parlano di 35.000 australiani in giro per il mondo che provano a tornare a casa e le cui istanze vengono respinte. Non solo, ma anche quando ci si vede accettare la richiesta per gravi motivi, l'ingresso può essere dilazionato sine die per mancanza di spazio nei cosiddetti «quarantine hotel». E negli ultimi giorni, con la scusa della variante Delta, gli australiani che hanno provato a lasciare il paese per andare a lavorare fuori sono stati in buona parte bloccati negli aeroporti perché non sono riusciti a dimostrare «motivi di viaggio davvero impellenti». In teoria, per ragioni gravi di natura familiare o lavorativa si può ottenere di entrare o uscire dall'Australia, ma la discrezionalità in mano alle autorità sanitarie e di polizia è altissima. E il fatto che oltre 8 milioni di cittadini su 25 milioni siano vaccinati non ha impietosito il governo. E così, dopo 17 mesi di blocco delle frontiere, anche i media cominciano a raccontare storie da film. Il Sidney Morning Herald cita il caso di un signore di 35 anni, James Turbitt, che recentemente è tornato in Australia dal Belgio per provare a dare l'ultimo saluto alla madre, gravemente malata. Le autorità gli hanno detto di affittarsi un aereo privato, se voleva uscire anzi tempo dall'hotel dove era stato rinchiuso. Nel frattempo, la madre è morta e lui ora sta mettendo a posto le ultime faccende burocratiche prima di tornarsene in Belgio. Se e quando lo faranno ripartire. Ai giornalisti, il signor Turbitt ha parlato di «norme controproducenti e barbare». La Cnn ha invece mandato in onda, tra le altre, la testimonianza di Kateryna Dmytriyeva, trentenne con una figlia piccola, che non vede la madre da marzo 2020. La mamma ha tentato di tornare in Australia per rinnovare il visto, ma è stata respinta alla frontiera, nonostante comprovati motivi di salute. Allora Kateryna ha provato a partire, nonostante le regole prevedano di dover viaggiare da soli e per almeno tre mesi (misura che di fatto taglia fuori chiunque abbia un lavoro dipendente o bambini piccoli), ma la sua domanda è stata respinta sei volte. Non fanno invece quasi più notizia le prigionie in patria dei cittadini cinesi. Da giovedì scorso a Wuhan, tutti i residenti sono sottoposti a tappeto a test molecolari. La misura è stata presa perché le autorità sanitarie hanno registrato una ripresa dei contagi legati alla variante Delta. E per non correre rischi, è tornato il lockdown stretto in larga parte della città. A luglio, in Cina sono stati segnalati 328 nuovi casi: pochissimi in valore assoluto, ma quasi pari al numero registrato da febbraio a giugno. Ma tanto qui la colpa, come sempre, è del virus «venuto da fuori» che però il sta rendendo difficilmente distinguibili le democrazie dalle dittature.
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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