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2023-01-09
Qui comandano i boss di Tirana
Il loro codice morale si chiama «Besa» e per boss e gregari vale più di tutte le leggi del loro Paese. Il suo significato è onore e dopo l’affiliazione diventa un contratto da onorare fino alla morte. Ha regole molto simili a quelle delle famiglie di ’ndrangheta. Tant’è che proprio come la criminalità organizzata calabrese produce pochissimi pentiti. E dopo il complicato periodo degli anni Novanta, quando i boss appena sbarcati in Italia erano diventati pappa e ciccia con la Sacra corona unita pugliese e, insieme con questi, erano finiti sotto il fuoco incrociato di migliaia di inchieste antimafia, uscendone molto ridimensionati, ora sono tornati più forti di prima. E la loro ascesa, definita di recente come «inarrestabile» da Vincenzo Musacchio, criminologo, giurista e associato al Rutgers Institute on anti corruption studies di Newark (Usa), sta preoccupando non poco il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo che, un mese fa, è volato a Tirana per stringere le relazioni internazionali sul contrasto alla criminalità organizzata con la Procura speciale albanese.
La mafia albanese ormai si è ripresa gli spazi che era stata costretta a lasciare. Anche grazie ai prezzi concorrenziali che offre nel mercato del narcotraffico. Le cosche di Tirana, spiegano dalla Direzione investigativa antimafia, si sono qualificate «come particolarmente affidabili». E riescono «a movimentare ingenti quantità di cocaina ed eroina attraverso la cooperazione di connazionali presenti in patria, in America e in altri Paesi europei, specie nei Paesi Bassi». I prezzi contenuti della materia prima avrebbero quindi «favorito il consolidamento dei rapporti con le organizzazioni mafiose italiane». Tanto da entrare in stretta confidenza con uno dei broker della ’ndrangheta che aveva scelto come base operativa Trezzano sul Naviglio, in provincia di Milano, e che è risultato legato alla potentissima cosca dei Bellocco di Rosarno (Reggio Calabria).
Ma anche con una delle cosche emergenti della Stidda siciliana gli albanesi non hanno disdegnato relazioni: sempre in Lombardia è saltato fuori l’asse tra quattro grossisti albanesi che importavano cocaina dall’Olanda e un gruppo di acquirenti italiani che controllavano la zona dei cosiddetti «Palazzi» del quartiere Sant’Eusebio di Cinisello Balsamo (Milano). A capo del gruppo italiano c’era il figlio di un ergastolano capo stidda di Mazzarino (Caltanissetta). E a Varese a casa di due narcotrafficanti albanesi gli investigatori hanno sequestrato 100.000 euro provento degli affari. E se prima l’epicentro era la Puglia, dove ancora gli albanesi immettono tonnellate di stupefacenti sul mercato, le ultime inchieste dimostrano le inquietanti ramificazioni in tutto il Paese.
«La mafia albanese ha preso in subappalto in Liguria la gestione del traffico di droga dalla ’ndrangheta», ha svelato il direttore della Dia Maurizio Vallone durante un suo viaggio a Genova. «Genova», ha spiegato l’investigatore, «è un porto che negli ultimi tempi è sotto stretta sorveglianza degli investigatori e lo dimostrano gli ingenti quantitativi di droga sequestrati». In Emilia Romagna, per esempio, soprattutto tra Reggio Emilia e Modena, riuscivano a far arrivare la droga dall’Olanda con centinaia di corrieri che riuscivano a passare i controlli nascondendo abilmente lo stupefacente nelle loro automobili. A Venezia erano riusciti addirittura a gestire in regime di monopolio lo spaccio al dettaglio nel centro storico. Mentre a Verona un autoveicolo abbandonato da tre albanesi durante un controllo teneva nel bagagliaio 138 chili di cocaina. Nonostante il veicolo fosse sotto sequestro, durante le indagini è emerso che uno degli albanesi si era organizzato per tentare di recuperare il carico.
In Molise, dopo un accordo con la mafia foggiana, gli albanesi sono diventati i più influenti. «La mafia garganico-foggiana e le cointeressenze della mafia albanese», spiegano dalla Dia, «si affiancano alle realtà criminali legate a camorra, ’ndrangheta, Cosa nostra e in tal modo il Molise presenterebbe, più di altre regioni, la connotazione di essere il punto d’incontro fra diversi interessi economici appetibili per le consorterie criminali». Di conseguenza, si sono registrati negli ultimi tempi «significative infiltrazioni in tutti i comparti maggiormente esposti al rischio di riciclaggio di denaro di provenienza illecita, quali le attività di rivendita di auto usate, di gestione dei locali notturni e delle sale giochi o quelle connesse con il settore dell’edilizia, l’acquisizione di attività commerciali, la produzione e distribuzione di energia elettrica, gas e acqua, nonché la gestione dei rifiuti e verosimilmente la fiorente green-economy».
Insomma, nel laboratorio molisano, gli albanesi stanno sperimentando la criminalità 2.0. Un upgrade che potrebbe portare presto la mala di Tirana a scalare la vetta del sistema criminale italiano. Partendo da Roma. Dove due settimane fa due bande sono state condannate a complessivi 120 anni di carcere, per aver invaso la capitale spingendosi a stringere una forte alleanza con la banda di Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, il leader degli Irriducibili della Lazio ucciso con un colpo alla nuca durante un agguato al parco degli Acquedotti. «L’uso indiscriminato della violenza è una caratteristica dei sodalizi albanesi», sottolineano dalla Dia, «sia per quel che concerne la composizione di faide interne legate alla gestione del mercato della droga, sia quale mezzo di intimidazione e di assoggettamento».
Ma non sono solo gli stupefacenti il loro core business. L’altro settore che li vede specializzati è quello dei reati predatori. Il fenomeno è caratterizzato dall’operatività di bande criminali che agiscono depredando abitazioni, ville, centri commerciali o assaltando bancomat e uffici postali. E da poco si sono buttati sull’oro nero. La Guardia di finanza di San Donà di Piave (Venezia) ha scoperto una frode che vedeva un albanese particolarmente attivo nel settore del commercio all’ingrosso di prodotti petroliferi. La frode era basata su un meccanismo di evasione dell’Iva e perpetrato attraverso l’emissione di fatture false tra società di comodo e ha fruttato circa 25 milioni di euro. E basta fare una semplice ricerca sul motore di ricerca Google per scoprire quanti arresti ci sono stati nell’ultimo anno in Italia per lo sfruttamento della prostituzione di ragazze importate dall’Albania: soprattutto a Bologna, a Brescia, a Trieste, a Salerno, a Como, a Modena.
«Anche nel settore del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina i sodalizi albanesi continuano a indirizzare i loro interessi spesso congiuntamente a soggetti di diverse etnie e attraverso la commissione di reati collegati come lo sfruttamento della prostituzione di donne connazionali e la produzione di documenti falsi realizzati al fine di favorire la permanenza irregolare di cittadini extracomunitari sul territorio nazionale o europeo», denunciano dalla Dia.
E il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri avverte: «Da almeno tre anni dico che in Europa c’è una mafia emergente, quella albanese. L’Albania è un paese corrotto, dove è facile corrompere i funzionari pubblici. Se poi esco dall’Albania e ho già un potere economico riesco a rafforzarmi come mafia internazionale».
Con il film premiato grazie a un onorevole ripulito un milione
È stato selezionato per 25 premi cinematografici, l’ultimo dei quali, come miglior film italiano del 2021, al Los Angeles film festival. Ma All’alba perderò, pellicola della Henea production di Daniele Muscariello, che non disdegnava le pericolosissime relazioni con narcotrafficanti del calibro di Elvis Demce e Ermal Arapaj, due albanesi che a Roma - ritengono i magistrati antimafia - hanno un certo peso specifico negli ambienti della mala che conta, sarebbe stato finanziato addirittura da un clan della camorra. Il produttore romano, legato sentimentalmente a Fabiola Cimminella, ex tentatrice nel reality di Canale 5 Temptation Island, lo scorso marzo, un po’ in sordina, è finito agli arresti con l’accusa di riciclaggio per il cartello napoletano dei D’Amico-Mazzarella, guidato da Salvatore D’Amico, detto O’ Pirata.
«Per un film ci possono volere 200.000 euro come 50 milioni», spiegava Muscariello agli amici albanesi. E, così, a colpi di 50, 100 e 150.000 euro per volta, il clan napoletano alla fine ha ripulito a Roma almeno 1.250.000 euro, facendolo passare per le società cinematografiche di Muscariello ma anche per una ditta vitivinicola di Monte Porzio Catone, la Femar Vini, con la copertura di un «onorevole» che alla fine non è stato identificato. Il denaro, secondo l’accusa, veniva prelevato in contanti a Napoli e trasportato a Roma. Poi, dalla casa vinicola i bonifici sarebbero partiti per quella cinematografica e sarebbero infine tornati al clan grazie a un complesso giro di fatture per operazioni inesistenti.
La casa cinematografica, infatti, avrebbe ricevuto fatture per circa 1 milione di euro da diverse società localizzate in provincia di Napoli, che, secondo la ricostruzione degli inquirenti, sarebbero relative a prestazioni di servizi non attinenti all’attività svolta, ma funzionali a giustificare il ritorno del denaro al gruppo criminale. Nella cassa del produttore sarebbero così rimasti 250.000 euro per il disturbo. In una delle conversazioni è emerso anche che Muscariello avrebbe avuto l’intenzione di cedere a un istituto bancario di Caserta uno dei crediti maturati per le attività cinematografiche «già ratificato», annotano gli investigatori, «dal ministero attraverso Henea production srl». «Al fine di comprendere se esiste la possibilità, la reale possibilità di poter cedere il credito maturato per le attività di opere filmiche... credito ratificato dal ministero», si lascia scappare il produttore in una conversazione.
E infatti, qualche giorno dopo, ancora un volta in compagnia della showgirl, Muscariello raggiunge la sede della Banca del Sud di Caserta, pedinato dalla polizia giudiziaria. In auto svela alla ragazza le sue reali intenzioni: «Io faccio un altro lavoro... e ancora non ci sei arrivata... ma stiamo facendo il film che mi devi dare un parere? Qua non mi devi dare un parere... qua devi fare quello che ti dico io... perché è un’altra cosa... Mi serve perché non siamo facendo un film, stiamo facendo un altro lavoro...».
«Abbiamo relazioni importanti, sono quattro volte che mi arrestano ma poi torno a casa», si vantava a telefono Muscariello. Che insieme agli albanesi, sostengono i pm, era pronto a mettere in atto anche un sequestro di persona a scopo di estorsione. Un dettaglio che è saltato fuori proprio da una captazione nell’abitazione di Demce (che in quel momento era agli arresti domiciliari), dove Muscariello e la showgirl si erano recati per parlare dell’affare. È proprio Demce a spiegare: «Ma lascia perdere i finanziamenti... vuole fare gli investimenti per prendere qualcosa... vuole i costruttori potenti per fotterli [...]. Stiamo prendendo subito un magazzino, un capannone per chiuderli... insomma con la scusa che questi stanno arrivando per fare un contratto di lavoro entreremo noi... per spaventarli... non per ucciderli... A uno lo colpiamo a una gamba, l’altro lo facciamo andare».
Muscariello spiegò che alcuni esponenti della famiglia napoletana sarebbero andati da Demce per pianificare il progetto. In particolare, il titolare di una società di ponteggi si sarebbe prestato a organizzare un incontro, chiedendo all’imprenditore da rapire di raggiungerlo nella sede della ditta per definire un preventivo. Lì, però, l’uomo avrebbe trovato i suoi sequestratori: «A questo appuntamento troveranno una sorpresa», spiega Muscariello. E Demce: «Ci saremo noi». Ma di operazioni con gli albanesi il produttore ne prevedeva più di una: «Se facciamo quel lavoro, ti compri quello che ti pare». Demce replica: «Oh, porco dinci, te la posso dire una cosa? Se facciamo quel lavoro una cosa di queste non vuoi che ce la compriamo? Prendiamo una società e gliela intestiamo, ce la compriamo». «Il contenuto delle intercettazioni», scrivono gli investigatori, «permette di ritenere particolarmente rilevante sia il peso criminale del gruppo capeggiato da Demce, sia l’inequivoca configurabilità del metodo mafioso che caratterizza l’agire dell’organizzazione». E il produttore, «titolare di numerose società operanti nel settore cinematografico», stando alle accuse, si sarebbe trasformato in «un punto di stabile riferimento per le attività di riciclaggio». Dimostrando ancora la capacità d’infiltrazione della mala albanese nella capitale.
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Droga, prostituzione, furti nelle case, immigrazione clandestina: gli albanesi hanno scalato la criminalità italiana. I segreti? Pochi pentiti, legami con le cosche e prezzi bassi nel narcotraffico.«All’alba perderò» selezionato per 25 riconoscimenti. Un clan napoletano finanzia le riprese passando per una ditta di vini.Lo speciale contiene due articoli.Il loro codice morale si chiama «Besa» e per boss e gregari vale più di tutte le leggi del loro Paese. Il suo significato è onore e dopo l’affiliazione diventa un contratto da onorare fino alla morte. Ha regole molto simili a quelle delle famiglie di ’ndrangheta. Tant’è che proprio come la criminalità organizzata calabrese produce pochissimi pentiti. E dopo il complicato periodo degli anni Novanta, quando i boss appena sbarcati in Italia erano diventati pappa e ciccia con la Sacra corona unita pugliese e, insieme con questi, erano finiti sotto il fuoco incrociato di migliaia di inchieste antimafia, uscendone molto ridimensionati, ora sono tornati più forti di prima. E la loro ascesa, definita di recente come «inarrestabile» da Vincenzo Musacchio, criminologo, giurista e associato al Rutgers Institute on anti corruption studies di Newark (Usa), sta preoccupando non poco il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo che, un mese fa, è volato a Tirana per stringere le relazioni internazionali sul contrasto alla criminalità organizzata con la Procura speciale albanese.La mafia albanese ormai si è ripresa gli spazi che era stata costretta a lasciare. Anche grazie ai prezzi concorrenziali che offre nel mercato del narcotraffico. Le cosche di Tirana, spiegano dalla Direzione investigativa antimafia, si sono qualificate «come particolarmente affidabili». E riescono «a movimentare ingenti quantità di cocaina ed eroina attraverso la cooperazione di connazionali presenti in patria, in America e in altri Paesi europei, specie nei Paesi Bassi». I prezzi contenuti della materia prima avrebbero quindi «favorito il consolidamento dei rapporti con le organizzazioni mafiose italiane». Tanto da entrare in stretta confidenza con uno dei broker della ’ndrangheta che aveva scelto come base operativa Trezzano sul Naviglio, in provincia di Milano, e che è risultato legato alla potentissima cosca dei Bellocco di Rosarno (Reggio Calabria). Ma anche con una delle cosche emergenti della Stidda siciliana gli albanesi non hanno disdegnato relazioni: sempre in Lombardia è saltato fuori l’asse tra quattro grossisti albanesi che importavano cocaina dall’Olanda e un gruppo di acquirenti italiani che controllavano la zona dei cosiddetti «Palazzi» del quartiere Sant’Eusebio di Cinisello Balsamo (Milano). A capo del gruppo italiano c’era il figlio di un ergastolano capo stidda di Mazzarino (Caltanissetta). E a Varese a casa di due narcotrafficanti albanesi gli investigatori hanno sequestrato 100.000 euro provento degli affari. E se prima l’epicentro era la Puglia, dove ancora gli albanesi immettono tonnellate di stupefacenti sul mercato, le ultime inchieste dimostrano le inquietanti ramificazioni in tutto il Paese.«La mafia albanese ha preso in subappalto in Liguria la gestione del traffico di droga dalla ’ndrangheta», ha svelato il direttore della Dia Maurizio Vallone durante un suo viaggio a Genova. «Genova», ha spiegato l’investigatore, «è un porto che negli ultimi tempi è sotto stretta sorveglianza degli investigatori e lo dimostrano gli ingenti quantitativi di droga sequestrati». In Emilia Romagna, per esempio, soprattutto tra Reggio Emilia e Modena, riuscivano a far arrivare la droga dall’Olanda con centinaia di corrieri che riuscivano a passare i controlli nascondendo abilmente lo stupefacente nelle loro automobili. A Venezia erano riusciti addirittura a gestire in regime di monopolio lo spaccio al dettaglio nel centro storico. Mentre a Verona un autoveicolo abbandonato da tre albanesi durante un controllo teneva nel bagagliaio 138 chili di cocaina. Nonostante il veicolo fosse sotto sequestro, durante le indagini è emerso che uno degli albanesi si era organizzato per tentare di recuperare il carico.In Molise, dopo un accordo con la mafia foggiana, gli albanesi sono diventati i più influenti. «La mafia garganico-foggiana e le cointeressenze della mafia albanese», spiegano dalla Dia, «si affiancano alle realtà criminali legate a camorra, ’ndrangheta, Cosa nostra e in tal modo il Molise presenterebbe, più di altre regioni, la connotazione di essere il punto d’incontro fra diversi interessi economici appetibili per le consorterie criminali». Di conseguenza, si sono registrati negli ultimi tempi «significative infiltrazioni in tutti i comparti maggiormente esposti al rischio di riciclaggio di denaro di provenienza illecita, quali le attività di rivendita di auto usate, di gestione dei locali notturni e delle sale giochi o quelle connesse con il settore dell’edilizia, l’acquisizione di attività commerciali, la produzione e distribuzione di energia elettrica, gas e acqua, nonché la gestione dei rifiuti e verosimilmente la fiorente green-economy». Insomma, nel laboratorio molisano, gli albanesi stanno sperimentando la criminalità 2.0. Un upgrade che potrebbe portare presto la mala di Tirana a scalare la vetta del sistema criminale italiano. Partendo da Roma. Dove due settimane fa due bande sono state condannate a complessivi 120 anni di carcere, per aver invaso la capitale spingendosi a stringere una forte alleanza con la banda di Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, il leader degli Irriducibili della Lazio ucciso con un colpo alla nuca durante un agguato al parco degli Acquedotti. «L’uso indiscriminato della violenza è una caratteristica dei sodalizi albanesi», sottolineano dalla Dia, «sia per quel che concerne la composizione di faide interne legate alla gestione del mercato della droga, sia quale mezzo di intimidazione e di assoggettamento». Ma non sono solo gli stupefacenti il loro core business. L’altro settore che li vede specializzati è quello dei reati predatori. Il fenomeno è caratterizzato dall’operatività di bande criminali che agiscono depredando abitazioni, ville, centri commerciali o assaltando bancomat e uffici postali. E da poco si sono buttati sull’oro nero. La Guardia di finanza di San Donà di Piave (Venezia) ha scoperto una frode che vedeva un albanese particolarmente attivo nel settore del commercio all’ingrosso di prodotti petroliferi. La frode era basata su un meccanismo di evasione dell’Iva e perpetrato attraverso l’emissione di fatture false tra società di comodo e ha fruttato circa 25 milioni di euro. E basta fare una semplice ricerca sul motore di ricerca Google per scoprire quanti arresti ci sono stati nell’ultimo anno in Italia per lo sfruttamento della prostituzione di ragazze importate dall’Albania: soprattutto a Bologna, a Brescia, a Trieste, a Salerno, a Como, a Modena.«Anche nel settore del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina i sodalizi albanesi continuano a indirizzare i loro interessi spesso congiuntamente a soggetti di diverse etnie e attraverso la commissione di reati collegati come lo sfruttamento della prostituzione di donne connazionali e la produzione di documenti falsi realizzati al fine di favorire la permanenza irregolare di cittadini extracomunitari sul territorio nazionale o europeo», denunciano dalla Dia. E il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri avverte: «Da almeno tre anni dico che in Europa c’è una mafia emergente, quella albanese. L’Albania è un paese corrotto, dove è facile corrompere i funzionari pubblici. 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Ma All’alba perderò, pellicola della Henea production di Daniele Muscariello, che non disdegnava le pericolosissime relazioni con narcotrafficanti del calibro di Elvis Demce e Ermal Arapaj, due albanesi che a Roma - ritengono i magistrati antimafia - hanno un certo peso specifico negli ambienti della mala che conta, sarebbe stato finanziato addirittura da un clan della camorra. Il produttore romano, legato sentimentalmente a Fabiola Cimminella, ex tentatrice nel reality di Canale 5 Temptation Island, lo scorso marzo, un po’ in sordina, è finito agli arresti con l’accusa di riciclaggio per il cartello napoletano dei D’Amico-Mazzarella, guidato da Salvatore D’Amico, detto O’ Pirata. «Per un film ci possono volere 200.000 euro come 50 milioni», spiegava Muscariello agli amici albanesi. E, così, a colpi di 50, 100 e 150.000 euro per volta, il clan napoletano alla fine ha ripulito a Roma almeno 1.250.000 euro, facendolo passare per le società cinematografiche di Muscariello ma anche per una ditta vitivinicola di Monte Porzio Catone, la Femar Vini, con la copertura di un «onorevole» che alla fine non è stato identificato. Il denaro, secondo l’accusa, veniva prelevato in contanti a Napoli e trasportato a Roma. Poi, dalla casa vinicola i bonifici sarebbero partiti per quella cinematografica e sarebbero infine tornati al clan grazie a un complesso giro di fatture per operazioni inesistenti. La casa cinematografica, infatti, avrebbe ricevuto fatture per circa 1 milione di euro da diverse società localizzate in provincia di Napoli, che, secondo la ricostruzione degli inquirenti, sarebbero relative a prestazioni di servizi non attinenti all’attività svolta, ma funzionali a giustificare il ritorno del denaro al gruppo criminale. Nella cassa del produttore sarebbero così rimasti 250.000 euro per il disturbo. In una delle conversazioni è emerso anche che Muscariello avrebbe avuto l’intenzione di cedere a un istituto bancario di Caserta uno dei crediti maturati per le attività cinematografiche «già ratificato», annotano gli investigatori, «dal ministero attraverso Henea production srl». «Al fine di comprendere se esiste la possibilità, la reale possibilità di poter cedere il credito maturato per le attività di opere filmiche... credito ratificato dal ministero», si lascia scappare il produttore in una conversazione. E infatti, qualche giorno dopo, ancora un volta in compagnia della showgirl, Muscariello raggiunge la sede della Banca del Sud di Caserta, pedinato dalla polizia giudiziaria. In auto svela alla ragazza le sue reali intenzioni: «Io faccio un altro lavoro... e ancora non ci sei arrivata... ma stiamo facendo il film che mi devi dare un parere? Qua non mi devi dare un parere... qua devi fare quello che ti dico io... perché è un’altra cosa... Mi serve perché non siamo facendo un film, stiamo facendo un altro lavoro...». «Abbiamo relazioni importanti, sono quattro volte che mi arrestano ma poi torno a casa», si vantava a telefono Muscariello. Che insieme agli albanesi, sostengono i pm, era pronto a mettere in atto anche un sequestro di persona a scopo di estorsione. Un dettaglio che è saltato fuori proprio da una captazione nell’abitazione di Demce (che in quel momento era agli arresti domiciliari), dove Muscariello e la showgirl si erano recati per parlare dell’affare. È proprio Demce a spiegare: «Ma lascia perdere i finanziamenti... vuole fare gli investimenti per prendere qualcosa... vuole i costruttori potenti per fotterli [...]. Stiamo prendendo subito un magazzino, un capannone per chiuderli... insomma con la scusa che questi stanno arrivando per fare un contratto di lavoro entreremo noi... per spaventarli... non per ucciderli... A uno lo colpiamo a una gamba, l’altro lo facciamo andare». Muscariello spiegò che alcuni esponenti della famiglia napoletana sarebbero andati da Demce per pianificare il progetto. In particolare, il titolare di una società di ponteggi si sarebbe prestato a organizzare un incontro, chiedendo all’imprenditore da rapire di raggiungerlo nella sede della ditta per definire un preventivo. Lì, però, l’uomo avrebbe trovato i suoi sequestratori: «A questo appuntamento troveranno una sorpresa», spiega Muscariello. E Demce: «Ci saremo noi». Ma di operazioni con gli albanesi il produttore ne prevedeva più di una: «Se facciamo quel lavoro, ti compri quello che ti pare». Demce replica: «Oh, porco dinci, te la posso dire una cosa? Se facciamo quel lavoro una cosa di queste non vuoi che ce la compriamo? Prendiamo una società e gliela intestiamo, ce la compriamo». «Il contenuto delle intercettazioni», scrivono gli investigatori, «permette di ritenere particolarmente rilevante sia il peso criminale del gruppo capeggiato da Demce, sia l’inequivoca configurabilità del metodo mafioso che caratterizza l’agire dell’organizzazione». E il produttore, «titolare di numerose società operanti nel settore cinematografico», stando alle accuse, si sarebbe trasformato in «un punto di stabile riferimento per le attività di riciclaggio». Dimostrando ancora la capacità d’infiltrazione della mala albanese nella capitale.
Mohamed Shahin (Ansa)
Lo scorso 24 novembre, il Viminale aveva disposto l’espulsione dell’imam, denunciandone il «ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano» e definendolo «messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita», oltre che «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il ministero dell’Interno si era mosso dopo che Shahin, alla manifestazione pro Pal del 9 ottobre, si era dichiarato «d’accordo» con le stragi del 7 ottobre 2023, da lui definite una «reazione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi». Parole che, a giudizio della Procura torinese, rappresentano l’«espressione di un pensiero che non integra gli estremi di reato».
Lunedì, il verdetto che lo ha liberato dal Cpr siciliano - l’uomo è stato trasferito in una località segreta del Nord - è stato accompagnato da una polemica sul suo dossier, reso top secret dal dicastero. Ciò non ha impedito ai giudici di «prendere atto» di «elementi nuovi», rispetto a quelli disponibili alla convalida del trattenimento. Tra essi, l’immediata archiviazione del procedimento per le frasi sugli attacchi di Hamas. Inoltre, per le toghe, pur avendo partecipato a un blocco stradale, il 17 maggio scorso, nel comportamento dell’imam non si ravvisava alcun «fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». E i suoi «contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo», recitava la nota della Corte, «sono isolati e decisamente datati», «ampiamente spiegati e giustificati». Un cittadino modello.
In realtà, scavando, si appura che i controversi legami di Shahin, ancorché «datati» e «giustificati», sono comunque inquietanti. Secondo quanto risulta alla Verità, nel 2012, quest’individuo bene «integrato» sarebbe stato fermato dalla polizia di Imperia assieme a Giuliano Ibrahim Delnevo. Chi era costui? Uno studente genovese di 23 anni, convertito all’islam e ucciso nel 2013 in Siria, dove stava combattendo con i ribelli di Al Nusra, affiliata ad Al Qaida. Sempre nel 2012, l’imam fu immortalato nella foto che pubblichiamo qui accanto, al fianco di Robert «Musa» Cerantonio, il «jihadista più famoso d’Australia» - in Australia si è appena consumata la mattanza di ebrei - condannato nel 2019. Cerantonio fu ripreso anche davanti a San Pietro con la bandiera nera dell’Isis. Minacciò: «Distruggeremo il Vaticano». Cinque anni più tardi, nell’ambito delle indagini su un musulmano radicalizzato a Torino, Halili Elmahdi, sarebbe stata registrata una conversazione nella quale il sospettato consigliava a un’altra persona di rivolgersi a Shahin. Intendiamoci: Halili Elmahdi era considerato il «filosofo dell’Isis» ed evocava il «martirio» e la «guerra santa» come unica via per «i buoni musulmani». Se i contatti di Shahin sono datati, forse c’è una ragione che non ha per forza a che fare con la svolta moderata dell’imam di Torino: Delnevo è morto 12 anni fa; Elmahdi è rimasto in carcere fino al 2023.
Ieri, a 4 di sera su Rete 4, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, caustico verso certe sentenze «fantasiose», frutto di un «condizionamento ideologico», ha confermato i «segnali di vicinanza di Shahin a soggetti pericolosi», andati «a combattere in scenari di guerra come quello della Siria». Era il caso di Delnevo, appunto. Alla domanda se l’imam fosse pericoloso, Piantedosi ha risposto che «lo era per gli analisti, per gli operatori, per le cose che avevamo agli atti». Non per i giudici. La cui decisione «ci amareggia, perché vanifica il lavoro che c’è dietro, degli operatori di polizia che finora hanno tenuto immune il nostro Paese dagli attentati terroristici».
È questo il nocciolo della questione. Giorgia Meloni, lunedì, ha usato toni durissimi: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani», ha tuonato, «se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». Nell’esecutivo serpeggia autentica preoccupazione. La Verità ha appreso che, da quando a Palazzo Chigi si è insediata la Meloni, sono stati espulsi dall’Italia ben 215 islamici radicalizzati. In pratica, uno ogni cinque giorni. È questa vigilanza, associata al lavoro di intelligence, che finora ha preservato il nostro Paese. La magistratura applica le norme, bilanciando gli interessi legittimi. Ed è indipendente. Ma sarebbe bene collaborasse a tutelare l’incolumità della gente comune. Ad andare troppo per il sottile, si rischia di finire come il Regno Unito, dove i tribunali islamici amministrano una giustizia parallela, basata sul Corano. Per adesso, lo spirito è un altro: l’Anm del Piemonte si è preoccupata solo delle «esternazioni di alcuni membri del governo» e dell’«attività di dossieraggio riscontrata anche nell’ambito di plurimi social network» sui giudici che hanno liberato il predicatore, ai quali l’associazione ha manifestato «piena e incondizionata solidarietà».
Ieri sera, l’imam di Torino ha auspicato di poter «portare avanti quel progetto di integrazione e inclusione, di condivisione di valori positivi e di vita pacifica, di fede e di dialogo, intrapreso tanti anni fa». Ma per lui, la partita giudiziaria non è chiusa. Il Viminale ha annunciato ricorso contro la liberazione dal Cpr. Lunedì ci sarà un’udienza al Tar del Lazio sull’annullamento del decreto di espulsione di Piantedosi. Gli avvocati di Shahin hanno impugnato anche la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo davanti al Tar del Piemonte; se ne riparlerà a gennaio. Infine, c’è la richiesta di protezione internazionale avanzata dall’imam. La Commissione territoriale di Siracusa l’aveva respinta, ma il tribunale di Caltanissetta ha sospeso il pronunciamento alla luce dalla «complessità della vicenda in esame». Un bel paradosso: dovremmo dare asilo a uno che officia i matrimoni plurimi? Altro che pro Pal: in piazza ci vorrebbero le femministe.
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Lasciando perdere il periodo della pandemia, credo che sia sufficiente prendere i dati economici conseguiti dal nostro Paese. Secondo le previsioni, l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, cioè di una populista in camicia nera, avrebbe contribuito a scassare i conti pubblici e a farci perdere quel briciolo di rispetto che era stato conquistato con Mario Draghi alla guida del governo. Invece niente di tutto questo è accaduto. In tre anni sono stati smantellati il reddito di cittadinanza e il Superbonus, dando garanzia ai mercati sul contenimento del deficit sotto il 3 per cento. I poveri non sono aumentati, come invece sosteneva l’opposizione e prima ancora qualche professore. Né sono crollate le imprese edili. I salari sono saliti e, anche se non hanno recuperato il gap degli anni precedenti, quanto meno sono stati al passo con l’inflazione dell’ultimo triennio. Quanto all’occupazione il saldo è positivo, come da tempo non si vedeva. Per non parlare poi dei dazi, di cui la sinistra unita ai suoi trombettieri quotidiani attribuiva la responsabilità indiretta all’attuale maggioranza, giudicata troppo trumpiana. Nonostante l’aumento delle tariffe, l’export delle nostre imprese verso gli Stati Uniti è andato addirittura meglio che in passato.
I centri per il trattenimento e il rimpatrio in Albania, tanto criticati dai compagni e dalla stampa e osteggiati in ogni modo dalla magistratura, dopo oltre un anno di pregiudizi ora sono ritenuti una soluzione possibile se non auspicabile addirittura dal Consiglio d’Europa.
Ma il meglio la classe politica e quella giornalistica l’hanno dato con la guerra in Ucraina. Per anni ci sono state raccontate un cumulo di fesserie, sia sull’efficacia delle sanzioni messe in campo contro la Russia (ricordate la famosa atomica finanziaria, ossia l’esclusione della banche russe dal circuito delle transazioni internazionali, che avrebbe dovuto mettere Putin con le spalle al muro in un amen?) sia sugli armamenti decisivi del conflitto che America ed Europa avrebbero potuto mettere a disposizione di Kiev. Per non dire poi delle iniziative Ue, con i volenterosi a spacciare patacche per soluzioni. Anche in questo caso l’Italia era descritta come una Cenerentola, tenuta ai margini delle iniziative concordate da quei due fulmini di guerra di Keir Starmer e Emmanuel Macron: fosse per loro, e per i giornalisti che gli hanno dato credito, la tregua forse si raggiungerebbe nel secolo prossimo venturo. Tralascio quelli che spingevano per il riconoscimento della Palestina, invitando a seguire l’esempio di Francia e Spagna: come si è visto, le varie dichiarazioni non sono servite a nulla e l’unica speranza per Gaza era e resta il piano di Trump.
Che dire? Se i giornaloni volessero riconoscere di aver scritto una montagna di sciocchezze andremmo avanti per settimane. Ma state tranquilli, nemmeno questa volta ammetteranno gli errori. Sono giornalisti con l’eskimo, mica cretini.
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Roberto Gualtieri (Ansa)
Già da circa un anno il deflusso dei visitatori è contingentato, con un tetto massimo di 400 persone che possono sostare nell’area. Ma dal nuovo anno la novità sembrerebbe essere tutta nelle code: due corsie separate, una per i romani e l’altra per i turisti che dovranno pagare il ticket.
La scelta, voluta dall’assessore al Turismo e grandi eventi Alessandro Onorato e condivisa dall’amministrazione comunale guidata dal sindaco Roberto Gualtieri, va nella direzione di salvaguardare la fontana più grande di Roma, capolavoro tardo-barocco di Nicola Salvi. I numeri, del resto, parlano chiaro: soltanto nei primi sei mesi di quest’anno la Fontana di Trevi ha registrato oltre 5,3 milioni di visitatori, più di quanti ne ha totalizzati il Pantheon nell’intero 2024 (4.086.947 ingressi).
Ma la decisione sembrerebbe non essere ancora ufficiale. «Si tratta solo di una ipotesi di lavoro», precisa il Campidoglio in una nota, «su cui l’amministrazione capitolina, come è noto, sta ragionando da tempo. Tuttavia, ad oggi, non sono state decise date, né sono state prese decisioni in merito».
Nonostante questo, già insorgono voci contro il ticket per i turisti. «Siamo da sempre contrari alla monetizzazione di monumenti, piazze, fontane e siti di interesse storico e culturale, e crediamo che istituire biglietti di ingresso a pagamento sia un danno per i turisti», tuona il Codacons, «i soldi raccolti non vengono utilizzati per migliorare i servizi all’utenza ma solo per coprire i buchi di bilancio». L’associazione dei consumatori, pur opponendosi al ticket, sostiene gli ingressi contingentati.
Ancora più duro il vicepresidente del Senato e responsabile Turismo della Lega, Gian Marco Centinaio: «Il Comune di Roma non può impedire la libera circolazione dei turisti su uno spazio pubblico. È come fare uscire Fontana di Trevi dall’Unione europea». Secondo Centinaio, «Gualtieri e Onorato vogliono solo fare cassa a scapito di chi viene a visitare la Capitale».
Che ci sia bisogno di una regolamentazione dei flussi turistici per evitare sovraffollamenti è fuori discussione. Ma la sensazione è che l’amministrazione capitolina, dopo aver incassato per anni le monetine che i turisti lanciano nella fontana (tradizione che vale circa 1,5 milioni di euro annui devoluti alla Caritas), ora voglia tassare anche l’ingresso.
Se l’ipotesi diventasse realtà, il turista del futuro pagherebbe 2 euro per entrare, poi lancerebbe la sua monetina per tornare a Roma, spendendo di fatto 3 euro per un solo desiderio. Una sorta di tassa anticipata sul gesto più iconico della Capitale. Del resto, perché aspettare che i visitatori lancino spontaneamente le monete quando si potrebbe riscuotere subito alla porta? L’amministrazione Gualtieri avrebbe semplicemente tagliato i tempi: il Comune incasserebbe prima, la Caritas dopo. Il turista, nel frattempo, girerebbe le spalle alla fontana e lancerebbe la sua moneta, ignaro di averla già praticamente pagata al botteghino. Magari con carta di credito e scontrino fiscale. La leggenda dice che chi lancia una moneta nella Fontana di Trevi tornerà a Roma. E probabilmente è vero: per vedere cos’altro sia diventato a pagamento nel frattempo.
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Keir Starmer (Ansa)
Le roboanti promesse di porre un argine all’illegalità diffusa, ovviamente, sono rimaste lettera morta. Eppure, non tutto è perduto. Per dare un segnale forte ai cittadini, l’esecutivo laburista ha avuto un’idea geniale: elaborare una nuova definizione di «odio anti musulmano». Pochi giorni dopo l’efferata strage di matrice islamista a Sydney, infatti, la Bbc ha reso noto che il lungo lavoro del ministero per le Comunità e gli enti locali ha partorito una bozza quasi ufficiale. Stando al documento, divulgato in anteprima dall’emittente britannica, ecco la nuova definizione di islamofobia: «L’ostilità anti musulmana è il compimento o l’incitamento ad atti criminali, compresi atti di violenza, vandalismo contro la proprietà, molestie e intimidazioni - fisiche, verbali, scritte o veicolate elettronicamente - dirette contro i musulmani o contro persone percepite come musulmane a causa della loro religione, etnia o aspetto». In tale fattispecie, «rientrano inoltre l’uso di stereotipi pregiudiziali e la “razzializzazione” dei musulmani come gruppo collettivo dotato di caratteristiche prefissate».
Effettivamente, si fa fatica a prendere sul serio un documento del genere: per esempio, che vorrà mai dire «persone percepite come musulmane»? Mistero della fede progressista. Eppure, la gestazione di questa perla di vacuità dialettica ha tenuto impegnata un’intera commissione per la bellezza di quasi un anno: il gruppo di lavoro era stato istituito lo scorso febbraio, con a capo l’ex procuratore generale Dominic Grieve, e i suoi risultati erano stati presentati all’esecutivo in ottobre.
Tra i passaggi più controversi - e futili - c’è anche il riferimento al concetto di «razzializzazione», ennesimo neologismo cacofonico che tanto piace ai sacerdoti del politicamente corretto. Per difendere la scelta, è scesa in campo Shaista Gohir in persona, baronessa di origine pachistana e membro di punta della commissione. Stando alla pasionaria islamica, che siede nella Camera dei Lord, «questa definizione riconosce anche che i musulmani sono spesso presi di mira non solo per le loro convinzioni religiose, ma anche per l’aspetto, la razza, l’etnia o altre caratteristiche», ha spiegato. «L’inclusione del concetto di razzializzazione dà riconoscimento a queste esperienze vissute».
Chiacchiere a parte, occorre specificare che questa definizione di «odio anti musulmano» non avrà valore normativo: non sarà cioè né sancita per legge né giuridicamente vincolante, ma offrirà una formulazione di riferimento che gli enti pubblici potranno adottare. Eppure, è proprio qui che sta la fregatura. Non a caso, contro quest’obbrobrio politicamente corretto si è scagliata con forza la Free speech union, autorevole organizzazione britannica nata nel 2020 per tutelare la libertà d’espressione dai deliri dei questurini progressisti: «Questa definizione è superflua, perché è già un reato incitare all’odio religioso ed è già illegale per datori di lavoro o fornitori di servizi discriminare le persone sulla base della loro religione o delle loro convinzioni», ha tuonato il fondatore e presidente dell’associazione, il lord conservatore Toby Young. «Concedere ai musulmani tutele aggiuntive non estese ad altri», ha aggiunto, «avrà l’effetto di aumentare l’ostilità anti musulmana, anziché ridurla». In effetti, di fronte al fallimento del multiculturalismo reale, i laburisti rispondono con il multiculturalismo lessicale. Non potendo controllare le strade, tentano di controllare il linguaggio. Con il risultato paradossale di rendere ancor più fragile la libertà di parola e ancor più esplosivo il conflitto che fingono di voler disinnescare.
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