2019-08-03
Qualcuno che trama c’è sicuramente, ma non è al Cremlino
Il Russiagate è una faccenda poco chiara, che inquina la vita politica italiana: chi aveva interesse a silurare il leader leghista?Per i giornaloni si trattava di un intrigo internazionale. Forse di una vendetta di Vladimir Putin per il viaggio di Matteo Salvini in America. Anzi, probabilmente era la risposta della Casa Bianca a quel filo rosso che legava il capo della Lega al Cremlino. Nelle scorse settimane ne abbiamo lette tante di ipotesi a proposito del cosiddetto Russiagate, ossia di quella strana riunione registrata a metà ottobre dello scorso anno nella hall dell'hotel Metropol di Mosca. Nonostante la trattativa per una fornitura di prodotti petroliferi per 1,5 miliardi fosse poco verosimile e ancor meno lo fosse la «tangente» da 65 milioni, i giornaloni hanno voluto crederci, forse nella speranza che questa fosse la pistola fumante per fare secco il ministro dell'Interno. La grande stampa ha voluto bersi anche la storia degli intrecci esteri, forse nella speranza che a far cadere Salvini fosse una manina straniera. A rileggerle adesso, dopo che le indagini della Procura hanno svelato che questa faccenda di petrolio e rubli è tutta italiana, quelle pagine piene di fantasiose ricostruzioni fanno ridere. Già, perché non esiste nessuna manovra di Putin e nemmeno di Trump dietro la strana trattativa a Mosca. Né ci sono il Kgb o la Cia dietro la diffusione dell'audio che, come è noto, qualche settimana fa è finito online su un sito americano. No, l'operazione russa è tutta farina del sacco italiano. Nonostante all'improvviso i giornaloni abbiano perso interesse per la faccenda, rinunciando ai titoloni e alle paginate, gli atti della Procura di Milano parlano molto chiaro. A registrare quella conversazione non è stato un servizio segreto straniero e non sono stati neppure i russi seduti intorno a quel tavolo. No, il microfono lo ha acceso un italiano e probabilmente è stato sempre un italiano a passarlo a un giornalista dell'Espresso.Sin dall'inizio avevamo manifestato qualche dubbio sulla ricostruzione dei fatti sostenuta dal settimanale del gruppo De Benedetti. Ascoltare una conversazione fra sei persone, attribuendo le frasi a chi le ha pronunciate e riuscire a districarsi in un colloquio che si è svolto in tre lingue, non è cosa semplicissima se non si è a un metro di distanza. Ma adesso si scopre che sin dal principio i giornalisti autori dello scoop hanno avuto a disposizione la registrazione. Sì, qualcuno gliel'ha consegnata e sono stati loro poi a passarla ai pm.A questo punto si impongono alcune riflessioni. La prima è ovvia: chi aveva interesse a registrare il colloquio e poi a farlo arrivare all'Espresso? Al Metropol gli italiani erano tre: Gianluca Savoini, uomo vicino a Salvini, Luca Meranda, avvocato d'affari che di affari non sembra averne fatti molti visto che non è in grado di pagare neppure l'affitto dello studio, e Francesco Vannucci, un ex bancario iscritto al Pd la cui professione è al momento incerta. I protagonisti non si possono di sicuro definire persone di primo piano, né considerare uomini capaci di trattare una partita da 3 milioni di tonnellate di prodotti petroliferi nella hall di un albergo. Ma a parte questo dettaglio, che rende poco credibile l'operazione, il tema rimane: chi ha registrato e perché. Certo, è difficile che a premere il pulsante sia stato Savoini, il quale aveva tutto da perdere dalla pubblicazione del colloquio. E allora, chi è stato? L'avvocato d'affari rimasto senza affari o il bancario senza banca? E per quale motivo dopo ha consegnato l'audio all'Espresso? La sensazione è che tutto servisse a incastrare Savoini e dunque a mettere in imbarazzo, se non nei guai, Salvini. Una trattativa inverosimile per una trappola verosimile, la cui posta in gioco era il capo leghista.Ma veniamo anche a un altro aspetto curioso della faccenda. I giornalisti dell'Espresso sanno fin dal 18 ottobre dello scorso anno di quello strano incontro a Mosca. Però non pubblicano una riga fino a fine febbraio, quando esce il loro libro, che viene ripreso dal settimanale. Perché aspettare quasi cinque mesi? E perché far uscire la notizia proprio a ridosso delle elezioni europee? Forse la spiegazione più semplice è che i giornalisti dovevano trascrivere quell'audio e poi farlo tradurre. Non è vero che hanno sentito: hanno trascritto. E solo allora scrivono. I colleghi hanno tra le mani una registrazione, ma non lo dicono e neppure la mettono sul loro sito. Pubblicano sul settimanale e aspettano di vedere l'effetto che fa. Nonostante si tratti di un argomento che scotta, non succede niente. I giornali ne parlano, ma con poca convinzione e la sola cosa che accade è che la registrazione finisce in Procura. Non è chiaro se siano i giornalisti a presentarsi ai magistrati o se siano questi ultimi a chiedere l'acquisizione delle prove di ciò che è stato scritto. Ma a ogni buon conto il documento arriva ai pubblici ministeri e dà il via all'inchiesta, che però rimane sotto traccia fino a poche settimane fa, quando il sito Buzzfeed pubblica l'audio della riunione. Chi lo dà ai giornalisti americani? O meglio, chi lo consegna al collaboratore italiano del sito statunitense? Le fonti possono solo essere tre: o qualcuno tra gli inquirenti, o qualcuno dell'Espresso , oppure la stessa gola profonda che lo ha messo nelle mani dei cronisti del settimanale di De Benedetti. Noi non siamo in grado di escludere nessuna delle tre ipotesi, anche se ci pare difficile che gli investigatori scelgano un sito americano per spifferare la notizia, così come ci pare poco probabile che a passare la registrazione siano stati i giornalisti, perché gli autori dello scoop ormai sapevano che la faccenda era nelle mani della magistratura e girando l'audio aBuzzefeed potevano essere accusati di inquinare le prove. E allora l'ipotesi più credibile è che a recapitare la registrazione al collaboratore italiano del sito americano sia stata la stessa manina che ha premuto il tasto on sul registratore, cioè colui che ha provato a incastrare Savoini e dunque Salvini.Noi non siamo poliziotti e neppure vogliamo improvvisarci tali, ma più ci si addentra nella storia e più si comprende che è una vicenda di inganni. Anzi, che la trattativa del Metropol era un tentativo di inquinare la vita politica italiana. Un grande giallo di cui non è ancora stata scritta la parola fine.