2021-01-13
Putin scarica Lukashenko: deve andare via
Vladimir Putin e Aleksandr Lukashenko (Ansa)
Il leader russo ha deciso di mollare il dittatore bielorusso travolto dalla crisi economica e dalle incalzanti rivolte popolari Il piano di Mosca prevede nuove elezioni presidenziali e forti aiuti economici: il cambio della guardia previsto entro il 2021 «Vivo a Roma, sono sposata con un italiano ed ho una figlia, ma non posso andare a Minsk per andare a trovare i miei genitori. È difficile che mi diano il visto e dopo forse non riuscirò a rientrare a Roma. E i miei genitori anziani possono subire angherie dal regime. Mio marito, un imprenditore, ha paura e non vuole accompagnarmi in Bielorussia». Ludmilla, una signora di Minsk, che vive nel nostro paese da quindici anni, è l’anima della piccola resistenza in Italia contro il dittatore Aleksandr Lukashenko, che ha dichiarato di aver vinto – con i brogli, gli arresti dei dissidenti, la repressione violenta – le elezioni dell’agosto scorso. Il despota, in carica da 26 anni, si è autoproclamato presidente, ma queste elezioni sono contestate da quasi tutto l’Occidente, a cominciare dall’Unione europea. Proprio il Parlamento di Bruxelles ha consegnato nei giorni scorsi il Premio Sakharov a tre donne, in rappresentanza dell’opposizione bielorussa. Tre donne che guidano il movimento di resistenza contro il regime. Solo una di loro (Maria Kolesnikova) si trova in Bielorussia, in carcere, ed è sorvegliata a vista con l’accusa di «minacciare la sicurezza nazionale». Un’altra donna, Svetlana Tikhanovskava, è la moglie di un candidato alla presidenza bielorussa fatto arrestare da Lukashenko, e la terza, Veronika Tsepkalo, è la compagna di un militante fuggito all’estero. Queste due ultime donne sono state costrette a scappare in Lituania, dove continuano a lottare per la libertà del loro Paese. Le tre donne coraggiose sono riuscite a sensibilizzare, per la prima volta dall’indipendenza dall’Urss (1991) anche le donne facendole attivamente partecipare alla lotta contro il regime. Anche una nonna di 73 anni, Nina Bahinskaja, fermata più volte dalla polizia perché portava la bandiera nazionale nei cortei, è diventata molto popolare. È diventata ora una icona della resistenza bielorussa, amata soprattutto dalle nuove generazioni, dopo che la sua foto (una nonnina, con una grande bandiera in mano che staziona tutti i giorni davanti all’ingresso del suo condominio) ha fatto il giro del mondo. In una intervista nonna Nina ha dichiarato: «Non ho paura per me: da anni resisto ai soprusi, ma non mi voglio arrendere e lasciare alle future generazioni un Paese in ginocchio, corrotto e senza speranza».Negli ultimi giorni si è registrato un fatto nuovo che fa molto sperare in una svolta. O almeno così sembra. Vladimir Putin ha ribadito a Lukashenko, che dopo 26 anni «il popolo ha bisogno di riforme e soprattutto di democrazia». Questo significa che la Costituzione dovrà essere rapidamente riformata per garantire la rappresentanza anche alle minoranze etniche e politiche. Il leader bielorusso sembra che abbia acconsentito, certo non con entusiasmo. Ora c’è solo da sperare che non si tratti dell’ennesima «sceneggiata» per prendere tempo. La richiesta era stata fatta da Putin qualche mese fa in un vertice a Sochi, quando, per indorare la pillola, era stato concesso al presidente bielorusso un prestito di un miliardo e mezzo di dollari. Per ringraziarlo Lukashenko, implorante, ha definito il leader russo, in una diretta televisiva, «il nostro fratello maggiore». Oltre a nuove risorse finanziarie era stato chiesto a Putin un aiuto militare, con lo stanziamento di truppe russe nel territorio bielorusso, ma questa richiesta è rimasta senza risposta. Il dittatore di Minsk forse ha cominciato a rendersi conto che il suo tempo da presidente è finito e che neppure l’alleato storico è più disponibile fare altre concessioni per puntellare un regime che la popolazione non ama. E non basta certo a Lukashenko farsi chiamare dalla gente «batka» (padre): un titolo che veniva popolarmente usato ai tempi degli zar. Ora la pressione delle opposizioni è diventata più ampia, coinvolge ampi strati della popolazione, che non si riesce facilmente a fermare. Infatti, in più occasioni, centinaia di migliaia di persone hanno circondato la residenza del presidente bielorusso e non sono stati sufficienti nei mesi scorsi alcune migliaia di arresti di dissidenti (trentamila, secondo Amnesty International), fra cui 200 militanti politici, che sono stati sottoposti a torture sistematiche. Ricordiamo che la Bielorussia è ormai l’unico Stato europeo a prevedere la pena di morte. Le ultime quattro esecuzioni sono state eseguite in segreto, nelle carceri, senza che le famiglie venissero informate. Il regime non risparmia la repressione degli oppositori neppure all’estero. Pochi giorni fa l’ex capo dei servizi segreti di Minsk, fuggito a Londra, ha rivelato al giornale Eu Observer che nel mirino del regime vi sono giornalisti, politici e diplomatici e che una serie di omicidi politici sono stati già attuati, anche di recente, in Germania. Per questi delitti è stata pagata dal governo bielorusso la cifra di un milione e mezzo di dollari. Fra le vittime di Lukashenko, ci sarebbero l’ex direttore del carcere n. 1 di Minsk, Oleg Alkaev, l’ex capo delle forze speciali, Vladimir Brodach, e l’ex capo del dipartimento anticorruzione, Vyaacheslav Dudkin.Nell’intervista si parla anche di un noto conduttore televisivo, Pavel Sheremet, che era stato più volte minacciato di morte da militanti del regime e che qualche anno fa è stato trovato morto a Kiev (il 20 luglio 2016) per l’esplosione di una bomba collocata nella sua auto. Sembra dunque di essere vicini alla resa dei conti. Il regime cerca disperatamente di sopravvivere con la repressione, la corruzione sempre più diffusa e le violenze di ogni tipo. Il suo alleato storico, d’altra parte, non sembra più disponibile a sostenerlo. E proprio qualche giorno fa Putin ha sollecitato Minsk ad attuare le riforme costituzionali promesse. Lukashenko si sforza, ancora una volta, di guadagnare tempo proponendo un referendum, come quello promosso da Putin in Russia, per poter governare per altri 12 anni. Ma Mosca ha fatto capire di non insistere anche perché in Bielorussia la crisi economica ha raggiunto livelli mai conosciuti prima. Nei prossimi mesi questo paese di dieci milioni di abitanti rischia una gravissima crisi finanziaria e valutaria. Infatti, l’incessante fuga di capitali e il limitato accesso al credito sta provocando un’inflazione elevata, una svalutazione monetaria e una possibile crisi del sistema bancario. E Mosca non sembra più disposta a pompare nuove risorse, almeno sino a quando Lukashenko continuerà a farsi eleggere presidente. Sarà infatti molto difficile attirare in queste condizioni nuovi investimenti stranieri e incrementare gli scambi nei mercati esteri occidentali. L’obiettivo sembra ora quello di convincere il dittatore di Minsk a mollare il potere, facendogli capire che non vi sono più le condizioni per arrivare al 2025 (come pretenderebbe lui). Putin sta cercando cioè di trovare una via d’uscita, suggerendo una transizione morbida con nuove elezioni presidenziali. Non vi sono altre alternative praticabili per evitare un default economico e una rivolta popolare ingovernabile. E tutto questo – ha ammonito duramente il leader del Cremlino –dovrà avvenire prima delle elezioni parlamentari russe, previste quest’anno. E su questo obiettivo sembrano convergere anche tutti i leader dell’opposizione.
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz (Ansa)
Mario Draghi e Ursula von der Leyen (Ansa)