
«Non chiamateli scafisti». Dicono proprio così, quelli delle Ong. Non vogliono che gli scafisti siano chiamati scafisti. E come dovremmo chiamarli allora? Gentiluomini? Commendatori? Cavalieri del mare? Mirabili supereroi? Loro, modestamente, suggeriscono «capitani». Proprio così: capitani. Sono capitani che trafficano uomini, ma non bisogna chiamarli trafficanti. Sono capitani che commettono crimini, ma non bisogna chiamarli criminali. Capitani e basta. E, in quanto tali, anche quando violano le leggi italiane non devono essere processati. Ma insomma: come si permettono quei razzisti di giudici di condannare chi, in cambio di soldi, fa entrare in Italia frotte di sbandati? E come si permettono quei razzisti di giornalisti di definirli addirittura «scafisti»? La prossima volta che viene arrestato qualcuno alla guida di un barchino carico di immigrati, il procuratore di turno, anziché accusarlo, è pregato di salire sul banco e celebrarlo come se fosse L’attimo fuggente: capitano, o mio capitano.
Dal trasporto di clandestini al trasporto emotivo. Sapevamo che le Ong avevano rapporti con gli scafisti, non pensavamo fossero rapporti di stima. Come ha anticipato La Verità, nel processo in corso a Trapani ci sono le prove dei contatti fra i dirigenti delle organizzazioni e chi gestisce il traffico degli uomini: si scambiano messaggi, si danno appuntamenti. Però, ecco, non credevamo che arrivassero a questo punto. Invece un report compilato da due associazioni, l’Arci Porco Rosso (sia detto con rispetto per il porco) e Borderline Europa, è intitolato «Dal mare al carcere». «È sbagliato identificare le persone che conducono gli scafi come trafficanti di esseri umani», scrivono, «sono capitani». Dunque siamo passati dagli appuntamenti agli apprezzamenti: prima «le persone che conducono gli scafi» venivano incontrate dalle Ong di nascosto, vergognandosene un po’. Adesso invece vengono difese apertamente. Avanti di questo passo, il prossimo documento delle associazioni dedicato agli scafisti che cosa sarà? La proposta di un premio? Un’onorificenza? La candidatura al Nobel?
«Scafisti è un termine usato dai media che li criminalizzano», spiega Sara Traylor di Arci Porco Rosso (sempre con rispetto per il porco). Dimenticando che chi viola le leggi dello Stato introducendo in territorio italiano immigrati clandestini su barchette di fortuna non ha bisogno di essere criminalizzato, dal momento che si criminalizza da sé. Ma tant’è, lei non sente ragione. E in un video riportato dall’Ansa aggiunge che queste persone non possono essere accusate perché «hanno percorsi di vita» che le spingono su quei natanti. E quali sono questi «percorsi di vita»? Dunque: alcuni sono «forzati» a guidare la barca «con l’uso della violenza». Altri sono stati «ingannati». Altri lo fanno per «ricevere un compenso». E dunque è chiaro: sono innocenti. Se tu commetti un crimine perché sei «forzato» o «ingannato» o se lo fai in cambio di un «compenso», quello non è più un crimine. Ovvio, no? Anche uccidere una persona. Se uno lo fa in cambio di un compenso, dev’essere assolto. I killer della mafia, sentitamente, ringraziano.
Però, ecco, Sara e il Porco Rosso dicono che tutto ciò, cioè il fatto che gli scafisti siano scafisti, «non lo ritengono centrale». Ciò che ritengono «centrale» è che costoro siano chiamati «scafisti». E che, per di più, siano «arrestati con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina» e addirittura «sottoposti a processo» e, pensate un po’, financo «condannati». Ma vi rendete conto? Ci sono persone che fanno gli scafisti e noi, anziché ringraziarli, osiamo arrestarli? E persino processarli? E come se non bastasse condannarli? Ma come ci permettiamo? Per altro, è ovvio che le condanne sono «arbitrarie». Lo hanno deciso Sara e il Porco Rosso: gli scafisti sono solo «capri espiatori», come li definisce l’avvocato che li difende. È vero che guidano le barche, è vero che commettono reati, è vero che fanno entrare immigrati irregolari nel nostro Paese, ed è vero che vengono pagati per ciò. Ma non lo fanno perché sono cattivi. Lo fanno solo perché sono «capitani». E devono dare il buon esempio.
Prendete Ilnar, uno dei casi citati nel rapporto delle due associazioni. È un «giovane russo di 38 anni» (giovane? A 38 anni?) della repubblica del Tatarstan. Viene fermato il 10 ottobre 2021 su una barca al largo della costa ionica della Calabria. Con lui ci sono 70 clandestini e molti di loro lo indicano come quello che guidava. Lui ammette. Racconta di essere stato a Istanbul dove «un’organizzazione criminale lo ha addestrato» a guidare la barca e quindi di aver intrapreso la missione, immaginiamo in cambio di un compenso. Ebbene pensate un po’: oltre a definirlo incredibilmente «scafista», in Italia c’è chi lo vuole processare. Ilnar «potrebbe essere condannato dai 3 ai 5 anni di galera». Ma vi pare una cosa normale? Addirittura dai 3 ai 5 anni di galera per uno che si fa addestrare da un’organizzazione criminale di Istanbul a portare clandestini in Italia, e poi si mette subito all’opera, probabilmente in cambio di denaro? Anziché dargli la cittadinanza onoraria? O almeno una laurea ad honorem? Dove arriveremo, avanti di questo passo? Dice per altro l’avvocato che Ilnar, davanti al giudice, ha sfoderato la prova regina della sua innocenza: ha mostrato una sua foto quand’era in Russia: «Vede vostro onore? Facevo il parrucchiere. Come posso essere colpevole?». Ovvio: i parrucchieri sono innocenti per definizione. Sempre. E se un parrucchiere diventa scafista, in ogni caso non è uno scafista. Macché. È un capitano che fa la messa in piega.