2020-02-11
Possiamo far tornare qui le nostre aziende
Visto che la pandemia ha bloccato le linee produttive della Cina, molte imprese che avevano trasferito lì le fabbriche potrebbero essere incentivate a rientrare in patria. I primi a pensarlo sono stati gli Usa, mentre Roberto Gualtieri valuta l'opposto: «Aiuti all'export». Business is business, e non c'è etica che tenga: la Cina alle prese con l'emergenza del coronavirus diventa una preda da azzannare al collo dal punto di vista economico. I primi a intravedere nella diffusione del virus una opportunità sono, manco a dirlo, gli americani. Pur con gli inevitabili preamboli umanitari, si moltiplicano negli States gli inviti alle industrie a stelle e strisce che hanno delocalizzato le loro produzioni in Cina a ritornare in patria, a causa della epidemia. In una intervista al network Fox Business, Wilbur Ross, segretario al Commercio dell'amministrazione di Donald Trump, ha espresso il concetto con encomiabile sincerità: «Non voglio parlare», ha premesso il magnate della finanza alla sua prima esperienza in politica, riferendosi al coronavirus, «di un momento favorevole, visto che ci troviamo di fronte a una malattia molto grave, ma è chiaro che rappresenta un altro elemento da tener presente, un fattore di rischio da tenere in considerazione quando si decide di aprire stabilimenti produttivi in Cina», dicendosi convinto che l'epidemia «accelererà il ritorno di posti di lavoro nel Nord America, alcuni negli Stati Uniti, altri probabilmente in Messico». La Casa Bianca, interpellata sull'argomento, fino ad ora non ha rilasciato commenti, ma una fonte del dipartimento del Commercio ha detto alla Cnbc che «come ha chiarito il segretario Ross, il primo passo è quello di portare il virus sotto controllo e aiutare le vittime di questa malattia. È anche importante però considerare le conseguenze di fare affari con una nazione che ha una lunga storia di copertura dei rischi reali per la propria gente e il resto del mondo. Fortunatamente, il dipartimento del Commercio è attrezzato per aiutare il popolo americano e le nostre imprese a fare entrambe le cose». Stesso spartito suonato da Peter Navarro, direttore del National Trade Council, che a Fox Business ha detto: «L'epidemia di coronavirus mostra la necessità di riportare negli Usa più produzione di medicinali e forniture mediche». I colossi farmaceutici di tutto il mondo, in questi giorni, stanno vedendo salire vertiginosamente il valore delle loro azioni, spinte dalla ricerca sul vaccino. Negli Stati Uniti la società Co-Diagnostic ha fatto registrare una crescita del 165% dopo aver completato la prima progettazione di un test di screening che rileva la malattia. Benissimo anche la società di vaccini Novavax, con un incremento del 58%. Al di là del settore farmaceutico, però, gli Usa non perdono tempo. Vedono il loro rivale più acerrimo dal punto di vista economico barcollare e tentano di sferrare il colpo del ko. Il reshoring, il rientro in patria di aziende che hanno delocalizzato la produzione - o parte di essa - all'estero, sarà una conseguenza della diffusione del coronavirus. Prevedibilmente i consumatori di tutto il mondo diffideranno sempre di più delle etichette «Made in China»: un'occasione d'oro per le nazioni di tutto il mondo per mettere in campo agevolazioni e incentivi per quelle aziende che hanno scelto di spostare la produzione in Cina, dove i costi di lavorazione sono ridotti e i tempi per le pratiche burocratiche più brevi, che saranno più o meno costrette a riconsiderare le loro strategie produttive e a tornare in patria. Sarebbe il caso che anche il governo italiano mettesse in campo incentivi, agevolazioni e bonus per le nostre aziende che negli anni hanno spostato la produzione in Cina, e che ora potrebbero essere ingolosite dalla prospettiva di un tempestivo reshoring. L'elenco delle imprese italiane presenti in Cina è lunghissimo: si va dalla moda agli autoveicoli, dai macchinari industriali ai prodotti per l'agricoltura e la pesca, dai mobilifici agli elettrodomestici. Tra l'altro la diffusione del coronavirus, con il calo dei consumi e la relativa crisi economica, avrà ripercussioni negative sulle nostre esportazioni verso la Cina, il cui valore complessivo si aggira intorno ai 13 miliardi. Al di là della malattia, negli ultimi anni non sono mancate aziende italiane che avevano de localizzato la produzione in Cina e hanno scelto di far ritorno in Italia per poter utilizzare il marchio «Made in Italy»: la via del reshoring è stata presa soprattutto da aziende del settore tessile. Una politica di incentivi e agevolazioni, ma anche (se non soprattutto) una bella sforbiciata alle migliaia e migliaia di leggi, leggine, adempimenti fiscali, moduli da riempire, autorizzazioni da chiedere, metterebbe le imprese italiane nella condizione di trovare vantaggioso il ritorno in patria, come le conseguenti ricadute positive sull'occupazione e sui bilanci delle stesse imprese e dello stato. L'agenda del governo sembra invece pendere da un'altra parte, stando alle dichiarazioni pubbliche rese ieri dal ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri: «Abbiamo avviato un percorso per individuare misure per contenere l'impatto dell'emergenza sul nostro sistema economico e produttivo, a partire da forme di sostegno all'attività e l'export delle aziende coinvolte».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)