2023-05-24
La confessione del supertestimone mette a rischio il processo Morandi
Gianni Mion (Imagoeconomica)
Se dopo le esplosive dichiarazioni sul crollo del ponte l’ex ad della società Edizione, Gianni Mion, sarà indagato, le sue accuse non potranno più essere utilizzate dai pm. Si profila un cortocircuito come nel Ruby-ter.Un errore della Procura di Genova rischia di costare caro al processo per il disastro del ponte Morandi di Genova, crollato il 14 agosto 2018 uccidendo 43 persone. L’errore riguarda Gianni Mion, teste dell’accusa ed ex amministratore delegato di Edizione, la holding-cassaforte della famiglia Benetton che nel 2018 controllava anche Autostrade per l’Italia (Aspi), la società responsabile della gestione del viadotto.Da lunedì, Mion è finito nel turbine delle polemiche perché, interrogato in udienza, ha fatto una rivelazione choc, una vera «bomba» riportata ieri da tutti i quotidiani. Mion ha dichiarato di aver partecipato con altri dirigenti del gruppo a un’importante riunione di direzione e controllo, dov’era emerso «che il ponte aveva un difetto originario di progettazione, e c’era perplessità tra i tecnici sul fatto che potesse restare su». Poi ha aggiunto: «Chiesi se ci fosse qualcuno che certificasse la sicurezza, e Riccardo Mollo (ex direttore generale di Aspi, oggi uno dei 59 imputati nel processo, ndr) mi rispose: «Ce l’autocertifichiamo»». Mion ha concluso: «Non dissi nulla, non ho fatto nulla… ed è il mio grande rammarico».Quando lunedì mattina Mion ha pronunciato queste parole, nell’aula si è scatenato il finimondo. L’avvocato Giorgio Perroni, legale di Riccardo Rigacci (responsabile di Aspi per il tronco genovese, un altro degli imputati) ha chiesto alla corte che Mion venisse immediatamente iscritto nel registro degli indagati, e il presidente del collegio giudicante, Paolo Lepri, s’è riservato di decidere. Il problema tecnico-giuridico che deriva da questo passaggio è cruciale: perché, se Mion ora dovesse diventare il sessantesimo imputato, tutte le dichiarazioni che ha reso fin qui diverrebbero nulle, in quanto ottenute illegittimamente, e pertanto inutilizzabili.Accadrebbe, insomma, quel che a Milano ha devastato l’accusa nel recente processo Ruby-ter, contro Silvio Berlusconi, dove dal 2011 le ragazze partecipanti alle feste di Arcore erano sempre state interrogate dalla Procura come semplici testimoni, ma poi le loro parole erano state utilizzate per l’appunto nel Ruby-ter, dove le ragazze erano imputate, assieme a Berlusconi, per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza. Lo scorso febbraio il processo milanese è finito con 29 assoluzioni piene proprio perché le testimonianze sono state giudicate nulle, in quanto le ragazze fin dal 2011 avrebbero dovuto essere sempre ascoltate alla presenza di un avvocato difensore, con il diritto garantito dai codici di non rispondere alle domande dei magistrati ed eventualmente anche di mentire loro.Mentre la corte deciderà se anche il processo di Genova possa in parte diventare un «Ruby-ter-bis», ieri 13 degli avvocati difensori hanno diramato una nota per contestare in profondità la stessa attendibilità di Mion. I legali sottolineano che le sue dichiarazioni «sono risultate del tutto prive di riferimenti oggettivi e riscontrabili, e rese da un soggetto che all’esito dell’esame si è dimostrato inattendibile». In effetti, nella seconda parte della sua testimonianza di lunedì, soprattutto quando è stato contro-interrogato dai due avvocati Perroni e Guido Carlo Alleva (uno dei difensori di Giovanni Castellucci, l’ex amministratore delegato di Aspi che oggi è tra i principali imputati) Mion sembrava ricordare ben poco: non soltanto il giorno, il mese, l’anno, ma nemmeno «la stagione» in cui si era svolta la riunione, che pure aveva definito «memorabile»; né poi il teste ha saputo dire i nomi dei partecipanti, se non quelli di Mollo, di Castellucci e di Gilberto Benetton, deceduto nell’ottobre 2018.La nota degli avvocati aggiunge che, «a espressa domanda della difesa», alla fine Mion «ha smentito perfino la sua consapevolezza di qualsiasi rischio di crollo. Anzi, ha confermato che gli uffici tecnici preposti avevano garantito la sicurezza dell’infrastruttura». In effetti, davanti a una domanda di Perroni, alla fine Mion è parso addirittura smentirsi, tanto da affermare che «durante la riunione non vi era alcun sentore di un rischio di crollo del ponte Morandi». Gli avvocati concludono la nota contestando a Mion anche il tema dell’autocertificazione: «Nel corso degli anni», scrivono i legali, «la sorveglianza sul ponte è avvenuta attraverso Spea (un’altra società allora della galassia Benetton, ndr) ma anche attraverso altre società terze ed esperti qualificati». E anche questo è vero. Il viadotto progettato oltre 60 anni fa da Riccardo Morandi è stato analizzato per esempio dal Politecnico di Milano, dal Centro elettrotecnico sperimentale dell’Enel, e da studiosi di fama internazionale come Emanuele Codacci Pisanelli. Comunque vada a finire, insomma, il peso testimoniale di Mion pare molto ridimensionato. E questo malgrado l’ex top manager dei Benetton, come ha rivelato La Verità lo scorso 18 settembre, avesse già riferito di quella «memorabile riunione» il 13 luglio 2021, quando era stato interrogato - sempre come teste - dal pubblico ministero genovese Massimo Terrile. Al magistrato, Mion aveva detto che la riunione s’era svolta prima del dicembre 2014; che in quell’occasione era emerso «il difetto originario di progettazione»; e che «i tecnici spiegarono che il difetto creava perplessità sul fatto che il ponte potesse stare su». Due anni fa, il pm non aveva ritenuto di porre a Mion altre domande sulla riunione, e s’era concentrato sul ruolo di Castellucci. E comunque anche in quell’occasione non aveva ritenuto di dover iscrivere Mion al registro degli indagati.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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