
Viktor Orban e Mateusz Morawiecki sono additati come barbari. La loro colpa? Il veto alla clausola che obbliga a conformarsi all'agenda Lgbt.Ungheria e Polonia le cattivone d'Europa. Così i media stanno dipingendo i veti ungherese e polacco che, in questi giorni, hanno determinato lo stallo tra i Paesi dell'Unione europea sul Recovery Fund e sul bilancio 2021-2027, rinviando una eventuale approvazione non prima del prossimo dicembre. I premier Viktor Orban e Mateusz Morawiecki passano così come algidi affamatori delle genti d'Europa, per di più in una fase pandemica, che quindi rende gli aiuti agli Stati in difficoltà neppure opportuni, bensì urgenti. Peccato che, come spesso capita, rispetto alla narrazione mainstream, le cose stiano in modo ben diverso. Infatti, se c'è il rischio di un inizio 2021 senza bilancio Ue con conseguenti ritardi nell'emissione dei bond anticrisi per 750 miliardi, non è per i cuori di pietra di Ungheria e Polonia bensì, al contrario, per le loro schiene dritte. Se lo scorso 16 novembre i rispettivi ambasciatori dei due Paesi hanno posto il veto contro il pacchetto proposto dalla Germania, di cui fa appunto parte il Recovery Fund, una ragione c'è ed è tutt'altro che egoistica. Per comprenderlo, è opportuno ricordare che il Recovery Fund, così come formulato, implica varie condizionalità. Le più rilevanti sono essenzialmente due. La prima, che sembra fatta apposta per l'Italia, prevede la concessione di sussidi in cambio di riforme; l'altra, invece, pone come condizione il rispetto dello Stato di diritto. Cosa sacrosanta, si dirà. E sarebbe così se non fosse che oggi a livello europeo, per osservare lo «stato di diritto», urge conformarsi all'agenda dei «nuovi diritti». Che sono naturalmente quelli cari al fronte Lgbt e alla stessa agenda Ue, se si pensa alla «strategia per rafforzare i diritti delle persone Lgbtqi» varata giusto la scorsa settimana con gran giubilo della vicepresidente ai Valori, la ceca Vera Jurova e della commissaria europea all'Eguaglianza, la maltese Helena Dalli. Illazioni? Non esattamente. Basti ricordare come solo pochi mesi fa, a giugno, sia circolata la notizia di una lettera della Commissione europea, sottoscritta da due alti funzionari, Joost Korte e Marc Lemaître - i quali hanno anche il compito di firmare assegni Ue agli Stati membri su progetti sociali e regionali -, che neppure troppo velatamente minacciava ben cinque governatori polacchi di darsi una regolata, altrimenti niente aiuti europei. Alla base di tale ammonimento a questi amministratori polacchi, come riportato dal sito Gay.it, fonte sospettabile di tutto ma non di simpatie conservatrici, c'era la scelta di aver dichiarato i loro territori «Lgbt free»; un affronto imperdonabile, evidentemente, agli occhi di Bruxelles.Ma torniamo alla condizionalità sullo Stato di diritto, sottolineando come essa non sia frutto del caso né tanto meno di una sorta di malinteso; si tratta, invece, di un passaggio voluto con forza dai Paesi del Nord - Olanda, Danimarca, Svezia, Austria e Finlandia - i quali hanno insistito proprio per l'inserimento della clausola dello stato di diritto in relazione al Recovery Fund. Tutto ciò alimenta il fondato sospetto che, in realtà, siano i Paesi del Nord i primi a non desiderare quella solidarietà europea della quale son però Orban e Morawiecki a esser dipinti come i sabotatori.Lo stesso insospettabile Federico Fubini, sul Corriere della Sera, si è spinto ad evidenziare come, apparenze a parte, ad avversare il fondo europeo di aiuti siano anzitutto i Paesi nordici, non certo Varsavia e Budapest. Del resto, se ci sono due Paesi che hanno moltissimo da perdere nel blocco del bilancio Ue sono proprio Polonia e Ungheria, con solo quest'ultima che riceve 6,3 miliardi dai fondi di coesione e 7,5 miliardi dal nuovo schema di solidarietà europea. La mostrificazione di Orban e Morawiecki, come tutte le bugie, ha insomma le gambe corte. Eppure è precisamente questa l'interpretazione dei fatti che, con insistenza e sostenuto dai grandi media, offre dello stallo sul Recovery Fund il fronte europeista o euroinomane, come direbbe il filosofo Diego Fusaro. Ne è una prova anche quanto affermato da George Soros il quale, in un nuovo intervento pubblicato dal Sole24Ore, ha apostrofato il veto posto ungherese e polacco alla proposta dell'Ue sul Recovery Fund addirittura come «la mossa disperata di due trasgressori seriali». Una lettura, quella sorosiana del caos europeo, che alla luce di quanto appena detto fa semplicemente acqua da tutte le parti. Eppure ogni occasione è ormai buona, per Bruxelles e i Paesi che ne sposano le istanze, per gettare fango su chi ha semplicemente due colpe, se così si possono essere chiamate: quella di non essere allineato ai diktat arcobaleno e quella di non ritenere accettabile degli aiuti che poi aiuti in realtà neppure sono, trattandosi invece di un ricatto a tutti gli effetti. Sempre che, nei confronti di un Paese in difficoltà, non si ritenga l'erogazione di un sostegno economico vincolata all'allineamento normativo una pagina di alta politica e di nobile collaborazione. In quel caso, nulla quaestio.
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