2021-12-01
Pino Donaggio: «De Palma mi pescò dai canali di Venezia»
Pino Donaggio e Brian De Palma (Ansa)
Il cantante e autore di colonne sonore: «Brian De Palma è un po’ orso, al massimo tira pacche come Antonino Canavacciuolo, ma per “Carrie” mi ha fatto gli applausi. La mia “Io che non vivo” l’ha incisa persino Elvis Presley: avrei potuto conoscerlo ma Little Tony e Bobby Solo non mi invitarono».La doppia vita di Pino Donaggio: cantante di successo al Festival di Sanremo e autore di brani famosi in tutto il mondo negli anni Sessanta, compositore di colonne sonore di film hollywoodiani dagli anni Settanta. Un libro, dal titolo emblematico, Come sinfonia (Baldini+Castoldi), orchestrato insieme ad Anton Giulio Mancino, con tanto di ouverture e quattro movimenti, svela i segreti di un maestro della musica schivo e riservato.Come ha iniziato?«Mio padre aveva un’orchestrina. Mio nonno e i miei zii erano tutti musicisti, uno di loro era primo flauto alla Fenice. Ho fatto 12 anni di Conservatorio, a Venezia, ero uno dei più bravi a suonare il violino. Dopo sono andato al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, dove mi ha sentito Claudio Abbado e anche se non ero diplomato mi ha voluto nella sua orchestra, I Solisti di Milano, con la quale abbiamo fatto tanti concerti all’estero. Ero nato per fare il violinista. Tutto quello che è venuto dopo è stato, come ho scritto nel libro, per fatalità».Come mai da violinista è finito al Festival di Sanremo, il tempio della musica leggera?«A Milano, nelle ore libere, ho cominciato a scrivere delle canzoni. Tornato a Venezia, ho detto a mio padre: “Proviamo a eseguire le canzoni che ho scritto”, per vedere l’effetto sul pubblico. Grandi applausi, ma mio padre ha commentato: “Ti applaudono perché se mio figlio”. Per fargliela vedere, sono andato a Milano alla Curci a far sentire le canzoni, però era l’orario di chiusura, per cui mi hanno mandato via. Fatalità l’ascensore si è fermato al piano di sotto, dove c’erano le Messaggerie Musicali. “Bah, forse anche le Messaggerie vanno bene”. Dentro c’era Bruno Pallesi, un cantante e paroliere dell’epoca: “Fammi sentire cosa canti”. A metà canzone mi ha fermato e mi ha riportato su alla Curci, dove mi ha presentato come il nuovo Paul Anka! Mi hanno fatto il contratto. È stata una svolta: così ho cominciato a cantare».Nel 1961 ha partecipato per la prima volta a Sanremo, con il brano che dà il titolo al libro, Come sinfonia.«Doveva cantarla Mina, che ha fatto il provino, ma aveva giù due canzoni, Io amo tu ami e Le mille bolle blu, allora mi ha detto: “Se entrano queste canzoni, non posso cantare la tua”. Quando sono state ammesse entrambe, lei ha parlato con Ezio Radaelli, il patron del festival: “Guarda che è un bravo autore, scrive bene”. La canzone è piaciuta e mi sono ritrovato a Sanremo, dove ho ottenuto un grande successo. Come sinfonia ha cambiato la mia vita».L’ha cantata in coppia?«Sì, con Teddy Reno».Con chi l’è piaciuto particolarmente duettare nelle sue numerose partecipazioni al festival?«Credo che le migliori coppie le abbia fatte insieme a Cocky Mazzetti con Giovane giovane, Frankie Avalon con Motivo d’amore e Peppino Di Capri con L’ultimo romantico».È stato tante volte primo in classifica, ma non è mai riuscito a vincere Sanremo.«Io puntavo più alla hit parade che a vincere il festival, anche perché le mie canzoni entravano un po’ dopo nella testa della gente. A distanza di tempo posso dire: “Meno male che non ho vinto, così ho continuato a partecipare anche l’anno successivo” e così ne ho fatto dieci».Com’è nata Io che non vivo (senza te), un successo planetario?«È nata perché una mattina mi hanno portato un pianoforte nuovo. Stavo con la mia fidanzata, che poi è diventata mia moglie, e come ho messo le mani sul piano mi è venuto questo tema, quindi è dedicata a lei. Però non ho scritto la canzone: “Se me la ricordo anche domani, vuol dire che è molto valida”. Infatti il giorno dopo me la ricordavo tutta. Allora sono andato a Milano a farla sentire e tutti hanno capito che era un bel pezzo, ma nessuno pensava che avrebbe avuto un successo così. Ci sono state anche in questo caso una serie di coincidenze: al Festival di Sanremo del 1965 Dusty Springfield, essendo stata eliminata la sera prima, era in platea quando l’ho cantata. Si è innamorata di questa canzone e l’ha messa nel suo repertorio. Sono andata a trovarla a un concerto a New York e mi è saltata addosso: “Hai scritto la canzone della mia vita”, e io: “Anche della mia!”. L’ha incisa anche Elvis Presley».L’ha conosciuto?«No, perché quando ha cantato al Madison Square Garden, Little Tony e Bobby Solo sono andati a sentirlo, ma non me l’hanno detto. “Se mi chiamavate, venivo con voi, magari conoscevamo Elvis”».Loro lo hanno conosciuto?«No, Elvis neanche li vedeva. Sai quanti imitatori aveva nel mondo? Se fossi andato io, magari l’autore di You don’t have to say you love me l’avrebbe ricevuto!».Quindi era già famoso in America? «Sì, però non tutti sapevano che fossi io quello di You don’t have to say you love me. Brian De Palma lo è venuto a sapere perché quando abbiamo fatto il primo film, Carrie (Lo sguardo di Satana), c’erano delle canzoni da inserire nella colonna sonora. “Queste le facciamo fare a qualche gruppo”. “Però le scrivo io”. “Tu scrivi canzoni?”. “Sì, ho scritto You don’t have to say you love me”. “Come? È tua quella canzone?”. È una cosa che non ho mai sbandierato nel cinema».Com’è avvenuto il passaggio nel cinema? La sua prima colonna sonora è stata A Venezia… un dicembre rosso shocking di Nicolas Roeg, nel 1973. «Io cantavo ancora e dopo una serata, siccome avevo guidato tutta la notte, ho preso un vaporetto alle sei del mattino per ritornare a casa. Ero nella parte scoperta per prendere un po’ d’aria, dalla riva mi ha visto il produttore associato del film, Ugo Mariotti, il quale si è messo in testa, vedendomi passare, che fossi un’immagine mandata dall’aldilà, come mi ha rivelato successivamente. Per lo stesso motivo hanno scelto anche Massimo Serato, una mattina all’alba a piazza Navona».Un’altra fatalità!«Mi ha presentato il regista, non parlavo inglese, quindi Mariotti traduceva: mi ha detto cosa voleva e io dopo una settimana ho registrato dei demo sul Nagra proprio al Conservatorio di Venezia. Roeg li ha sentiti e gli sono piaciuti molto, soprattutto il tema che ha inserito subito nel montaggio di una scena d’amore. A Londra il produttore Peter Katz non mi voleva: “Non possiamo dare un film così importante a uno che non hai mai scritto per il cinema”, però è arrivato il finanziatore americano - io per questo sono un po’ legato agli americani -, che ha visto il film con la moglie e ha detto: “Il film è bellissimo e quella musica che c’è sotto cos’è?”. “Mah, è di uno di Venezia che però non ha mai fatto film”. “Se scrive così, che problemi abbiamo?”. Così sono stato preso».Il suo nome come compositore è legato al cinema di Brian De Palma.«Sempre per fatalità. Un tizio è passato per Londra, ha comprato il mio disco e quando De Palma cercava il musicista perché era morto Bernard Hermann, gli ha detto: “Vieni a mangiare da me. Ti faccio sentire un musicista”. L’ha sentito e gli è piaciuto, anche perché usavo gli archi come li usava Hermann e quindi ha trovato delle affinità. Mi ha chiamato e sono andato in America».Com’è umanamente?«Non è molto espansivo, è un po’ orso, ma quando ha sentito una scena di Carrie molto lunga mi ha fatto gli applausi in sala: “L’avrò vista mille volte per montarla, per girarla, per prepararla... ma ora è la prima volta che la vedo! Mi ha dato un’emozione che non avevo provato”. Lui al massimo ti dà una manata sulla spalla, non come Antonino Cannavacciuolo ma quasi, e ti dice: “Very good”».È il regista con il quale ha creato il sodalizio più proficuo dal punto di vista artistico?«Sì, quando si vuole divertire dice una battuta: “Ti ho tirato fuori dai canali di Venezia!” ed è vero in fondo perché devo a lui la popolarità in America. Ho fatto tanti altri film proprio perché i registi avevano sentito quello che avevo fatto con lui».Ha vissuto anche in America?«A periodi, sei mesi, sette mesi, poi tornavo perché preferivo scrivere a Venezia, il luogo che mi dà l’ispirazione. Nel mio studio sul Canal Grande respiro arte».Quando compone una colonna sonora, lavora sulla sceneggiatura o ha bisogno di vedere il film girato? «Per scrivere la musica devo avere i punti dove va inserita la musica, che vengono decisi insieme al regista. Quindi il film deve essere finito perché ogni scena da coprire ha una durata diversa e bisogna essere precisi. Tagliare sulla musica già composta è più difficile».Non le è mai capitato che un regista le abbia dato carta bianca, dicendo: «Componga la musica e poi la adattiamo alle immagini»?«Sì, con Lucio Fulci per Black Cat. Mi ha detto: “So che sei bravo, fai tutto te, ciao” e non l’ho più visto!».Strano perché Fulci aveva un passato musicale, da autore di canzoni come 24.000 baci e Il tuo bacio è come un rock.«Sì, l’ho conosciuto a Sanremo al mio debutto, ma non ci eravamo più incrociati. In una proiezione in Francia di due-tre film suoi, quando ha annunciato che preparava un nuovo film, gli hanno fatto il mio nome, dicendo che ero bravo e avevo lavorato con De Palma, e allora mi ha chiamato».Fra i registi con cui ha lavorato chi ha orecchio musicale?«A parte De Palma, Dario Argento e Sergio Rubini».Come si è trovato con Argento?«Bene. Abbiamo fatto Due occhi diabolici, Trauma, Do You Like Hitchcock?. Argento non vuole una colonna sonora uniforme dall’inizio alla fine, vuole sonorità diverse, passare dal jazz al rock». Il libro come nasce? Da una fatalità anche questo?«Sì, perché Anton Giulio Mancino voleva conoscermi e, tramite un giornalista amico comune, è venuto a trovarmi nel mio studio, con alcuni dischi da farmi firmare. Dopo un po’ di giorni mi ha telefonato: “Ti piacerebbe raccontare la tua storia?”. Quando nel 2015 ero andato al Festival di Sanremo, condotto da Carlo Conti, a prendere il premio per i 50 anni della canzone Io che non vivo, dopo di me è salita sul palco Virginia Raffaele che ha fatto una battuta: “Pino Donaggio che persino i parenti credevano fosse morto!”. Ho detto: “Ca…, qui nessuno sa quello che ho fatto dopo aver smesso di cantare, allora forse la biografia può illuminare qualcuno”».
Sehrii Kuznietsov (Getty Images)
13 agosto 2025: un F-35 italiano (a sinistra) affianca un Su-27 russo nei cieli del Baltico (Aeronautica Militare)
La mattina del 13 agosto due cacciabombardieri F-35 «Lightning II» dell’Aeronautica Militare italiana erano decollati dalla base di Amari, in Estonia, per attività addestrativa. Durante il volo i piloti italiani hanno ricevuto l’ordine di «scramble» per intercettare velivoli non identificati nello spazio aereo internazionale sotto il controllo della Nato. Intervenuti immediatamente, i due aerei italiani hanno raggiunto i jet russi, due Sukhoi (un Su-27 ed un Su-24), per esercitare l’azione di deterrenza. Per la prima volta dal loro schieramento, le forze aeree italiane hanno risposto ad un allarme del centro di coordinamento Nato CAOC (Combined Air Operations Centre) di Uadem in Germania. Un mese più tardi il segretario della Nato Mark Rutte, anche in seguito all’azione di droni russi in territorio polacco del 10 settembre, ha annunciato l’avvio dell’operazione «Eastern Sentry» (Sentinella dell’Est) per la difesa dello spazio aereo di tutto il fianco orientale dei Paesi europei aderenti all’Alleanza Atlantica di cui l’Aeronautica Militare sarà probabilmente parte attiva.
L’Aeronautica Militare Italiana è da tempo impegnata all’interno della Baltic Air Policing a difesa dei cieli di Lettonia, Estonia e Lituania. La forza aerea italiana partecipa con personale e velivoli provenienti dal 32° Stormo di Amendolara e del 6° Stormo di Ghedi, operanti con F-35 e Eurofighter Typhoon, che verranno schierati dal prossimo mese di ottobre provenienti da altri reparti. Il contingente italiano (di Aeronautica ed Esercito) costituisce in ambito interforze la Task Air Force -32nd Wing e dal 1°agosto 2025 ha assunto il comando della Baltic Air Policing sostituendo l’aeronautica militare portoghese. Attualmente i velivoli italiani sono schierati presso la base aerea di Amari, situata a 37 km a sudovest della capitale Tallinn. L’aeroporto, realizzato nel 1945 al termine della seconda guerra mondiale, fu utilizzato dall’aviazione sovietica per tutti gli anni della Guerra fredda fino al 1996 in seguito all’indipendenza dell’Estonia. Dal 2004, con l’ingresso delle repubbliche baltiche nello spazio aereo occidentale, la base è passata sotto il controllo delle forze aeree dell’Alleanza Atlantica, che hanno provveduto con grandi investimenti alla modernizzazione di un aeroporto rimasto all’era sovietica. Dal 2014, anno dell’invasione russa della Crimea, i velivoli della Nato stazionano in modo continuativo nell’ambito delle operazioni di difesa dello spazio aereo delle repubbliche baltiche. Per quanto riguarda l’Italia, quella del 2025 è la terza missione in Estonia, dopo quelle del 2018 e 2021.
Oltre ai cacciabombardieri F-35 l’Aeronautica Militare ha schierato ad Amari anche un sistema antimissile Samp/T e i velivoli spia Gulfstream E-550 CAEW (come quello decollato da Amari nelle immediate circostanze dell’attacco dei droni in Polonia del 10 settembre) e Beechcraft Super King Air 350ER SPYD-R.
Il contingente italiano dell'Aeronautica Militare è attualmente comandato dal colonnello Gaetano Farina, in passato comandante delle Frecce Tricolori.
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