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2023-02-23
Intesa Pfizer-Israele: le carte pubblicate sono piene di omissis
Albert Bourla (Ansa)
Sui contratti per i vaccini anti Covid di Pfizer si consuma un paradosso: più se ne sa, meno la faccenda si chiarisce. Prendete l’ultima: in Israele, dopo un’estenuante trafila, sono stati pubblicati gli accordi siglati dal governo con la casa farmaceutica. Un particolare balza all’occhio. Emerge dall’Appendice A al cosiddetto «Term sheet giuridicamente vincolante». Anzi, a voler essere precisi, da quelle pagine non emerge un bel niente. Il capitolo dedicato a «Responsabilità ed erogazione delle indennità», in caso di danni da inoculazione, risulta oscurato. Peraltro, il ministero della Salute israeliano si è vincolato, ai sensi della sezione 10.1, alla massima riservatezza. Risultato: le informazioni più succose, quelle che concernono l’eventualità in cui un vaccinato, danneggiato dal medicinale, avvii una causa in tribunale, sono nascoste da una lunga serie di omissis.
Chi paga per le reazioni avverse? Chi ne risponde in sede penale? Una risposta almeno parziale, qui nell’Ue, ce l’abbiamo. Ad aprile 2021, il quotidiano catalano La Vanguardia tirò fuori le carte della stipula tra Bruxelles e Pfizer, risalente a novembre 2020, per l’acquisto di 200 milioni di dosi di vaccino. Fu accertato che la società sarebbe stata esentata da qualsiasi responsabilità nell’ipotesi di danni a terzi, salvo che fossero stati accertati difetti nella produzione delle fiale. Lo scorso dicembre, durante il Consiglio europeo dei ministri della Salute, Orazio Schillaci aveva aggiunto un dettaglio: gli Stati sono tenuti a pagare le spese legali, se la multinazionale viene portata alla sbarra da un cittadino.
Da un lato, è comprensibile che Big pharma abbia strappato clausole vantaggiose, vista l’emergenza internazionale del 2020. Dall’altro, tocca registrare come le autorità pubbliche e l’Ue, che pure pretende di vantare maggior potere negoziale rispetto alle singole nazioni, abbiano calato le braghe al cospetto dei produttori. Il presunto successo dell’Unione è consistito nel sottostare a condizioni capestro, trattando in modo opaco: è quasi superfluo citare i messaggi privati tra Ursula von der Leyen e il ceo di Pfizer, Albert Bourla.
Chi dovrebbe difendere gli interessi della popolazione s’era invece impegnato a mega acquisizioni, com’è accaduto in Israele, ancor prima che i preparati delle ditte ricevessero le autorizzazioni provvisorie: un preliminare di Gerusalemme con Pfizer risale a luglio 2020, laddove il via libera alle iniezioni della prima agenzia regolatoria al mondo, quella britannica, sarebbe arrivato cinque mesi dopo. Va anche ricordato che Israele, pur di accelerare le consegne, aveva accettato di cedere all’azienda una mole impressionante di dati sanitari, trasformandosi, di fatto, in una sorta di laboratorio a cielo aperto. La campagna di somministrazioni, nel Paese mediorientale, ha funto dunque da studio sul campo. Non è un caso se è lì che ci si è resi conto che l’efficacia dei vaccini scemava rapidamente, che lo scudo da essi conferito veniva aggirato già dalla variante Delta e che, negli adolescenti, le somministrazioni potevano dare luogo a miocarditi e pericarditi. Ciliegina sulla torta: alla fine dello scorso anno, il responsabile del dicastero della Salute, Nitzan Horowitz, sosteneva di non riuscire più a trovare il faldone che illustrava i termini dell’accordo con il colosso farmaceutico.
La pubblicazione degli ultimi documenti non è passata in osservata, nel Vecchio continente. Se n’è accorto Rob Roos, l’eurodeputato olandese che, in audizione alla commissione d’inchiesta, aveva incalzato la rappresentante di Pfizer, Janine Small, costringendola ad ammettere che il vaccino non era mai stato testato per la capacità di bloccare la trasmissione del virus. Riferendosi alle pagine sbianchettate sulla responsabilità per gli effetti collaterali, l’esponente conservatore ha twittato: «È come al Parlamento europeo. Noi, in quanto membri della commissione speciale sul Covid, non abbiamo ancora visto un singolo contratto senza censure! Sono questi i cosiddetti “valori europei”? È questa la “trasparenza” che caratterizza una democrazia?». Intervistata dalla Verità, anche la numero uno del comitato, la socialista belga Kathleen Van Brempt, si era lamentata: «Sono convinta», aveva argomentato, «che i membri della commissione e del Parlamento europeo debbano avere pieno accesso ai contratti, senza parti oscurate, al fine di svolgere propriamente il loro lavoro. Non è accettabile che organismi cui i trattati conferiscono il compito di vigilare sul bilancio non possano accedere a tutte le informazioni rilevanti». Sacrosanto.
Giacché, man mano che affiorano nuovi elementi, la vicenda dei negoziati sui vaccini diventa più torbida, non sarebbe ora di sollevare il velo? Se è filato tutto liscio, se ognuno ha agito per il bene collettivo, cosa c’è nascondere?
L’Aifa fa la guerra alla vitamina D
All’Agenzia italiana del farmaco, la vitamina D è una pillola che proprio non va giù. Nel 2019, con la Nota 96 ne aveva limitato la prescrizione a carico del Sistema sanitario nazionale, pochi giorni fa ha messo nuovi paletti.
Il composto liposolubile, che agisce come un ormone steroideo, non è più rimborsabile se dal dosaggio ematico il valore della vitamina circolante risulta superiore a 30 ng/ml. Nelle precedenti indicazioni, il livello era stato fissato a 50, sotto il quale bisognava intervenire con un apporto supplementare ai fini della prevenzione dell’osteoporosi e delle sue complicanze. Malattia che in Italia colpisce circa cinque milioni di persone, secondo i dati Istat 2020.
Adesso, l’aggiornamento ci dice che prevenire non servirebbe più. E non andrebbero tenuti in considerazione studi corposi, nemmeno il documento dello scorso ottobre che riportava i risultati della quinta conferenza internazionale Controversies in vitamin D che si era tenuta a Stresa dal 15 al 18 settembre 2021 e dove, tra le altre cose , si evidenziava come «obiettivo della salute pubblica», quello «di ridurre il rischio di rachitismo e osteomalacia».
Poco importa, all’Aifa, che la conseguenza di quell’esclusione dal rimborso fu che, in epoca Covid, la riduzione dei consumi colpì soprattutto le persone della fascia 40-60 anni e di quella 60-81, in particolar modo donne. Soggetti a rischio di ipovitaminosi D e di osteoporosi, di cadute in età più avanzata. L’agenzia regolatoria nel report 2021 gongolava per la riduzione della spesa del 25% e per un risparmio medio mensile di circa 4,6 milioni di euro.
La nuova scure, per contenere le spese, è davvero giustificata? Secondo l’Aifa, c’è un’errata convinzione che la D serva per risolvere problematiche ossee e ci sarebbe un ricorso improprio all’assunzione «in persone sane asintomatiche», con rischio soprattutto di ipercalcemia, ovvero di alti livelli di calcio nel sangue. Non si ferma a questa considerazione, che ignora la contrazione dei consumi nelle fasce di età a rischio e le conseguenze, in termini di salute ma anche di costi sanitari, quando poi bisogna intervenire per fratture e altre complicanze. Aggiunge, che l’efficacia della vitamina D «nella lotta al Covid è stata smentita dagli studi progettati e condotti in modo corretto». E che «non esistono elementi» per considerarla «un ausilio importante per la lotta contro il coronavirus». Ancora una volta, l’Aifa esclude a priori benefici e ignora studi che giungono a ben altre conclusioni.
Come quello pubblicato pochi giorni fa su Science, che riporta come in pazienti con Covid sia stato accertato che «la carenza di vitamina D ha aumentato il rischio di morte di 5,6 volte», e «di 3,8 volte» quando i livelli del nutriente erano troppo bassi.
I ricercatori dell’Università di scienze della salute di Ankara dichiarano che è vero, età e sesso dei pazienti, obesità, qualsiasi malattia cronica, basso livello di vitamina D «hanno influito sulla gravità del Covid», però «il livello sierico di vitamina D, l’unico che può essere modificato tra i suddetti fattori, svolge un ruolo importante non solo nel metabolismo del calcio, ma anche nell’espressione di molti geni e nella regolazione dell’infiammazione», provocata dalla malattia.
Il suggerimento fornito dallo studio è che assumere l’ormone steroideo «potrebbe essere utile nel trattamento e/o nella prevenzione del Covid-19». L’esatto opposto di quanto sostiene la nostra agenzia del farmaco nell’aggiornamento della Nota 96.
«Consiglio la vitamina D, soprattutto quando i livelli sono bassi, inferiori a 50», spiega l’endocrinologo Vanni Frajese. «È un intervento a basso costo, facile da procurare, non vedo il senso di escluderlo da un rimborso, magari a favore di antivirali enormemente più cari». E sui quali l’Italia ha fatto importanti investimenti, come ricordava ieri La Verità, riportando il flop del Paxlovid di Pfizer e di Lagevrio della Merck malgrado i milioni di euro spesi. Pillole super costose, quanto poco funzionanti nel prevenire i contagi.
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Cancellata la parte sulla responsabilità in caso di eventi avversi che in Europa cade sugli Stati. Alla faccia della trasparenza...L’Aifa, che durante la pandemia ha ridotto le prescrizioni, ora taglia i rimborsi a chi ne è carente: «Non ha effetti contro il Covid». Eppure vari studi dimostrano il contrario.Lo speciale contiene due articoli.Sui contratti per i vaccini anti Covid di Pfizer si consuma un paradosso: più se ne sa, meno la faccenda si chiarisce. Prendete l’ultima: in Israele, dopo un’estenuante trafila, sono stati pubblicati gli accordi siglati dal governo con la casa farmaceutica. Un particolare balza all’occhio. Emerge dall’Appendice A al cosiddetto «Term sheet giuridicamente vincolante». Anzi, a voler essere precisi, da quelle pagine non emerge un bel niente. Il capitolo dedicato a «Responsabilità ed erogazione delle indennità», in caso di danni da inoculazione, risulta oscurato. Peraltro, il ministero della Salute israeliano si è vincolato, ai sensi della sezione 10.1, alla massima riservatezza. Risultato: le informazioni più succose, quelle che concernono l’eventualità in cui un vaccinato, danneggiato dal medicinale, avvii una causa in tribunale, sono nascoste da una lunga serie di omissis. Chi paga per le reazioni avverse? Chi ne risponde in sede penale? Una risposta almeno parziale, qui nell’Ue, ce l’abbiamo. Ad aprile 2021, il quotidiano catalano La Vanguardia tirò fuori le carte della stipula tra Bruxelles e Pfizer, risalente a novembre 2020, per l’acquisto di 200 milioni di dosi di vaccino. Fu accertato che la società sarebbe stata esentata da qualsiasi responsabilità nell’ipotesi di danni a terzi, salvo che fossero stati accertati difetti nella produzione delle fiale. Lo scorso dicembre, durante il Consiglio europeo dei ministri della Salute, Orazio Schillaci aveva aggiunto un dettaglio: gli Stati sono tenuti a pagare le spese legali, se la multinazionale viene portata alla sbarra da un cittadino.Da un lato, è comprensibile che Big pharma abbia strappato clausole vantaggiose, vista l’emergenza internazionale del 2020. Dall’altro, tocca registrare come le autorità pubbliche e l’Ue, che pure pretende di vantare maggior potere negoziale rispetto alle singole nazioni, abbiano calato le braghe al cospetto dei produttori. Il presunto successo dell’Unione è consistito nel sottostare a condizioni capestro, trattando in modo opaco: è quasi superfluo citare i messaggi privati tra Ursula von der Leyen e il ceo di Pfizer, Albert Bourla. Chi dovrebbe difendere gli interessi della popolazione s’era invece impegnato a mega acquisizioni, com’è accaduto in Israele, ancor prima che i preparati delle ditte ricevessero le autorizzazioni provvisorie: un preliminare di Gerusalemme con Pfizer risale a luglio 2020, laddove il via libera alle iniezioni della prima agenzia regolatoria al mondo, quella britannica, sarebbe arrivato cinque mesi dopo. Va anche ricordato che Israele, pur di accelerare le consegne, aveva accettato di cedere all’azienda una mole impressionante di dati sanitari, trasformandosi, di fatto, in una sorta di laboratorio a cielo aperto. La campagna di somministrazioni, nel Paese mediorientale, ha funto dunque da studio sul campo. Non è un caso se è lì che ci si è resi conto che l’efficacia dei vaccini scemava rapidamente, che lo scudo da essi conferito veniva aggirato già dalla variante Delta e che, negli adolescenti, le somministrazioni potevano dare luogo a miocarditi e pericarditi. Ciliegina sulla torta: alla fine dello scorso anno, il responsabile del dicastero della Salute, Nitzan Horowitz, sosteneva di non riuscire più a trovare il faldone che illustrava i termini dell’accordo con il colosso farmaceutico. La pubblicazione degli ultimi documenti non è passata in osservata, nel Vecchio continente. Se n’è accorto Rob Roos, l’eurodeputato olandese che, in audizione alla commissione d’inchiesta, aveva incalzato la rappresentante di Pfizer, Janine Small, costringendola ad ammettere che il vaccino non era mai stato testato per la capacità di bloccare la trasmissione del virus. Riferendosi alle pagine sbianchettate sulla responsabilità per gli effetti collaterali, l’esponente conservatore ha twittato: «È come al Parlamento europeo. Noi, in quanto membri della commissione speciale sul Covid, non abbiamo ancora visto un singolo contratto senza censure! Sono questi i cosiddetti “valori europei”? È questa la “trasparenza” che caratterizza una democrazia?». Intervistata dalla Verità, anche la numero uno del comitato, la socialista belga Kathleen Van Brempt, si era lamentata: «Sono convinta», aveva argomentato, «che i membri della commissione e del Parlamento europeo debbano avere pieno accesso ai contratti, senza parti oscurate, al fine di svolgere propriamente il loro lavoro. Non è accettabile che organismi cui i trattati conferiscono il compito di vigilare sul bilancio non possano accedere a tutte le informazioni rilevanti». Sacrosanto. Giacché, man mano che affiorano nuovi elementi, la vicenda dei negoziati sui vaccini diventa più torbida, non sarebbe ora di sollevare il velo? Se è filato tutto liscio, se ognuno ha agito per il bene collettivo, cosa c’è nascondere?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pfizer-israele-vaccino-aifa-2659458055.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="laifa-fa-la-guerra-alla-vitamina-d" data-post-id="2659458055" data-published-at="1677159516" data-use-pagination="False"> L’Aifa fa la guerra alla vitamina D All’Agenzia italiana del farmaco, la vitamina D è una pillola che proprio non va giù. Nel 2019, con la Nota 96 ne aveva limitato la prescrizione a carico del Sistema sanitario nazionale, pochi giorni fa ha messo nuovi paletti. Il composto liposolubile, che agisce come un ormone steroideo, non è più rimborsabile se dal dosaggio ematico il valore della vitamina circolante risulta superiore a 30 ng/ml. Nelle precedenti indicazioni, il livello era stato fissato a 50, sotto il quale bisognava intervenire con un apporto supplementare ai fini della prevenzione dell’osteoporosi e delle sue complicanze. Malattia che in Italia colpisce circa cinque milioni di persone, secondo i dati Istat 2020. Adesso, l’aggiornamento ci dice che prevenire non servirebbe più. E non andrebbero tenuti in considerazione studi corposi, nemmeno il documento dello scorso ottobre che riportava i risultati della quinta conferenza internazionale Controversies in vitamin D che si era tenuta a Stresa dal 15 al 18 settembre 2021 e dove, tra le altre cose , si evidenziava come «obiettivo della salute pubblica», quello «di ridurre il rischio di rachitismo e osteomalacia». Poco importa, all’Aifa, che la conseguenza di quell’esclusione dal rimborso fu che, in epoca Covid, la riduzione dei consumi colpì soprattutto le persone della fascia 40-60 anni e di quella 60-81, in particolar modo donne. Soggetti a rischio di ipovitaminosi D e di osteoporosi, di cadute in età più avanzata. L’agenzia regolatoria nel report 2021 gongolava per la riduzione della spesa del 25% e per un risparmio medio mensile di circa 4,6 milioni di euro. La nuova scure, per contenere le spese, è davvero giustificata? Secondo l’Aifa, c’è un’errata convinzione che la D serva per risolvere problematiche ossee e ci sarebbe un ricorso improprio all’assunzione «in persone sane asintomatiche», con rischio soprattutto di ipercalcemia, ovvero di alti livelli di calcio nel sangue. Non si ferma a questa considerazione, che ignora la contrazione dei consumi nelle fasce di età a rischio e le conseguenze, in termini di salute ma anche di costi sanitari, quando poi bisogna intervenire per fratture e altre complicanze. Aggiunge, che l’efficacia della vitamina D «nella lotta al Covid è stata smentita dagli studi progettati e condotti in modo corretto». E che «non esistono elementi» per considerarla «un ausilio importante per la lotta contro il coronavirus». Ancora una volta, l’Aifa esclude a priori benefici e ignora studi che giungono a ben altre conclusioni. Come quello pubblicato pochi giorni fa su Science, che riporta come in pazienti con Covid sia stato accertato che «la carenza di vitamina D ha aumentato il rischio di morte di 5,6 volte», e «di 3,8 volte» quando i livelli del nutriente erano troppo bassi. I ricercatori dell’Università di scienze della salute di Ankara dichiarano che è vero, età e sesso dei pazienti, obesità, qualsiasi malattia cronica, basso livello di vitamina D «hanno influito sulla gravità del Covid», però «il livello sierico di vitamina D, l’unico che può essere modificato tra i suddetti fattori, svolge un ruolo importante non solo nel metabolismo del calcio, ma anche nell’espressione di molti geni e nella regolazione dell’infiammazione», provocata dalla malattia. Il suggerimento fornito dallo studio è che assumere l’ormone steroideo «potrebbe essere utile nel trattamento e/o nella prevenzione del Covid-19». L’esatto opposto di quanto sostiene la nostra agenzia del farmaco nell’aggiornamento della Nota 96. «Consiglio la vitamina D, soprattutto quando i livelli sono bassi, inferiori a 50», spiega l’endocrinologo Vanni Frajese. «È un intervento a basso costo, facile da procurare, non vedo il senso di escluderlo da un rimborso, magari a favore di antivirali enormemente più cari». E sui quali l’Italia ha fatto importanti investimenti, come ricordava ieri La Verità, riportando il flop del Paxlovid di Pfizer e di Lagevrio della Merck malgrado i milioni di euro spesi. Pillole super costose, quanto poco funzionanti nel prevenire i contagi.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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