2023-02-23
Intesa Pfizer-Israele: le carte pubblicate sono piene di omissis
Cancellata la parte sulla responsabilità in caso di eventi avversi che in Europa cade sugli Stati. Alla faccia della trasparenza...L’Aifa, che durante la pandemia ha ridotto le prescrizioni, ora taglia i rimborsi a chi ne è carente: «Non ha effetti contro il Covid». Eppure vari studi dimostrano il contrario.Lo speciale contiene due articoli.Sui contratti per i vaccini anti Covid di Pfizer si consuma un paradosso: più se ne sa, meno la faccenda si chiarisce. Prendete l’ultima: in Israele, dopo un’estenuante trafila, sono stati pubblicati gli accordi siglati dal governo con la casa farmaceutica. Un particolare balza all’occhio. Emerge dall’Appendice A al cosiddetto «Term sheet giuridicamente vincolante». Anzi, a voler essere precisi, da quelle pagine non emerge un bel niente. Il capitolo dedicato a «Responsabilità ed erogazione delle indennità», in caso di danni da inoculazione, risulta oscurato. Peraltro, il ministero della Salute israeliano si è vincolato, ai sensi della sezione 10.1, alla massima riservatezza. Risultato: le informazioni più succose, quelle che concernono l’eventualità in cui un vaccinato, danneggiato dal medicinale, avvii una causa in tribunale, sono nascoste da una lunga serie di omissis. Chi paga per le reazioni avverse? Chi ne risponde in sede penale? Una risposta almeno parziale, qui nell’Ue, ce l’abbiamo. Ad aprile 2021, il quotidiano catalano La Vanguardia tirò fuori le carte della stipula tra Bruxelles e Pfizer, risalente a novembre 2020, per l’acquisto di 200 milioni di dosi di vaccino. Fu accertato che la società sarebbe stata esentata da qualsiasi responsabilità nell’ipotesi di danni a terzi, salvo che fossero stati accertati difetti nella produzione delle fiale. Lo scorso dicembre, durante il Consiglio europeo dei ministri della Salute, Orazio Schillaci aveva aggiunto un dettaglio: gli Stati sono tenuti a pagare le spese legali, se la multinazionale viene portata alla sbarra da un cittadino.Da un lato, è comprensibile che Big pharma abbia strappato clausole vantaggiose, vista l’emergenza internazionale del 2020. Dall’altro, tocca registrare come le autorità pubbliche e l’Ue, che pure pretende di vantare maggior potere negoziale rispetto alle singole nazioni, abbiano calato le braghe al cospetto dei produttori. Il presunto successo dell’Unione è consistito nel sottostare a condizioni capestro, trattando in modo opaco: è quasi superfluo citare i messaggi privati tra Ursula von der Leyen e il ceo di Pfizer, Albert Bourla. Chi dovrebbe difendere gli interessi della popolazione s’era invece impegnato a mega acquisizioni, com’è accaduto in Israele, ancor prima che i preparati delle ditte ricevessero le autorizzazioni provvisorie: un preliminare di Gerusalemme con Pfizer risale a luglio 2020, laddove il via libera alle iniezioni della prima agenzia regolatoria al mondo, quella britannica, sarebbe arrivato cinque mesi dopo. Va anche ricordato che Israele, pur di accelerare le consegne, aveva accettato di cedere all’azienda una mole impressionante di dati sanitari, trasformandosi, di fatto, in una sorta di laboratorio a cielo aperto. La campagna di somministrazioni, nel Paese mediorientale, ha funto dunque da studio sul campo. Non è un caso se è lì che ci si è resi conto che l’efficacia dei vaccini scemava rapidamente, che lo scudo da essi conferito veniva aggirato già dalla variante Delta e che, negli adolescenti, le somministrazioni potevano dare luogo a miocarditi e pericarditi. Ciliegina sulla torta: alla fine dello scorso anno, il responsabile del dicastero della Salute, Nitzan Horowitz, sosteneva di non riuscire più a trovare il faldone che illustrava i termini dell’accordo con il colosso farmaceutico. La pubblicazione degli ultimi documenti non è passata in osservata, nel Vecchio continente. Se n’è accorto Rob Roos, l’eurodeputato olandese che, in audizione alla commissione d’inchiesta, aveva incalzato la rappresentante di Pfizer, Janine Small, costringendola ad ammettere che il vaccino non era mai stato testato per la capacità di bloccare la trasmissione del virus. Riferendosi alle pagine sbianchettate sulla responsabilità per gli effetti collaterali, l’esponente conservatore ha twittato: «È come al Parlamento europeo. Noi, in quanto membri della commissione speciale sul Covid, non abbiamo ancora visto un singolo contratto senza censure! Sono questi i cosiddetti “valori europei”? È questa la “trasparenza” che caratterizza una democrazia?». Intervistata dalla Verità, anche la numero uno del comitato, la socialista belga Kathleen Van Brempt, si era lamentata: «Sono convinta», aveva argomentato, «che i membri della commissione e del Parlamento europeo debbano avere pieno accesso ai contratti, senza parti oscurate, al fine di svolgere propriamente il loro lavoro. Non è accettabile che organismi cui i trattati conferiscono il compito di vigilare sul bilancio non possano accedere a tutte le informazioni rilevanti». Sacrosanto. Giacché, man mano che affiorano nuovi elementi, la vicenda dei negoziati sui vaccini diventa più torbida, non sarebbe ora di sollevare il velo? Se è filato tutto liscio, se ognuno ha agito per il bene collettivo, cosa c’è nascondere?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pfizer-israele-vaccino-aifa-2659458055.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="laifa-fa-la-guerra-alla-vitamina-d" data-post-id="2659458055" data-published-at="1677159516" data-use-pagination="False"> L’Aifa fa la guerra alla vitamina D All’Agenzia italiana del farmaco, la vitamina D è una pillola che proprio non va giù. Nel 2019, con la Nota 96 ne aveva limitato la prescrizione a carico del Sistema sanitario nazionale, pochi giorni fa ha messo nuovi paletti. Il composto liposolubile, che agisce come un ormone steroideo, non è più rimborsabile se dal dosaggio ematico il valore della vitamina circolante risulta superiore a 30 ng/ml. Nelle precedenti indicazioni, il livello era stato fissato a 50, sotto il quale bisognava intervenire con un apporto supplementare ai fini della prevenzione dell’osteoporosi e delle sue complicanze. Malattia che in Italia colpisce circa cinque milioni di persone, secondo i dati Istat 2020. Adesso, l’aggiornamento ci dice che prevenire non servirebbe più. E non andrebbero tenuti in considerazione studi corposi, nemmeno il documento dello scorso ottobre che riportava i risultati della quinta conferenza internazionale Controversies in vitamin D che si era tenuta a Stresa dal 15 al 18 settembre 2021 e dove, tra le altre cose , si evidenziava come «obiettivo della salute pubblica», quello «di ridurre il rischio di rachitismo e osteomalacia». Poco importa, all’Aifa, che la conseguenza di quell’esclusione dal rimborso fu che, in epoca Covid, la riduzione dei consumi colpì soprattutto le persone della fascia 40-60 anni e di quella 60-81, in particolar modo donne. Soggetti a rischio di ipovitaminosi D e di osteoporosi, di cadute in età più avanzata. L’agenzia regolatoria nel report 2021 gongolava per la riduzione della spesa del 25% e per un risparmio medio mensile di circa 4,6 milioni di euro. La nuova scure, per contenere le spese, è davvero giustificata? Secondo l’Aifa, c’è un’errata convinzione che la D serva per risolvere problematiche ossee e ci sarebbe un ricorso improprio all’assunzione «in persone sane asintomatiche», con rischio soprattutto di ipercalcemia, ovvero di alti livelli di calcio nel sangue. Non si ferma a questa considerazione, che ignora la contrazione dei consumi nelle fasce di età a rischio e le conseguenze, in termini di salute ma anche di costi sanitari, quando poi bisogna intervenire per fratture e altre complicanze. Aggiunge, che l’efficacia della vitamina D «nella lotta al Covid è stata smentita dagli studi progettati e condotti in modo corretto». E che «non esistono elementi» per considerarla «un ausilio importante per la lotta contro il coronavirus». Ancora una volta, l’Aifa esclude a priori benefici e ignora studi che giungono a ben altre conclusioni. Come quello pubblicato pochi giorni fa su Science, che riporta come in pazienti con Covid sia stato accertato che «la carenza di vitamina D ha aumentato il rischio di morte di 5,6 volte», e «di 3,8 volte» quando i livelli del nutriente erano troppo bassi. I ricercatori dell’Università di scienze della salute di Ankara dichiarano che è vero, età e sesso dei pazienti, obesità, qualsiasi malattia cronica, basso livello di vitamina D «hanno influito sulla gravità del Covid», però «il livello sierico di vitamina D, l’unico che può essere modificato tra i suddetti fattori, svolge un ruolo importante non solo nel metabolismo del calcio, ma anche nell’espressione di molti geni e nella regolazione dell’infiammazione», provocata dalla malattia. Il suggerimento fornito dallo studio è che assumere l’ormone steroideo «potrebbe essere utile nel trattamento e/o nella prevenzione del Covid-19». L’esatto opposto di quanto sostiene la nostra agenzia del farmaco nell’aggiornamento della Nota 96. «Consiglio la vitamina D, soprattutto quando i livelli sono bassi, inferiori a 50», spiega l’endocrinologo Vanni Frajese. «È un intervento a basso costo, facile da procurare, non vedo il senso di escluderlo da un rimborso, magari a favore di antivirali enormemente più cari». E sui quali l’Italia ha fatto importanti investimenti, come ricordava ieri La Verità, riportando il flop del Paxlovid di Pfizer e di Lagevrio della Merck malgrado i milioni di euro spesi. Pillole super costose, quanto poco funzionanti nel prevenire i contagi.