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2020-04-13
L’élite francese salvata dal coronavirus grazie ai gilet gialli e Berlino
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Emmanuel Macron (foto Ansa)
Chi l'avrebbe mai detto? Dopo essere stati presi di mira con proiettili di gomma, lacrimogeni, idranti o granate dispersive, dopo aver subito mutilazioni permanenti, il popolo dei gilet gialli lotta per cercare di salvare la Francia e le sue élite politico-economiche dal Covid-19. La lista delle professioni in trincea contro il morbo cinese è lunga. Come avviene in Italia, migliaia di infermieri, medici, autotrasportatori, cassiere, addetti alle pulizie, agricoltori, poliziotti, pompieri e molti altri lavoratori, stanno facendo di tutto per salvare i malati o mantenere una minima attività economica. Solo qualche mese fa queste stesse categorie sociali o professionali scendevano in piazza per protestare contro la perdita di potere d'acquisto e di dignità del proprio lavoro. Ad attenderli c'erano i discorsi mondialisti, lodi sperticate rivolte all'Unione Europea e, soprattutto, manganelli e altri strumenti di mantenimento dell'ordine già citati. Sin dall'inizio del suo mandato al vertice dello stato francese, Emmanuel Macron ha dichiarato una guerra nemmeno troppo nascosta a una certa parte della società d'oltralpe. Uno dei suoi primi atti sono state le ordinanze che hanno ridotto la possibilità di impugnare i licenziamenti senza giusta causa. Uno strappo alla legislazione francese, estremamente protettiva nei confronti dei lavoratori dipendenti. Nei quasi tre anni del suo mandato, l'inquilino dell'Eliseo si è rivolto a più riprese con parole sprezzanti ai suoi compatrioti meno fortunati di lui. Li ha chiamati «Galli refrattari ai cambiamenti». In un'altra occasione ha detto a un giovane disoccupato che bastava «attraversare la strada per trovare un lavoro».
Nel suo discorso alla nazione del 31 dicembre 2018 ha parlato di «una folla piena di odio», alludendo ai gilet gialli che avevano iniziato a protestare nel novembre di quell'anno. Ma se, in patria, Monsieur le Président faceva il forte con i deboli, in ambito europeo suonava tutta un'altra musica. In particolare nei confronti della Germania di Angela Merkel, che ha sempre risposto picche alle proposte di Parigi volte ad alleggerire l'atteggiamento rigorista in campo economico, di Berlino e dei suoi satelliti. Sebbene l'attuale capo dello Stato francese sia, come vari suoi predecessori, ipnotizzato dal mantra del couple franco-allemand (la coppia franco-tedesca, ndr) sembra che a lui, la situazione sia scappata di mano. E questa crisi sanitaria mette in luce l'impossibilità per la Francia di rimanere ancora a lungo genuflessa davanti ai diktat tedeschi. Questo perché forse, anche le ingiunzioni di Berlino hanno contribuito, nel corso degli ultimi due decenni, all'indebolimento del sistema sanitario transalpino in nome del rispetto delle regole di bilancio Ue. Nelle ultime riunioni del Consiglio europeo, convocate per discutere dell'emissione dei coronabond, la Francia è apparsa un po' smarrita. Con mille giravolte ha cercato di ottenere l'emissione delle obbligazioni garantite dai 27 e, allo stesso tempo, di non mancare di rispetto ai falchi d'oltre Reno. Ma mentre chi governa la Francia tenta di mantenere i destini del Paese legati, mani e piedi a quelli della Germania ammantandoli in una dimensione europea, i francesi confinati, mandano un messaggio ben diverso alle loro élite. Chiedono che tutti i cittadini possano beneficiare dignitosamente delle risorse del Paese, che questo piaccia o no alla Germania.
L'emergenza sanitaria e quella tentazione di controllare i cittadini francesi

upload.wikimedia.org
L'emergenza coronavirus ha obbligato il governo e la presidenza della repubblica francesi a intervenire in vari ambiti. Sul fronte economico, il Consiglio dei Ministri del 25 marzo scorso, ha adottato 25 ordinanze. Un record per la produzione di leggi di matrice governativa che non veniva battuto dal 1958. In quell'anno, c'era stato il putsch di Algeri e il generale Charles de Gaulle era stato chiamato a salvare il Paese. Come prevedeva la costituzione della IV Repubblica, venne nominato presidente del consiglio. Con una legge costituzionale,il parlamento gli aveva accordato, per sei mesi, la possibilità di governare attraverso delle ordinanze. de Gaulle fu l'ultimo presidente del consiglio della IV Repubblica. Di lì a poco fece nascere, con un referendum dall'esito bulgaro, la V Repubblica che riconosce poteri molto ampi al Presidente della Repubblica. Un incarico che de Gaulle assunse per primo e che, attualmente, è ricoperto da Emmanuel Macron.
Tornando a oggi, a differenza delle misure prese dal governo de Gaulle, quelle decise dall'esecutivo guidato da Edouard Philippe, hanno soprattutto un carattere economico. Trai cambiamenti più importanti introdotti il 25 marzo 2020, figurano le modifiche al diritto del lavoro. Il numero massimo di ore lavorate a settimana è stato portato a 60. Anche le regole per le ferie sono state modificate. Inoltre è stato varato un fondo di solidarietà per le piccole e piccolissime imprese. Nonostante queste misure abbiano un carattere temporaneo e straordinario, nella patria delle 35 ore, qualcuno ha storto il naso. Il sindacato Force Ouvrière ha definito le misure «un'eresia».
Il segretario generale del sindacato Cgt, Philippe Martinez le ha bollate come «scandalose». Il timore dei sindacati è che con la scusa della pandemia, il governo ne approfitti per smantellare alcuni elementi fondamentali del diritto del lavoro francese. Oltre ai temi economici, l'esecutivo di Parigi - che come quello guidato da Giuseppe Conte in Italia si è fatto trovare assolutamente impreparato di fronte alla pandemia - ha iniziato anche a riflettere su delle iniziative per cercare di arginare la diffusione del virus cinese. Una di queste è l'ipotesi di usare i cellulari per tracciare i movimenti delle persone risultate positive al Covid-19. L'8 aprile scorso, il Segretario di Stato alle questioni digitali Cédric O, ha dovuto tranquillizzare i parlamentari d'oltralpe, preoccupati per l'uso dell'applicazione StopCovid, alla quale sta lavorando il governo. Il rappresentante dell'esecutivo ha garantito che l'app servirà per «tracciare le informazioni e non gli individui». Ma queste spiegazioni all'acqua di rose non fugano i timori di molti parlamentari, giornalisti ed esponenti della Francia "del basso". Questo perché il Segretario di Stato e, più in generale l'intero apparato della macronia, hanno dei precedenti che non lasciano sperare nulla di buono in materia di libertà e di rispetto della privacy. Cedric O, ad esempio, si è sempre detto favorevole all'uso del riconoscimento facciale. Come scriveva Le Monde il 14 ottobre 2019 - quando a Parigi ancora sfilavano ogni settimana manifestazioni di protesta - il Segretario di Stato riteneva «necessario per far avanzare i nostri industriali» che la Francia iniziasse a «sperimentare il riconoscimento facciale». Pochi mesi dopo l'inizio della protesta dei gilet gialli, il parlamento francese ha approvato la «legge anti casseurs» che, tra le altre cose, prevede un anno di carcere per chi nasconde il viso durante una manifestazione. In occasione delle manifestazioni in giallo, svoltesi ogni sabato per oltre un anno, il ministero dell'Interno, guidato da Christophe Castaner, ha praticato ampiamente l'uso del fermo preventivo di persone considerate potenzialmente pericolose dalle forze dell'ordine. Questo però non ha impedito,ad esempio, a dei militanti pro Palestina di aggredire verbalmente, con insulti antisemiti, personalità di spicco come il filosofo e scrittore Alain Finkielkraut.
Non va dimenticato che Emmanuel Macron ha fatto approvare una legge che consente alle autorità di Parigi di spegnere dei canali e delle emittenti radio straniere, in periodo elettorale. Una legge sospettata di voler chiudere la bocca a Russia Today France. Inoltre, il presidente transalpino non ha mai nascosto la sua ossessione contro le fake news. Questo lo ha spinto molto lontano con immaginazione. Come scriveva il 2 febbraio 2019, Etienne Gernelle, direttore del settimanale Le Point, sul sito del giornale, Macron si era detto pronto a remunerare dei giornalisti con i soldi pubblici. Per fare cosa? Ecco cosa scriveva il direttore del settimanale «Il presidente della Repubblica propone che lo Stato paghi certi giornalisti (presenti) nelle redazioni» perché questi assicurino «la verifica» delle informazioni. Alla luce di queste informazioni, è facile capire perché l'idea di tracciare i cellulari per limitare la diffusione del Covid-19, non piace a molti francesi come ha confermato a La Verità anche il leader dei gilet gialli, Maxime Nicolle, la cui intervista è inclusa in questo focus.
«I soldi pubblici sono stati investiti nei proiettili di gomma, non nei posti letto»

Maxime Nicolle (@ M. Ghisalberti)
Il suo nome in codice è Fly Rider, la barba rossa che porta ben tagliata lo ha reso uno dei volti più riconoscibili del movimento dei gilet gialli, fin dai primi atti. Sebbene sia popolarissimo sui social network e, da qualche mese anche giornalista (*) per un media indipendente chiamato QG, Maxime Nicolle ha tenuto i piedi ben piantati per terra. Come il movimento in giallo, anche Nicolle è stato spesso preso di mira dai media mainstream che lo hanno accusato di essere un complottista. La polizia lo ha multato e fermato come se fosse un soggetto estremamente pericoloso, ma il discorso tenuto da questo trentatreenne non abbia mai inneggiato alla violenza. Tra l'altro, quando in Francia iniziava a farsi strada l'idea della chiusura del Paese per evitare la diffusione del virus cinese, Nicolle era stato tra i leader del movimento in Giallo ad invitare i suoi compagni a non scendere in piazza. Per senso di responsabilità. Intervistato da La Verità, Maxime Nicolle spiega come la Francia "del basso" stia salvando quella "dell'alto", rappresentata dalle élite politico-economiche.
Il leader in giallo non è particolarmente sorpreso dall'azione del governo di Parigi di fronte alla pandemia di Covid-19. Questo perché, secondo lui «la crisi sanitaria è gestita da persone che pensano alla finanza prima che alla gente». Questo vale non solo per il settore sanitario dato che, continua la figura del movimento in giallo, «chi ci governa, ha deciso di: ridurre, tagliare, smettere di produrre localmente o a livello nazionale. Il tutto, per poter privatizzare e risparmiare. Il problema è che questo presunto risparmio ha permesso a dei grandi gruppi di guadagnare soldi e distribuire dividendi agli azionisti». L'enorme numero di decessi registrati in Francia a causa del virus cinese è, per Fly Rider, «una conseguenza diretta del fatto che i soldi pubblici non sono finiti nel posto giusto. Ciò vale, ad esempio il numero crescente di agricoltori costretti a cedere i propri terreni a delle aziende agricole più grandi».
In parallelo sono sempre più numerosi i lavoratori agricoli che finiscono «sotto padrone». Per Maxime Nicolle è vero che la Francia dei "piccoli" sta contribuendo a salvare dal coronavirus la Francia al vertice della piramide sociale. «L'80-90% della gente di questo Paese lavora e produce ricchezza. Sono loro che tengono in piedi la Francia. Ma i politici non sono stati attenti a questa gente» dice il gilet giallo. Per lui «è normale che in una crisi come quella che stiamo vivendo, questa gente semplice riesca ad andare avanti. Sono persone abituate a fare fatica e ad aiutare. Lo dimostrano le varie iniziative solidali nate un po' ovunque. Negli ultimi due anni ne ho vista molta di solidarietà» ricorda Nicolle che, per raggiungere le manifestazioni del sabato, ha spesso ottenuto dei passaggi offerti da altri gilet gialli. «D'altra parte - continua il leader in giallo - c'è una differenza tra i politici, che guadagnano salari mirabolanti, e i cittadini comuni. Questi ultimi, quando non hanno da mangiare, bussano alla porta del vicino per chiedere aiuto. Ci vuole molto coraggio e bisogna mettere da parte la fierezza. I politici non capiscono tutto ciò». Per spiegare le cause dell'impreparazione della Francia di fronte all'emergenza sanitaria, Maxime Nicolle invita a fare un parallelo tra il periodo delle proteste dei gilet gialli e la crisi del coronavirus. «Dove sono stati investiti i soldi pubblici in questi ultimi anni?». Si chiede. «La risposta è semplice. Non nei posti letto in ospedale o nella produzione di gel disinfettante e mascherine. Piuttosto, questi soldi sono stati utilizzati per le protezioni antisommossa destinate alle forze dell'ordine, per acquistare fucili per proiettili di gomma (LBD40), granate anti accerchiamento e gas lacrimogeni. Sono stati spesi i soldi per gestire le proteste dei cittadini ma non per curarli».
In merito alla possibilità di ricorrere al tracking dei cellulari per combattere la propagazione del virus cinese, Maxime Nicolle si mostra preoccupato. «Sulla carta potrebbe sembrare un'idea interessante - spiega a La Verità - perché tracciare il contagio, permetterebbe di sapere chi è entrato potenzialmente in contatto con dei malati di Covid-19. Il problema è che quando si gioca con la paura della gente, con la scusa della protezione, si possono costringere i cittadini ad accettare praticamente tutto». Con il coronavirus, ricorda Nicolle, «la prima cosa importante per proteggersi è fare attenzione al proprio comportamento. Per proteggere se stessi e gli altri bisogna usare le maschere, rispettare le distanze sociali, lavarsi le mani frequentemente e adottare i gesti barriera». «Se ognuno facesse queste cose - conclude Maxime Nicolle - non servirebbe un'applicazione per sapere se ci siano o meno stati contatti con persone malate. Se si abitua la gente al fatto che le autorità traccino gli spostamenti con il pretesto della sicurezza, rischiamo di aprire la porta ad altre forme di controllo e di tracciamento».
(*) Maxime Nicolle è l'autore di: Fly Rider Gilet Jaune (Edizioni Au Diable Vauvert, 2019)
«La Francia è ossessionata dal concetto fittizio chiamato "la coppia franco-tedesca"»

Frédéric Farah
Frédéric Farah è un economista e docente di scienze economiche e sociali all'università Paris 1 Panthéon Sorbonne. È ricercatore associato del Laboratorio Phare della Sorbona. Ha scritto il libro Europe la grande liquidation démocratique (*) ed è co-autore, insieme a Thomas Porcher, di Tafta: l'accord du plus fort; e di Introduction inquiète à la Macron-économie. Le projet du Président (**).
Parlando con La Verità, Frédéric Farah spiega che la Francia «è ossessionata dal concetto fittizio chiamato "la coppia franco-tedesca"». A causa di ciò, dagli anni ottanta in poi, Parigi non ha mai smesso di guardare oltre Reno fino ad arrivare ad accettare la cooperazione governativa, proposta da Angela Merkel». Cosi facendo però, secondo l'economista, «la Francia ha smesso di essere quell'interfaccia tra il Nord e il Sud dell'Europa. Parigi ha scommesso sul fatto che rinunciando a una parte della propria sovranità, andando più in avanti rispetto alle attese tedesche e mostrando un certo senso del rigore, le cose avrebbero potuto cambiare. Che la Germania avrebbe modificato la propria posizione in materia dell'economia Ue». Invece sappiamo tutti com'è andata a finire. Fatta questa premessa generale, i rapporti tra Parigi e Roma possono essere osservati sotto una luce diversa. «Tra l'Italia e la Francia ci sono state recentemente molte frizioni, soprattutto ai tempi del governo sostenuto dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle» ricorda Farah. Come non ricordare, ad esempio, il richiamo dell'ambasciatore francese in Italia,dopo la visita a sorpresa di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista ad alcuni gilet gialli nel febbraio del 2019. «Con il ritorno del Partito democratico al governo, la Francia ha tirato un sospiro di sollievo». Spiega ancora l'economista che però precisa che «non esiste un'iniziativa franco-italiana (simile a quella franco-tedesca, ndr), o di un sostegno convinto all'Italia da parte di Parigi». Secondo il professore universitario però, la Francia non ha interesse a lasciar cadere l'Italia né a «depredarla». Innanzitutto perché questo presupporrebbe l'esistenza di una strategia di Parigi nei confronti Berlino «ad esempio - spiega l'economista - quella di costringere la Germania a cambiare posizione, o di minacciare l'uscita dall'Unione. Ma dubito che le élite francesi abbiano dei piani simili». «Inoltre - prosegue Farah - non bisogna dimenticare che le banche francesi detengono circa 400 miliardi del debito italiano. La Germania, invece, ha 126 miliardi di euro di debito di Roma nelle proprie banche. Quindi, entrambi entrambi i Paesi devono prestare attenzione alla situazione italiana». Nonostante l'appiattimento di Emmanuel Macron davanti alle posizioni di Angela Merkel, sia inutile, visto che la Germania non molla in tema di rigore, Parigi non sembra voler cambiare direzione. «Già nel 2012, quando Spagna e Italia avevano presentato una posizione comune, la Francia non le ha sostenute. Finché questa élite sarà al potere in Francia, non credo che Parigi prenderà le redini di un fronte sudista per bilanciare quello nordista» dice Frédéric Farah. Nonostante la posizione subalterna di Parigi nei confronti di Berlino però, vista dall'estero, l'ipotesi di un "Ital-Exit" resta per ora remota secondo l'economista che, tuttavia, non esclude che «la crisi potrebbe accelerare». «Negli ambienti mainstream europeisti - commenta il docente universitario - l'idea di un'uscita dell'Italia dall'Ue è vista come una sciagura. Molti non la ritengono realizzabile perché penso impossibile che l'Italia venga lasciata sola, anche perché gli italiani sono sempre stati molto europeisti». «In questi ambienti - commenta Farah - si spera che ad un certo punto arrivi la cavalleria» per salvare il soldato Italia. «Sotto sotto si spera che la Bce intervenga se gli Stati non lo fanno e che, alla fine, prevarrà la ragione».
Farah ritiene che questa opinione sia supportata anche dalla presenza dell'attuale governo italiano, poco ostile alla Ue. Per l'economista comunque, «nonostante l'Italia abbia subito un peggioramento del proprio tenore di vita, dopo l'adesione all'Euro, è difficile che gli italiani scelgano di aggiungere incertezza alla crisi». Per questo, per Farah è più probabile «una secessione proveniente dal Nord piuttosto che dal Sud. Ad esempio se la Germania ritenesse di poter continuare da sola,accompagnata dai suoi satelliti: Austria, Olanda e Finlandia». In ogni caso per Frédéric Farah, non ritiene che sia possibile dire che l'Italia rischi di farsi «spolpare» dalla Francia. «Ci troviamo piuttosto in una condizione generalizzata di assenza di solidarietà a livello europeo - conclude l'economista - basato sulla logica di competizione e del tutti contro tutti. Anche per questo l'Ue non può essere una democrazia perché non è una comunità di ridistribuzione della ricchezza».
Note
(*) Europe: la grande liquidation démocratique, Breal Editions (2017)
(**) Introduction inquiète à la Macron-économie - Le projet du président, Editions Les PetitsMatins (2017). Tafta: Les accords du plus fort, Max Milo Editions (2014)
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Questa crisi sanitaria mette in luce l'impossibilità per la Francia di rimanere ancora a lungo genuflessa davanti ai diktat tedeschi. I cittadini però chiedono di beneficiare dignitosamente delle risorse del Paese, che questo piaccia o no alla Germania.Non mancano i problemi in materia di libertà e rispetto della privacy sullo sviluppo da parte del governo dell'applicazione StopCovid per provare ad arginare la diffusione del virus.Il gilet giallo Maxime Nicolle: «Negli ultimi anni i soldi pubblici sono stati usati per comprare proiettili di gomma piuttosto che per finanziare i posti letto negli ospedali».L'economista Frédéric Farah: «La Francia ha smesso di essere quell'interfaccia tra il Nord e il Sud dell'Europa. E non mostra un sostegno convinto all'Italia».Lo speciale contiene quattro articoli.Chi l'avrebbe mai detto? Dopo essere stati presi di mira con proiettili di gomma, lacrimogeni, idranti o granate dispersive, dopo aver subito mutilazioni permanenti, il popolo dei gilet gialli lotta per cercare di salvare la Francia e le sue élite politico-economiche dal Covid-19. La lista delle professioni in trincea contro il morbo cinese è lunga. Come avviene in Italia, migliaia di infermieri, medici, autotrasportatori, cassiere, addetti alle pulizie, agricoltori, poliziotti, pompieri e molti altri lavoratori, stanno facendo di tutto per salvare i malati o mantenere una minima attività economica. Solo qualche mese fa queste stesse categorie sociali o professionali scendevano in piazza per protestare contro la perdita di potere d'acquisto e di dignità del proprio lavoro. Ad attenderli c'erano i discorsi mondialisti, lodi sperticate rivolte all'Unione Europea e, soprattutto, manganelli e altri strumenti di mantenimento dell'ordine già citati. Sin dall'inizio del suo mandato al vertice dello stato francese, Emmanuel Macron ha dichiarato una guerra nemmeno troppo nascosta a una certa parte della società d'oltralpe. Uno dei suoi primi atti sono state le ordinanze che hanno ridotto la possibilità di impugnare i licenziamenti senza giusta causa. Uno strappo alla legislazione francese, estremamente protettiva nei confronti dei lavoratori dipendenti. Nei quasi tre anni del suo mandato, l'inquilino dell'Eliseo si è rivolto a più riprese con parole sprezzanti ai suoi compatrioti meno fortunati di lui. Li ha chiamati «Galli refrattari ai cambiamenti». In un'altra occasione ha detto a un giovane disoccupato che bastava «attraversare la strada per trovare un lavoro».Nel suo discorso alla nazione del 31 dicembre 2018 ha parlato di «una folla piena di odio», alludendo ai gilet gialli che avevano iniziato a protestare nel novembre di quell'anno. Ma se, in patria, Monsieur le Président faceva il forte con i deboli, in ambito europeo suonava tutta un'altra musica. In particolare nei confronti della Germania di Angela Merkel, che ha sempre risposto picche alle proposte di Parigi volte ad alleggerire l'atteggiamento rigorista in campo economico, di Berlino e dei suoi satelliti. Sebbene l'attuale capo dello Stato francese sia, come vari suoi predecessori, ipnotizzato dal mantra del couple franco-allemand (la coppia franco-tedesca, ndr) sembra che a lui, la situazione sia scappata di mano. E questa crisi sanitaria mette in luce l'impossibilità per la Francia di rimanere ancora a lungo genuflessa davanti ai diktat tedeschi. Questo perché forse, anche le ingiunzioni di Berlino hanno contribuito, nel corso degli ultimi due decenni, all'indebolimento del sistema sanitario transalpino in nome del rispetto delle regole di bilancio Ue. Nelle ultime riunioni del Consiglio europeo, convocate per discutere dell'emissione dei coronabond, la Francia è apparsa un po' smarrita. Con mille giravolte ha cercato di ottenere l'emissione delle obbligazioni garantite dai 27 e, allo stesso tempo, di non mancare di rispetto ai falchi d'oltre Reno. Ma mentre chi governa la Francia tenta di mantenere i destini del Paese legati, mani e piedi a quelli della Germania ammantandoli in una dimensione europea, i francesi confinati, mandano un messaggio ben diverso alle loro élite. Chiedono che tutti i cittadini possano beneficiare dignitosamente delle risorse del Paese, che questo piaccia o no alla Germania.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/pezzo-ghisalberti-2645693883.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="l-emergenza-sanitaria-e-quella-tentazione-di-controllare-i-cittadini-francesi" data-post-id="2645693883" data-published-at="1586609070" data-use-pagination="False"> L'emergenza sanitaria e quella tentazione di controllare i cittadini francesi upload.wikimedia.org L'emergenza coronavirus ha obbligato il governo e la presidenza della repubblica francesi a intervenire in vari ambiti. Sul fronte economico, il Consiglio dei Ministri del 25 marzo scorso, ha adottato 25 ordinanze. Un record per la produzione di leggi di matrice governativa che non veniva battuto dal 1958. In quell'anno, c'era stato il putsch di Algeri e il generale Charles de Gaulle era stato chiamato a salvare il Paese. Come prevedeva la costituzione della IV Repubblica, venne nominato presidente del consiglio. Con una legge costituzionale,il parlamento gli aveva accordato, per sei mesi, la possibilità di governare attraverso delle ordinanze. de Gaulle fu l'ultimo presidente del consiglio della IV Repubblica. Di lì a poco fece nascere, con un referendum dall'esito bulgaro, la V Repubblica che riconosce poteri molto ampi al Presidente della Repubblica. Un incarico che de Gaulle assunse per primo e che, attualmente, è ricoperto da Emmanuel Macron.Tornando a oggi, a differenza delle misure prese dal governo de Gaulle, quelle decise dall'esecutivo guidato da Edouard Philippe, hanno soprattutto un carattere economico. Trai cambiamenti più importanti introdotti il 25 marzo 2020, figurano le modifiche al diritto del lavoro. Il numero massimo di ore lavorate a settimana è stato portato a 60. Anche le regole per le ferie sono state modificate. Inoltre è stato varato un fondo di solidarietà per le piccole e piccolissime imprese. Nonostante queste misure abbiano un carattere temporaneo e straordinario, nella patria delle 35 ore, qualcuno ha storto il naso. Il sindacato Force Ouvrière ha definito le misure «un'eresia».Il segretario generale del sindacato Cgt, Philippe Martinez le ha bollate come «scandalose». Il timore dei sindacati è che con la scusa della pandemia, il governo ne approfitti per smantellare alcuni elementi fondamentali del diritto del lavoro francese. Oltre ai temi economici, l'esecutivo di Parigi - che come quello guidato da Giuseppe Conte in Italia si è fatto trovare assolutamente impreparato di fronte alla pandemia - ha iniziato anche a riflettere su delle iniziative per cercare di arginare la diffusione del virus cinese. Una di queste è l'ipotesi di usare i cellulari per tracciare i movimenti delle persone risultate positive al Covid-19. L'8 aprile scorso, il Segretario di Stato alle questioni digitali Cédric O, ha dovuto tranquillizzare i parlamentari d'oltralpe, preoccupati per l'uso dell'applicazione StopCovid, alla quale sta lavorando il governo. Il rappresentante dell'esecutivo ha garantito che l'app servirà per «tracciare le informazioni e non gli individui». Ma queste spiegazioni all'acqua di rose non fugano i timori di molti parlamentari, giornalisti ed esponenti della Francia "del basso". Questo perché il Segretario di Stato e, più in generale l'intero apparato della macronia, hanno dei precedenti che non lasciano sperare nulla di buono in materia di libertà e di rispetto della privacy. Cedric O, ad esempio, si è sempre detto favorevole all'uso del riconoscimento facciale. Come scriveva Le Monde il 14 ottobre 2019 - quando a Parigi ancora sfilavano ogni settimana manifestazioni di protesta - il Segretario di Stato riteneva «necessario per far avanzare i nostri industriali» che la Francia iniziasse a «sperimentare il riconoscimento facciale». Pochi mesi dopo l'inizio della protesta dei gilet gialli, il parlamento francese ha approvato la «legge anti casseurs» che, tra le altre cose, prevede un anno di carcere per chi nasconde il viso durante una manifestazione. In occasione delle manifestazioni in giallo, svoltesi ogni sabato per oltre un anno, il ministero dell'Interno, guidato da Christophe Castaner, ha praticato ampiamente l'uso del fermo preventivo di persone considerate potenzialmente pericolose dalle forze dell'ordine. Questo però non ha impedito,ad esempio, a dei militanti pro Palestina di aggredire verbalmente, con insulti antisemiti, personalità di spicco come il filosofo e scrittore Alain Finkielkraut.Non va dimenticato che Emmanuel Macron ha fatto approvare una legge che consente alle autorità di Parigi di spegnere dei canali e delle emittenti radio straniere, in periodo elettorale. Una legge sospettata di voler chiudere la bocca a Russia Today France. Inoltre, il presidente transalpino non ha mai nascosto la sua ossessione contro le fake news. Questo lo ha spinto molto lontano con immaginazione. Come scriveva il 2 febbraio 2019, Etienne Gernelle, direttore del settimanale Le Point, sul sito del giornale, Macron si era detto pronto a remunerare dei giornalisti con i soldi pubblici. Per fare cosa? Ecco cosa scriveva il direttore del settimanale «Il presidente della Repubblica propone che lo Stato paghi certi giornalisti (presenti) nelle redazioni» perché questi assicurino «la verifica» delle informazioni. Alla luce di queste informazioni, è facile capire perché l'idea di tracciare i cellulari per limitare la diffusione del Covid-19, non piace a molti francesi come ha confermato a La Verità anche il leader dei gilet gialli, Maxime Nicolle, la cui intervista è inclusa in questo focus. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/pezzo-ghisalberti-2645693883.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="i-soldi-pubblici-sono-stati-investiti-nei-proiettili-di-gomma-non-nei-posti-letto" data-post-id="2645693883" data-published-at="1586609070" data-use-pagination="False"> «I soldi pubblici sono stati investiti nei proiettili di gomma, non nei posti letto» Maxime Nicolle (@ M. Ghisalberti) Il suo nome in codice è Fly Rider, la barba rossa che porta ben tagliata lo ha reso uno dei volti più riconoscibili del movimento dei gilet gialli, fin dai primi atti. Sebbene sia popolarissimo sui social network e, da qualche mese anche giornalista (*) per un media indipendente chiamato QG, Maxime Nicolle ha tenuto i piedi ben piantati per terra. Come il movimento in giallo, anche Nicolle è stato spesso preso di mira dai media mainstream che lo hanno accusato di essere un complottista. La polizia lo ha multato e fermato come se fosse un soggetto estremamente pericoloso, ma il discorso tenuto da questo trentatreenne non abbia mai inneggiato alla violenza. Tra l'altro, quando in Francia iniziava a farsi strada l'idea della chiusura del Paese per evitare la diffusione del virus cinese, Nicolle era stato tra i leader del movimento in Giallo ad invitare i suoi compagni a non scendere in piazza. Per senso di responsabilità. Intervistato da La Verità, Maxime Nicolle spiega come la Francia "del basso" stia salvando quella "dell'alto", rappresentata dalle élite politico-economiche. Il leader in giallo non è particolarmente sorpreso dall'azione del governo di Parigi di fronte alla pandemia di Covid-19. Questo perché, secondo lui «la crisi sanitaria è gestita da persone che pensano alla finanza prima che alla gente». Questo vale non solo per il settore sanitario dato che, continua la figura del movimento in giallo, «chi ci governa, ha deciso di: ridurre, tagliare, smettere di produrre localmente o a livello nazionale. Il tutto, per poter privatizzare e risparmiare. Il problema è che questo presunto risparmio ha permesso a dei grandi gruppi di guadagnare soldi e distribuire dividendi agli azionisti». L'enorme numero di decessi registrati in Francia a causa del virus cinese è, per Fly Rider, «una conseguenza diretta del fatto che i soldi pubblici non sono finiti nel posto giusto. Ciò vale, ad esempio il numero crescente di agricoltori costretti a cedere i propri terreni a delle aziende agricole più grandi».In parallelo sono sempre più numerosi i lavoratori agricoli che finiscono «sotto padrone». Per Maxime Nicolle è vero che la Francia dei "piccoli" sta contribuendo a salvare dal coronavirus la Francia al vertice della piramide sociale. «L'80-90% della gente di questo Paese lavora e produce ricchezza. Sono loro che tengono in piedi la Francia. Ma i politici non sono stati attenti a questa gente» dice il gilet giallo. Per lui «è normale che in una crisi come quella che stiamo vivendo, questa gente semplice riesca ad andare avanti. Sono persone abituate a fare fatica e ad aiutare. Lo dimostrano le varie iniziative solidali nate un po' ovunque. Negli ultimi due anni ne ho vista molta di solidarietà» ricorda Nicolle che, per raggiungere le manifestazioni del sabato, ha spesso ottenuto dei passaggi offerti da altri gilet gialli. «D'altra parte - continua il leader in giallo - c'è una differenza tra i politici, che guadagnano salari mirabolanti, e i cittadini comuni. Questi ultimi, quando non hanno da mangiare, bussano alla porta del vicino per chiedere aiuto. Ci vuole molto coraggio e bisogna mettere da parte la fierezza. I politici non capiscono tutto ciò». Per spiegare le cause dell'impreparazione della Francia di fronte all'emergenza sanitaria, Maxime Nicolle invita a fare un parallelo tra il periodo delle proteste dei gilet gialli e la crisi del coronavirus. «Dove sono stati investiti i soldi pubblici in questi ultimi anni?». Si chiede. «La risposta è semplice. Non nei posti letto in ospedale o nella produzione di gel disinfettante e mascherine. Piuttosto, questi soldi sono stati utilizzati per le protezioni antisommossa destinate alle forze dell'ordine, per acquistare fucili per proiettili di gomma (LBD40), granate anti accerchiamento e gas lacrimogeni. Sono stati spesi i soldi per gestire le proteste dei cittadini ma non per curarli».In merito alla possibilità di ricorrere al tracking dei cellulari per combattere la propagazione del virus cinese, Maxime Nicolle si mostra preoccupato. «Sulla carta potrebbe sembrare un'idea interessante - spiega a La Verità - perché tracciare il contagio, permetterebbe di sapere chi è entrato potenzialmente in contatto con dei malati di Covid-19. Il problema è che quando si gioca con la paura della gente, con la scusa della protezione, si possono costringere i cittadini ad accettare praticamente tutto». Con il coronavirus, ricorda Nicolle, «la prima cosa importante per proteggersi è fare attenzione al proprio comportamento. Per proteggere se stessi e gli altri bisogna usare le maschere, rispettare le distanze sociali, lavarsi le mani frequentemente e adottare i gesti barriera». «Se ognuno facesse queste cose - conclude Maxime Nicolle - non servirebbe un'applicazione per sapere se ci siano o meno stati contatti con persone malate. Se si abitua la gente al fatto che le autorità traccino gli spostamenti con il pretesto della sicurezza, rischiamo di aprire la porta ad altre forme di controllo e di tracciamento».(*) Maxime Nicolle è l'autore di: Fly Rider Gilet Jaune (Edizioni Au Diable Vauvert, 2019) <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/pezzo-ghisalberti-2645693883.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="la-francia-e-ossessionata-dal-concetto-fittizio-chiamato-la-coppia-franco-tedesca" data-post-id="2645693883" data-published-at="1586609070" data-use-pagination="False"> «La Francia è ossessionata dal concetto fittizio chiamato "la coppia franco-tedesca"» Frédéric Farah Frédéric Farah è un economista e docente di scienze economiche e sociali all'università Paris 1 Panthéon Sorbonne. È ricercatore associato del Laboratorio Phare della Sorbona. Ha scritto il libro Europe la grande liquidation démocratique (*) ed è co-autore, insieme a Thomas Porcher, di Tafta: l'accord du plus fort; e di Introduction inquiète à la Macron-économie. Le projet du Président (**).Parlando con La Verità, Frédéric Farah spiega che la Francia «è ossessionata dal concetto fittizio chiamato "la coppia franco-tedesca"». A causa di ciò, dagli anni ottanta in poi, Parigi non ha mai smesso di guardare oltre Reno fino ad arrivare ad accettare la cooperazione governativa, proposta da Angela Merkel». Cosi facendo però, secondo l'economista, «la Francia ha smesso di essere quell'interfaccia tra il Nord e il Sud dell'Europa. Parigi ha scommesso sul fatto che rinunciando a una parte della propria sovranità, andando più in avanti rispetto alle attese tedesche e mostrando un certo senso del rigore, le cose avrebbero potuto cambiare. Che la Germania avrebbe modificato la propria posizione in materia dell'economia Ue». Invece sappiamo tutti com'è andata a finire. Fatta questa premessa generale, i rapporti tra Parigi e Roma possono essere osservati sotto una luce diversa. «Tra l'Italia e la Francia ci sono state recentemente molte frizioni, soprattutto ai tempi del governo sostenuto dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle» ricorda Farah. Come non ricordare, ad esempio, il richiamo dell'ambasciatore francese in Italia,dopo la visita a sorpresa di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista ad alcuni gilet gialli nel febbraio del 2019. «Con il ritorno del Partito democratico al governo, la Francia ha tirato un sospiro di sollievo». Spiega ancora l'economista che però precisa che «non esiste un'iniziativa franco-italiana (simile a quella franco-tedesca, ndr), o di un sostegno convinto all'Italia da parte di Parigi». Secondo il professore universitario però, la Francia non ha interesse a lasciar cadere l'Italia né a «depredarla». Innanzitutto perché questo presupporrebbe l'esistenza di una strategia di Parigi nei confronti Berlino «ad esempio - spiega l'economista - quella di costringere la Germania a cambiare posizione, o di minacciare l'uscita dall'Unione. Ma dubito che le élite francesi abbiano dei piani simili». «Inoltre - prosegue Farah - non bisogna dimenticare che le banche francesi detengono circa 400 miliardi del debito italiano. La Germania, invece, ha 126 miliardi di euro di debito di Roma nelle proprie banche. Quindi, entrambi entrambi i Paesi devono prestare attenzione alla situazione italiana». Nonostante l'appiattimento di Emmanuel Macron davanti alle posizioni di Angela Merkel, sia inutile, visto che la Germania non molla in tema di rigore, Parigi non sembra voler cambiare direzione. «Già nel 2012, quando Spagna e Italia avevano presentato una posizione comune, la Francia non le ha sostenute. Finché questa élite sarà al potere in Francia, non credo che Parigi prenderà le redini di un fronte sudista per bilanciare quello nordista» dice Frédéric Farah. Nonostante la posizione subalterna di Parigi nei confronti di Berlino però, vista dall'estero, l'ipotesi di un "Ital-Exit" resta per ora remota secondo l'economista che, tuttavia, non esclude che «la crisi potrebbe accelerare». «Negli ambienti mainstream europeisti - commenta il docente universitario - l'idea di un'uscita dell'Italia dall'Ue è vista come una sciagura. Molti non la ritengono realizzabile perché penso impossibile che l'Italia venga lasciata sola, anche perché gli italiani sono sempre stati molto europeisti». «In questi ambienti - commenta Farah - si spera che ad un certo punto arrivi la cavalleria» per salvare il soldato Italia. «Sotto sotto si spera che la Bce intervenga se gli Stati non lo fanno e che, alla fine, prevarrà la ragione».Farah ritiene che questa opinione sia supportata anche dalla presenza dell'attuale governo italiano, poco ostile alla Ue. Per l'economista comunque, «nonostante l'Italia abbia subito un peggioramento del proprio tenore di vita, dopo l'adesione all'Euro, è difficile che gli italiani scelgano di aggiungere incertezza alla crisi». Per questo, per Farah è più probabile «una secessione proveniente dal Nord piuttosto che dal Sud. Ad esempio se la Germania ritenesse di poter continuare da sola,accompagnata dai suoi satelliti: Austria, Olanda e Finlandia». In ogni caso per Frédéric Farah, non ritiene che sia possibile dire che l'Italia rischi di farsi «spolpare» dalla Francia. «Ci troviamo piuttosto in una condizione generalizzata di assenza di solidarietà a livello europeo - conclude l'economista - basato sulla logica di competizione e del tutti contro tutti. Anche per questo l'Ue non può essere una democrazia perché non è una comunità di ridistribuzione della ricchezza».Note(*) Europe: la grande liquidation démocratique, Breal Editions (2017)(**) Introduction inquiète à la Macron-économie - Le projet du président, Editions Les PetitsMatins (2017). Tafta: Les accords du plus fort, Max Milo Editions (2014)
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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