
Da Enea profugo ai legionari neri: la storia classica viene sempre più spesso riscritta in senso buonista. Ma la realtà antica ci parla di confini inviolabili e di divinità deputate a proteggere le identità dei popoli.Per imporre l'idea che la società multirazziale sia il nostro destino, tutto fa brodo. Anche giocare con il passato. Un settore particolarmente attivo dell'attuale ministero della Propaganda è quello della rilettura della storia con lenti boldriniane. Meglio ancora se è storia classica, sfruttando così l'autorevolezza di riferimenti culturali indiscutibili: se così facevano romani e greci, chi siamo noi per fare altrimenti? Operazione raffinata, ma anche contraddittoria: se siamo davvero tutti meticci, biologicamente e culturalmente, se non abbiamo radici, se siamo cittadini del mondo, perché l'esempio di Roma antica dovrebbe toccarci più di quello della cultura degli aborigeni australiani? Ma si sa, il fanatismo ideologico non teme obiezioni logiche. Tutta la romanità è allora arruolata per dimostrarci quanto sia bello e giusto spalancare le porte e azzerare le frontiere. Curioso destino, per una città nata dal cranio fracassato di un tizio che aveva avuto l'ardire di oltrepassare il confine appena tracciato dal fratello... Prendiamo un esempio fra tanti, eternamente ribadito: l'idea che Roma sia stata fondata da un «profugo turco», cioè Enea. Proprio quel che si dice una origine «meticcia». Peccato che, ovviamente, Enea non fosse turco, bensì troiano (i turchi arrivarono in quell'area solo nel XI secolo d.C.) e, benché venga definito da Virgilio profugus già nel secondo verso dell'Eneide, era uno che la guerra l'aveva combattuta, non fuggita.Eppure il luogo comune dell'immigrato Enea continua a piacere. «Fa impressione pensare che il viaggio del profugo Enea stia alla base della fondazione mitica della civiltà italiana, ne riassuma la radice meticcia, ne descriva la genesi drammatica», scriveva sull'edizione bresciana del Corriere della Sera Massimo Tedeschi, in un articolo eloquentemente intitolato «Enea, antenato dei profughi di oggi». E anche il solitamente ottimo Andrea Carandini, in un suo saggio sul culto di Vesta, non ha potuto fare a meno di scrivere che «il mare di Sicilia pullula di profughi, che scappano da orribili tragedie: le tante Troie oggi distrutte. Di fronte a un profugo bisognerebbe porsi questa domanda: “Se fosse un altro Enea?"». Forse molti non sanno (Carandini sì, quindi fa finta di non saperlo) che, Eneide alla mano, il viaggio dell'eroe troiano fu in realtà un... ritorno. Egli era infatti uno dei discendenti di Dardano, capostipite mitico salpato anticamente dall'Italia per andare a fondare Troia. Quando Enea interroga Apollo su quale sia la terra che gli è destinata dopo la fuga da Troia, il dio risponde così: «Forti Troiani, la terra da cui traete origine, prima culla dei padri, vi vedrà ritornare nel suo seno materno, reduci. Su, cercate l'antica madre». E quando i penati appaiono in sogno e mostrano l'Italia, dichiarano: «Questa è la nostra sede; qui Dardano è nato ed è nato il vecchio Iaso: il primo, radice della nostra stirpe». Alla faccia dei profughi e dei meticci: Enea è autoctono, altroché. Italiano purosangue. Non sta emigrando, sta tornando a casa, anche se all'inizio ancora non lo sa.E come non ricordare il caso di quel cartoon inglese del 2014, prodotto dalla Bbc, in cui si vede un militare romano in stanziato in Britannia con spiccati caratteri somatici africani? La storica Mary Beard difese la scelta, subito rilanciata da Repubblica, che titolava: «Fatevene una ragione: gli antichi romani erano molto africani (persino in Britannia)». Secondo la storica, il catoon rappresenterebbe Quinto Lollio Urbico, nativo della Numidia, oggi Algeria, e già governatore della Britannia tra il 139 e il 142 d.C. Peccato che Lollio Urbico fosse discendente di famiglie romane appartenenti a due gentes italiche, quella dei Lolli (laziale) e quella dei Granii (campana), le quali si trasferirono nella provincia numidica. E comunque, fosse anche stato africano, sarebbe stato più simile a un berbero che a un subsahariano.Ora, tuttavia, la medesima operazione viene compiuta anche nei confronti della religione romana.È il caso, per esempio, della recente raccolta collettanea uscita per i tipi di Carocci, Roma, la città degli dèi, a cura di Corinne Bonnet ed Ennio Sanzi. L'introduzione è esplicita: si tratta, dicono i curatori, di mostrare come Roma abbia dato vita «a una religiosità multiculturale, ovverosia “aperta", un argomentum, oggi, di un'attualità drammatica e di fronte alla quale ancora una volta lo studio dell'uomo antico corrobora tutte le persone “di buona volontà" nel non abbassare mai la guardia nei confronti dei pericoli legati alle demagogiche generalizzazioni sempre acritiche e astoriche». Non manca, subito dopo, la più classica delle citazioni, ovvero l'homo sum, humani nihil a me alienum puto («Sono un essere umano, nulla che sia umano mi è estraneo»), che è il verso 77 dell'Heautontimorùmenos di Terenzio. Un'altra citazione spesso decontestualizzata, che nel testo originale aveva tutt'altro sapore. A pronunciarla è infatti un personaggio, Cremete, che ha appena suggerito a tal Menedemo di lavorare meno e di far sgobbare al suo posto gli schiavi. Fatti gli affari tuoi, replica in buona sostanza l'altro, al che Cremete spiega, appunto, che essendo un essere umano anche quelli sono affari suoi. Quindi, in pratica, la frase che ha fatto sognare tanti liceali sinceramente democratici viene invocata come scusa per farsi i fatti altrui, per di più da un convinto schiavista. Davvero un bel messaggio da attualizzare. E ancora, nella conclusione, i curatori del saggio non possono esimersi dal sottolineare «le cogenti analogie di quanto fin qui ricordato con la contemporaneità nella quale siamo chiamati a essere cittadini di Stati “aperti", ancor più nel momento in cui si sentono voci crudeli che parlano di nuove e disumane mura, di qualsiasi natura esse siano, da innalzare al fine di rinnegare il naturale movimento degli uomini nell'ecumene». E pazienza se, per i romani, le mura della città non erano certo «disumane», quanto semmai «sovrumane», dato che edificate con un rito sacro.Quanto alla nota «apertura» della religione romana, spesso disposta a integrare culti stranieri, la cosa non va raccontata avendo in mente le fisime odierne sull'integrazione e sulla necessità di non offendere la sensibilità degli altri culti.Basti ricordare che per accedere al sacerdozio pubblico romano o ad altri sodalizi e cariche religiose occorreva godere della piena cittadinanza romana, così come per essere magistrati. E anche al culto pubblico degli dèi romani erano ammessi solo i cives romani, lo straniero ne era escluso. Diplomatici e persino re stranieri che intendevano pregare nei templi romani dovevano sempre domandare preventivamente un permesso speciale al Senato. Vi era inoltre il divieto di introdurre i sacra peregrina, cioè i culti stranieri, all'interno del pomerium, ovvero il perimetro sacro dell'Urbe. È vero che, al di fuori degli stretti paletti posti da tali norme, culti esotici venivano spesso integrati nel sistema religioso romano, ma ciò avveniva sempre in modo «vigilato», affinché l'identità romana non venisse meno. E sempre partendo da rapporti di forza favorevoli, come nel caso dell'evocatio, la «cattura» di un dio straniero, nel corso di una guerra, per sottrarre al nemico la protezione divina. Il che non è proprio il massimo del dialogo interreligioso: adotto il tuo dio, ma nel frattempo ti rado al suolo la città.Un caso particolare di finto ecumenismo religioso, al quale peraltro Roma, la città degli dèi dedica due saggi (uno dei quali orientato in senso... filo gender) è quello della Cibele frigia, la Mater Magna. Si tratta di un culto importato durante la seconda guerra punica, con Annibale alle porte, in un momento di grande crisi militare e morale per Roma. I Libri sibillini, consultati, avevano vaticinato: «Qualora un nemico straniero porti la guerra in Italia, lo si potrà cacciare e vincere, se la “madre idea" sarà da Pessinunte tratta a Roma». La madre idea, dal monte Ida, presso Troia, era appunto Cibele, che quindi viene portata a Roma come divinità della stirpe (si ricordi il nesso tra Troia e Roma) contro il «nemico straniero» (hostis alienigena) e per proteggere non solo l'Urbe, bensì l'Italia intera. Si tratta, secondo gli studiosi, della prima emersione di un'idea non solo geografica, ma anche politica e addirittura sacrale della «terra Italia», minacciata dal nemico africano, pericoloso in quanto «diverso» nel senso più radicale possibile. Con tanti saluti al buonismo degli storici contemporanei.
Federica Picchi (Ansa)
Il sottosegretario di Fratelli d’Italia è stato sfiduciato per aver condiviso un post della Casa Bianca sull’eccesso di vaccinazioni nei bimbi. Più che la reazione dei compagni, stupiscono i 20 voti a favore tra azzurri e leghisti.
Al Pirellone martedì pomeriggio è andata in scena una vergognosa farsa. Per aver condiviso a settembre, nelle storie di Instagram (che dopo 24 ore spariscono), un video della Casa Bianca di pochi minuti, è stata sfiduciata la sottosegretaria allo Sport Federica Picchi, in quota Fratelli d’Italia. A far sobbalzare lorsignori consiglieri non è stato il proclama terroristico di un lupo solitario o una sequela di insulti al governo della Lombardia, bensì una riflessione del presidente americano Donald Trump sull’eccessiva somministrazione di vaccini ai bambini piccoli. Nessuno, peraltro, ha visto quel video ripostato da Picchi, come hanno confermato gli stessi eletti al Pirellone, eppure è stata montata ad arte la storia grottesca di un Consiglio regionale vilipeso e infangato.
Jannik Sinner (Ansa)
Alle Atp Finals di Torino, in programma dal 9 al 16 novembre, il campione in carica Jannik Sinner trova Zverev, Shelton e uno tra Musetti e Auger-Aliassime. Nel gruppo opposto Alcaraz e Djokovic: il duello per il numero 1 mondiale passa dall'Inalpi Arena.
Il 24enne di Sesto Pusteria, campione in carica e in corsa per chiudere l’anno da numero 1 al mondo, è stato inserito nel gruppo Bjorn Borg insieme ad Alexander Zverev, Ben Shelton e uno tra Felix Auger-Aliassime e Lorenzo Musetti. Il toscano, infatti, saprà soltanto dopo l’Atp 250 di Atene - in corso in questi giorni in Grecia - se riuscirà a strappare l’ultimo pass utile per entrare nel tabellone principale o se resterà la prima riserva.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Negli anni Dieci del secolo XX il fisiologo triestino Amedeo Herlitzka sperimentò a Torino le prime apparecchiature per l'addestramento dei piloti, simulando da terra le condizioni del volo.
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Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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Stadio di San Siro (Imagoeconomica)
Ieri il Meazza è diventato, per 197 milioni, ufficialmente di proprietà di Milan e Inter. Una compravendita sulla quale i pm ipotizzano una turbativa d’asta: nel mirino c’è il bando, contestato da un potenziale acquirente per le tempistiche troppo strette.
Azione-reazione, come il martelletto sul ginocchio. Il riflesso rotuleo della Procura di Milano indica un’ottima salute del sistema nervoso, sembra quello di Jannik Sinner. Erano trascorsi pochi minuti dalla firma del rogito con il quale lo stadio di San Siro è passato dal Comune ai club Inter e Milan che dal quarto piano del tribunale è ufficialmente partita un’inchiesta per turbativa d’asta. Se le Montblanc di Paolo Scaroni e Beppe Marotta fossero state scariche, il siluro giudiziario sarebbe arrivato anche prima delle firme, quindi prima dell’ipotetica fattispecie di reato. Il rito ambrosiano funziona così.











